«Caro Leonard, guardare la vita in faccia, sempre; guardare la vita in faccia; e conoscerla, per quello che è; al fine, conoscerla; amarla, per quello che è; e poi, metterla da parte. Leonard, per sempre, gli anni che abbiamo trascorso; per sempre, gli anni; per sempre, l’amore; per sempre, le ore.»
(Virginia Woolf)
Così si chiude The Hours, adattamento cinematografico dell’omonimo romanzo di Michael Cunningham, vincitore del primo Pulitzer, diretto nel 2002 da Stephen Daldry.
Il film è sceneggiato con maestria da David Hare e porta alla luce un cast eccellente, tra cui campeggiano sontuose Meryl Streep e Julianne Moore, ma soprattutto Nicole Kidman, che nel 2003 vince l’Oscar per la sua tumultuosa interpretazione di Virginia Woolf, figura che è cuore pulsante dell’opera.

Le ore è un romanzo del 1999 che si pone come omaggio alla Woolf, musa ispiratrice dell’autore, la quale non solo prende vita nell’opera, ma anche voce: è uno stile di scrittura fatto di monologhi interiori, moti dell’animo, flussi di coscienza che scorrono come le onde che daranno il titolo poi al libro più sperimentale della scrittrice britannica, frutto di un processo di liberazione quasi delle parole, della penna, della mano di lei, e pubblicato nel 1931. Ed è un processo che comincia proprio con il testo il cui titolo originario era per l’appunto Le ore e su cui si impernia tutta la narrazione di Cunningham, che da qui prende le mosse: La signora Dalloway, primo capolavoro della scrittrice, pubblicato dalla Hogarth Press il 14 maggio 1925.

Mrs Dalloway è un romanzo sulla dissipazione, sulla perdita, sullo smarrimento di fronte all’evidenza della nostra trascurabilità e della nostra precarietà. Sull’amore, sulla solitudine, sulla poesia, su noi poveri umani. E così anche Le ore e The Hours poi.
Attraverso il processo della mise en abyme – termine coniato da André Gide per indicare un espediente narratologico consistente nella reduplicazione di una sequenza di eventi, come una sorta di “storia nella storia”, in cui la storia di livello inferiore può essere usata per riassumere o racchiudere alcuni aspetti della storia che la incornicia, di livello superiore – i piani narrativi paiono sovrapporsi e confondersi costantemente: la finzione raddoppia la realtà che in essa si rispecchia. Ogni personaggio è un’eco di qualche altra ombra: non solo le tre figure femminili rievocano tutte Clarissa Dalloway, figura fittizia più reale della realtà stessa e creatura speculare a tratti della sua artefice; ma perfino in Richard, richiamo sia al Septimus sia al Peter Walsh del libro originario della Woolf, si può ravvisare un alter ego dell’autrice, che con un gesto quasi profetico scaglia la sua falce sul poeta – sul visionario – anticipando il suo stesso destino.
Il 28 marzo 1941 Virginia si immerge nel fiume Ouse, con una manciata di sassi nelle tasche, per sempre.
È la sua morte, ma prima c’è stata la vita: sono i due binari fondamentali del racconto, che si apre e chiude circolarmente su quel giorno destinato a perire nell’acqua, e che sussurra parole d’amore in bilico tra l’abisso e l’estasi.
«La morte di qualcuno dà agli altri la possibilità di apprezzare la vita. È il contrasto.»
(Virginia Woolf)

The Hours è un’opera architettonica orchestrata quasi come una cattedrale gotica, slanciata, a tratti oscura nelle sue pesanti mura di pietra, eppure vi si incastonano ampie vetrate attraverso le quali trapela la luce lambente lacerti delle tre navate costitutive: tre vite, tre giornate, tre donne.
«Three different women. Each living a lie» recita uno degli slogan promozionali del film.
Tre destini intrecciati attorno al perno portante della struttura: la signora Dalloway.
«Tu le hai dato alcune cose di te stessa» aveva commentato il carissimo amico di Virginia, Lytton Strachey: tutte sono Clarissa Dalloway, «un’ospite perfetta e incredibilmente sicura di quello che fa e che deve dare una festa, e proprio perché è così sicura tutti credono che stia bene, e invece non è vero».
1923, Richmond, Inghilterra: Virginia Woolf, nel pieno di uno dei momenti più feroci della sua depressione, durante la composizione di Mrs Dalloway, è pennellata nella sua giornata dal risveglio inquieto, attraverso i pasti schivati insieme alle domestiche (che la irritavano, Nelly in particolare), la scrittura nella propria stanza tutta per sé, il tè con l’amatissima sorella Vanessa e i nipoti, i tentativi di fuga a Londra per inseguire una vita sentita come un tempo perduto, fino alla notte che è sempre un riposo che tarda ad arrivare.
E Virginia è il demiurgo sempre vigile del racconto: tesse le fila del suo libro, che è poi una trama profondamente intrecciata con le vite delle altre due donne ritratte nell’opera e a sua volta con quella del libro di Richard, definito come «un libro difficile» in cui «non succede niente» e che «sembra durare un’eternità», quasi come in una sorta di richiamo metatestuale a Mrs Dalloway, dove effettivamente non accade niente, si organizza una festa, si incontrano persone, qualcuno muore.

È un giorno. Un giorno che però è tutta una vita.
1951, Los Angeles: Laura Brown, madre di Richard, moglie casalinga in dolce attesa di Dan, il perfetto marito devoto della perfetta bambolina, che però è intrappolata in un’infelicità infarcita di tinte pastello e strazianti festoni echeggianti “happy birthday”, si sveglia, legge un libro – Mrs Dalloway – prepara due torte di compleanno, incontra un’amica, porta il figlio da una vicina perché ha delle commissioni da sbrigare e se ne va in un hotel, perché vuole farla finita – si sente affogare, un po’ come accadrà poi a Virginia, ma per davvero – e invece non ce la fa, ma prende una decisione importante, il suo destino le diventa chiaro – dopo la nascita della secondogenita lascerà la sua famiglia, perché «lì c’era la morte, e io ho scelto la vita», spiega – e poi torna a casa, a finire la sua giornata disperata, e anche su di lei cala la notte senza conforto.

Ma Laura sceglie la vita – sembra quasi di sentire l’eco del finale di Trainspotting – e, quasi come una novella Nora di Casa di bambola di Ibsen, se ne va, lascia quel salotto borghese vuoto e quel vuoto negli occhi del figlio Richie la cui sensibilità lo farà diventare poeta e, poi, suicida.
«Ero destinato alla sensibilità. Ero destinato a diventare uno scrittore.» avrebbe detto poi Jep Gambardella in La grande bellezza: è la sensibilità, il saper vedere, sentire la vita, anche troppo, di queste figure, ad avvicinarle, a renderle parte di un’unica storia, di un’unica giornata.
2001, New York: Clarissa Vaughan è una editor e sta organizzando una festa in onore dell’amico e amore passato Richard, poeta gravemente malato. Ma anche il suo mondo sta andando in pezzi, come uova da rompere con le mani, come un corpo che cade giù da una finestra aperta su una città che non capisce la lentezza, come un nome – Mrs Dalloway – a cui resta ingarbugliata facendola cadere sul pavimento. Come le ore.

Attraverso un montaggio parallelo popolato di raccordi tra loro concatenati quasi alla maniera delle coblas capfinidas e una fotografia capace di delineare primi piani dalla consistenza quasi della pittura ad olio dei ritratti moderni, sempre pronti a sfaldarsi nelle loro ombre e luci mutevoli, il film è un viaggio alla ricerca del tempo perduto, come direbbe Marcel Proust, nume tutelare per la Woolf, immersa nella sua lettura proprio negli anni della stesura di Mrs Dalloway.
È un viaggio di tre eroine che sono poi in realtà un’unica donna: una donna che soffre, una donna che ama, una donna che perde, una donna che vive.
The Hours è le ore: le ore di una giornata, le ore di una vita, le ore di un tempo che è tutto interiore e si riannoda come un gomitolo, tra le pieghe e i meandri di uno sguardo capriccioso, di una passeggiata per la strada affollata, di un silenzio di donna che non sente la musica del mondo fuori perché troppo assorta nel suo proprio mondo che suona come le note magistrali della colonna sonora di Philip Glass, il quale conferisce un respiro vivo e impetuoso alle gesta minime eppure di matrice quasi epica delle nostre eroine, citando metatestualmente la protagonista del film.
È un tempo bergsoniano: quello della Woolf, quello dell’epigono Cunningham, quello dell’adattamento sul grande schermo.
Durata è il termine adottato dal teorico e filosofo francese Henri-Louis Bergson, coincidente con un tempo interiore, soggettivo, vissuto e infatti detto della vita, in contrasto con quel cosiddetto tempo della scienza, che è fisico, spazializzato e reversibile: ecco infatti la traduzione di questo sguardo tutto interno e memoriale che si palesa nella concretizzazione di quei moments of being woolfiani, ovvero di quegli istanti d’essere, analoghi alle epifanie joyciane, come delle istantanee di vita fatte di un accumulo di momenti presenti, passati, futuri.

E così, la giornata di una donna – pullulante di questi momenti d’essere che costituiscono una sorta di tessuto a maglie lente, tanto elastico da contenere qualsiasi cosa – diventa sineddoche di un’intera esistenza, che sa gemmare come nuova foglia, colore e canto a partire da un nulla, forse da una parola, da un pensiero, in un’associazione immaginifica libera quasi surrealistica, da automatismo psichico puro.
«Tutto mescolato insieme » dice infatti Richard (Ed Harris) a Clarissa (Meryl Streep), nel film.
E allora: «Un’ora, non è solo un’ora, è un vaso colmo di profumi, di suoni, di progetti, di climi.» scriveva Proust nel suo romanzo, fortemente influenzato dalle teorie di Bergson, delle cui conferenze fu uditore a Parigi.
Ma il tempo della vita è irreversibile, e allora la ricerca di quel tempo perduto è destinata a fallire: è la giovinezza, è la bellezza, è l’amore, è la felicità.
«Una mattina, mi sono svegliata all’alba, con dentro un grande senso di aspettativa. E mi ricordo di aver pensato: ecco, questo deve essere il preludio della felicità, questo è solo l’inizio! E d’ora in poi crescerà sempre di più! Non mi ha sfiorato l’idea che non fosse il preludio. Era quella la felicità. Era quello il momento. Era quello. »
(Clarissa Vaughan)

E alla fine, rincorriamo sempre un’assenza che ci sfugge, e ripenso alla teoria del piacere leopardiana, al suo Sabato del villaggio e alle sue riflessioni nello Zibaldone riguardo all’attesa del piacere che è essa stessa il piacere, alla «tendenza nostra verso un infinito che non comprendiamo», alla felicità umana che non può consistere se non nell’immaginazione, nelle illusioni, sempre declinata al passato, o al futuro, e mai al presente.
Ma talvolta, se si sa scostare le cortine per far entrare un po’ di luce dai vetri, ci è concesso uno spiraglio, un varco montaliano, una tregua a quel male di vivere: forse basta un bacio, un fiore, una festa.

The Hours è un cuore che abbraccia tutto, che vuole tutto: si svuota nella sistole del silenzio, della morte, delle crepe dei muri delle nostre case da cui entra sempre acqua, nella disperazione echeggiante il grido di aiuto cantato in Magnolia di Paul Thomas Anderson da Aimee Mann; e si apre nella diastole della festa, nella salvezza di un mattino fresco come scaturito per dei bambini su una spiaggia, o per comprare dei fiori, o per innamorarsi, nella vita che «è un alone luminoso, un involucro semitrasparente che ci racchiude dall’alba della coscienza fino alla fine» e che è anche ora, sì, anche adesso, anche ora che scrivo, anche ora che tutto può ancora accadere, anche ora che ho paura, e amo, e soffro, e ancora scrivo, e ancora c’è tempo.
E penso al finale delle Tre Sorelle di Cechov con la musica che suona e tre donne che si amano e si dicono «bisogna vivere», a Paul Valéry, che scriveva «si alza il vento, bisogna tentare di vivere» e all’arte che ci salva sempre.

E a te, che mi hai sempre detto che tutto è bello. Mi sa che avevi ragione, tutto è veramente bello.




