«L’uomo è un essere che cerca senso»

(Michelangelo Antonioni)

Non esiste un momento preciso, furtivo, in cui la finzione di un personaggio smette di essere tale e diventa riflesso. Succede invece in modo graduale, mentre lo spettatore scopre il personaggio a piccoli strappi, confondendo lo schermo con uno specchio e rivedendo nell’opera filmica le sue assenze, i suoi errori, i suoi fallimenti. È qui che Charles Foster Kane, Marcello Rubini e BoJack Horseman si legano attraverso gli ultimi 80 anni di cinema e, con il loro vuoto, rendono il loro animo riflesso del nostro.

Charles Foster Kane: l’eco di un amore mancato

L’esordio dirompente di Orson Welles alla regia nel 1941 con “Citizen Kane” offre al pubblico un personaggio intimamente pirandelliano, contraddistinto da una personalità inafferrabile, che emerge in forme diverse a seconda della voce che ce lo racconta.

Welles concede allo spettatore un’unica verità sul suo protagonista: la vita del magnate (Kane) è accompagnata da una silenziosa ricerca di uno sguardo, una parola, un gesto che lo faccia sentire profondamente amato; un amore negatogli nell’infanzia, sacrificato dalla sua famiglia con lo scopo intensamente pratico di proteggere i suoi interessi finanziari.

Kane Marcello e BoJack
Citizen Kane (1941, Orson Welles)

Quel bambino privato dell’affetto, congelato nel tempo, che si annida nell’anima del protagonista, saboterà ogni suo traguardo, guidandolo inconsapevolmente verso la sconfitta con una costanza esemplare.

L’amore degli altri verso un sé autentico si rivelerà essere, forse inconsciamente, l’unica cosa che ha un reale valore per Kane. Il successo imprenditoriale e la ricchezza non riusciranno mai nemmeno a sfiorare l’essere il riempimento di quel vuoto, né quindi a riconciliarlo con la parte più vera di sé.

Questo lo condurrà unicamente ad una assenza di autenticità in un mondo che pare offrire solo effimeri simulacri.

Un mondo nel quale l’ossimoro della solitudine di Charles nel castello Xanadu è il manifesto del risultato ultimo, derivante dall’incapacità dell’uomo di trovare una felicità sincera.

Female reporter: «If you could’ve found out what Rosebud meant, I bet that would’ve explained everything».

Jerry Thompson: «No, I don’t think so; no. Mr. Kane was a man who got everything he wanted and then lost it. Maybe Rosebud was something he couldn’t get, or something he lost. Anyway, it wouldn’t have explained anything… I don’t think any word can explain a man’s life. No, I guess Rosebud is just a… piece in a jigsaw puzzle… a missing piece».

Marcello Rubini: la trappola dell’illusione

Ma cosa accade quando, invece di costruire castelli, si sceglie di abitare l’apparenza?

Fellini ne “La Dolce Vita” ci presenta la follia della Roma degli anni ’60, raccontandoci il lento smarrimento di Marcello Rubini (Mastroianni), un personaggio che insegue la verità, ma che si lascia incantare dalla superficie, perdendosi tra le maschere di una società che rifugge l’autenticità. Egli è un protagonista per sottrazione: non è mai davvero lì, fluttua tra party, illusioni, donne, pensieri, sacerdoti, senza mai toccare veramente terra.

La Dolce Vita (1960, Federico Fellini)

Guardando Marcello muoversi nella città non possono sfuggire le molteplici sfumature di un giornalista disilluso che è allo stesso tempo un aspirante poeta, un amante incompiuto, un figlio distratto. Laddove Kane costruisce castelli per coprire il vuoto, Marcello ci danza sopra.

Il vuoto di Marcello non è assenza, è confusione; lo stordirà a tal punto che inizierà a cercare, senza più voler trovare un sé autentico, sentendosi trascinato lentamente verso il vortice dell’illusione della grandezza.

Il compromesso a cui arriva Marcello è il vivere in bilico tra il desiderio (che rimane tale) di una vita autentica e l’illusione di un mondo che sembra offrirgli tutto, ma che in realtà lo lascia vuoto. Il prezzo di questo compromesso è l’allontanamento totale dalla purezza, incarnata da Paola, la bambina con la quale Mastroianni prova a dialogare nella scena finale del film, senza riuscire neppure a sentirla.

Marcello: «A me invece Roma piace moltissimo: una specie di giungla, tiepida, tranquilla, dove ci si può nascondere bene».

Bojack Horseman: naufragare nel ricordo di sé

Se Marcello danza sul vuoto, Bojack ci si tuffa dentro: un personaggio che, come Kane e Rubini, cerca amore e si sabota mentre lo fa.

In una Hollywood grottesca e lucida, popolata da animali antropomorfi e umani, BoJack, un cavallo ex star di una sitcom americana di successo, è tormentato dallo spettro di una gloria mai posseduta. Il suo vuoto deriva da una fame disperata d’amore, autenticità e redenzione. È proprio questo a renderlo la somma di Kane e Rubini, in lui convivono la crudeltà del cinismo e la fragilità di un’infanzia mai superata, che lo fanno diventare il personaggio, probabilmente (e ironicamente), più umano dei tre.

Kane, Marcello e BoJack: il vuoto dietro la maschera
BoJack si guarda allo specchio

Bojack vive nel suo passato, intrappolato tra i fili di una ragnatela che la sua mente ha intessuto per impedirgli di fare i conti con il presente. In un mondo che lo ricorda solo per ciò che è stato. La realtà che l’ex attore deve affrontare quotidianamente lo consuma fino a privarlo della soddisfazione della fama o del successo, evidenziando la sua natura fortemente autodistruttiva, contro la quale il sarcasmo è divenuto l’unica arma a disposizione.

Sotto una maschera di ironia e cinismo però, BoJack si rivela un personaggio lucidamente consapevole che cerca disperatamente di riscrivere la propria narrazione, pur sapendo di essere il peggior narratore possibile di sé stesso.

La casa di BoJack sulle colline di Hollywood diventa così il suo Xanadu: un rifugio nel quale proteggersi dai giudizi, che sospende l’ex attore tra ciò che era e ciò che avrebbe voluto essere.

Ogni battuta di questo capolavoro dell’animazione americana cela una crepa, dietro ogni risata una riflessione, un sentimento del contrario pirandelliano, che ritorna, e che fa da contorno ad un’introspezione psicologica forse fin troppo lasciata in disparte nel cinema moderno.

Mr. Peanutbutter: «Sei una star milionaria con una donna che ti ama e hai anche un ruolo nel film dei tuoi sogni. Che cos’altro puoi volere? Cioè, che cos’altro ti dovrebbe regalare l’universo?»

BoJack: «Io voglio sentirmi bene con me stesso, come fai tu e… non so come si fa. E non so se ci riesco».

Tre maschere, un unico volto

Al giorno d’oggi basta un attimo per scoprirsi distratti, distanti da ciò che conta davvero, naufraghi nel mare dell’apparenza.

Kane, Marcello e BoJack sono tre volti della stessa tragedia: uomini (e cavalli) che hanno perso il contatto con il sé più autentico.

Non eroi, non antieroi.

Solo esseri umani feriti, che dietro al potere, al cinismo e al sarcasmo, nascondono la stessa identica fragilità: la paura di non meritare amore.

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