Il finale di Otto e mezzo.
Il vento introduce. Quel vento che non-filtra le parole, piuttosto le disperde, le rende fluttuanti quando dovrebbero offrire un significato compiuto, una definizione necessaria.
Niente è successo, nulla è stato trovato.
«Ragazzi qui si smonta tutto, il film non si fa più» risuona l’anatema: il potenzialmente ancora possibile film di Guido Anselmi è definitivamente fallito, l’eterna bolla sospesa del forse è scoppiata.
Per un secondo ci sentiamo in balia di una mediocre rassegnazione, che senso ha avuto tutto ciò? Questo così potente film su un non-film finisce davvero per non finire a sua volta, per appiattirsi, per fallire?
Un’immensa vuota e arida impalcatura sullo sfondo, Mastroianni al centro, l’intellettuale Carini in primo piano. Quest’ultimo inizia a parlare, o meglio a spiegare il senso del non-fallimento del regista, che ha fatto bene, che doveva lasciar perdere, che, nello sguardo del critico, ha compiuto il non compimento artistico del suo tempo.
Carini: «Lei ha fatto benissimo, mi creda, oggi è una buona giornata per lei. Sono delle decisioni che costano, lo so, ma noi intellettuali, dico noi perché la considero tale, abbiamo il dovere di rimanere lucidi fino alla fine. Ci sono già troppe cose superflue al mondo, non è il caso di aggiungere altro disordine al disordine».
Ecco la prima fase del finale di Otto e mezzo, quella dell’intellettuale che definisce il non-fine del contemporaneo, il vuoto dell’arte, la pagina bianca di Mallarmé.
Fellini qui raggiunge l’apice della sua incredibile dicotomia: egli è artista e critico di se stesso per tutto il film. Carini è la sua proiezione giudicante, l’intelletto che guarda quel vagabondare del creativo e lo mina, lo vede egocentrico, egoistico, casuale e distaccato da qualunque reale processo di ricerca e creazione.
Guido è eternamente fluttuante, dalla prima scena non fa che fuggire, svuotarsi di ogni responsabilità che il suo Essere artista gli imporrebbe. Svuotarsi e volare nella sfera non più aulica, ma semplicemente vuota: si innalza verso il non-più, ribaltando radicalmente il sommo innalzarsi che fu del Poeta Alighieri.
Fellini è cosciente del totale crollo di un sistema di senso, annusa e si inebria di quella malinconia annichilente e mediocre che sempre più inizia ad avvelenare una società profondamente borghese, profondamente non più dialettica. L’intellettuale deve distruggere i futili tentativi di creazione, dopo che il senso stesso del creare ha perso ogni necessità. Creare è già di per sé un atto di perdita, parafrasando Rilke, ma è solo assenza che qui si mostra, assenza che non può neppure perdersi, non essendo che mancanza di qualcosa da dare, di qualcosa da perdere.
Che artista è mai Guido Anselmi, se non un artista che non è più, perché non può più creare il senso, il significato del suo essere? Questa domanda assilla Fellini stesso per tutto il film, attraverso il personaggio dell’intellettuale, con il quale non fa altro che autosabotarsi, rendersi superfluo nel suo essere, nel personaggio di Mastroianni, anche l’artista che non sa che arte stia cercando.
Carini:«distruggere è meglio che creare quando non si creano le poche cose necessarie. E poi, c’è qualcosa di così chiaro e giusto al mondo che abbia il diritto di vivere? […] Meglio lasciar andare giù tutto e far spargere sale come facevano gli antichi per purificare i campi di battaglia. In fondo avremmo solo bisogno di un po’ di igiene, di pulizia, di disinfettare. Siamo soffocati dalle parole, dalle immagini, dai suoni che non hanno ragione di vita, che vengono dal vuoto e vanno verso il vuoto. A un artista, veramente degno di questo nome, non bisognerebbe chiedere che quest’atto di lealtà: educarsi al silenzio».
Abbiamo quindi il compimento dell’essere intellettuale che riconosce la morte di una necessità poetica, chiudendosi in necessarie, ma statiche parole che osannano la rarità del bello, coscienti che quasi non si possa più trovare, che sia per pochissimi, finendo poi per arrovellarsi sulla teoria del suo essere piuttosto che sull’essere stesso.
Carini non può che “ridursi” a questo atto speculativo, una teoresi sull’arte che non sa però essere artistica, che non deve esserlo, ma che non può e non riesce neppure davvero a parlare di cosa dovrebbe esserlo. È un monologo che annienta, ma non ricrea, che svuota, ma non riempie di nulla, non ha novità, solo coscienza che non ci sia più nulla di nuovo.
«Aspetta Guido!», esaltato interviene il “Mago”. Ecco che la metacinematografia di 8 e mezzo raggiunge il suo apice definitivo: nell’istante in cui appunto Mallarmé viene “chiamato in causa”, nel pieno del primo piano su un Mastroianni succube dell’atto distruttivo dell’intellettuale, giunge la risposta. Il magico, l’Asa Nisi Masa, mostrato attraverso il personaggio del mago con il cappello, richiama Guido a sé, soffocando quasi le parole dell’Intellettuale, riportando in vita la dialettica dimenticata.
Ecco che tutto va in un folle contrasto antitetico: alla frase «se non si può avere il tutto, il nulla è la vera perfezione», il film stesso, Fellini che ora è pronto a essere più che Guido, ma essenzialmente Guido, risponde con l’immagine di Claudia Cardinale, alla conclusione di Carini rispondono proprio le immagini che Carini sosteneva fossero radicalmente superflue, spazzandolo via, negandolo, superandolo.
Carini: «Noi critici facciamo quello che possiamo. La nostra vera missione è spazzare via le migliaia di aborti che ogni giorno, oscenamente, tentano di venire al mondo. E lei vorrebbe addirittura lasciare dietro di sé un intero film, come lo sciancato si lascia dietro la sua impronta deforme? Che mostruosa presunzione credere che gli altri si gioverebbero dello squallido catalogo dei suoi errori. E a lei che cosa importa cucire insieme i brandelli della sua vita, i suoi vaghi ricordi, o i volti delle persone che non ha saputo amare mai?».
La risposta a quest’ultima domanda, che conclude il personaggio dell’intellettuale, è il superamento, è l’Epifania del Poeta in Otto e Mezzo.
Guido: «Ma che cos’è questo lampo di felicità che mi fa tremare e mi ridà forza, vita? Vi domando scusa dolcissime creature, non avevo capito, non sapevo… com’è giusto accettarvi, amarvi… e com’è semplice. Luisa, mi sento come liberato: tutto mi sembra buono, tutto ha un senso, tutto è vero. Ah, come vorrei sapermi spiegare… ma non so dire. Ecco, tutto ritorna come prima, tutto è di nuovo confuso, ma questa confusione sono io… io come sono, non come vorrei essere e non mi fa più paura. Dire la verità: quello che non so, che cerco, che non ho ancora trovato».
(momento di svolta in Otto e Mezzo)
Ecco che Guido prende voce, senza minimamente replicare alle speculazioni subite, senza neppure giungere nel medesimo campo di riflessione, bensì spostandosi, spostando tutto quel peso teoretico, argomentato, che necessita di trovar necessità, verso quel turbine primordiale, quell’eros primigenio che qui però s’addolcisce nel suo semplice spirito essenziale. È un’intuizione che non deduce nulla logicamente, ma che fluttua in quel medesimo vuoto ora però ricolmo di un senso che tutto spiega senza spiegar nulla davvero.
Chiede perdono, chiede aiuto, perdona e aiuta tutti ad amarlo: egli è di nuovo poeta, semplicemente perché, dopo aver subito la domanda di senso, ha ritrovato il senso nell’origine del suo cercare, creando nuovamente essenzialmente ciò che egli è, ma ora consapevole di voler essere, di essere possibilità di poter essere.
Proprio in quella “mostruosa presunzione” tutto, tutti ritornano, tutto ri-comincia, nuovo, senza più paura d’essere solamente ciò che si può potenzialmente essere.
«Non ho più idee, ho soltanto memorie» affermava il Mastroianni de La Notte di Antonioni, radicalizzando l’annichilito, egoistico sospiro di un intellettuale che riecheggia nella vuota, egocentrica passività, senza più ambizioni rivolte al creare. È proprio a quel Mastroianni, che risponde il Mastroianni di 8 e mezzo di Fellini. Il poeta che si fa sintesi dell’artista e dell’intellettuale, del pittore e del filosofo. Infine, l’intima intuizione consapevole dell’essenziale possibilità non necessaria, ma vivente di raccontare la propria confusione, oltre la pagina bianca, oltre la bruttezza, verso un’insostenibile poesia detta nell’impossibile mosaico dei pezzi della propria vita.
È una festa la vita, viviamola insieme.