L’immagine in Duse: l’immagine deve salvare o rielaborare?

Sofia Racco

Ottobre 1, 2025

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«Quegli anni di vita al faro hanno lasciato in lei tracce profonde. Qui nessuno la capisce. La chiamano la “Donna del mare”.»

La donna del mare, H. Ibsen

Duse di Pietro Marcello inizia avvolto nella nebbia e nella polvere da sparo: man mano che la nebbia si dirada vediamo comparire gli occhi di Eleonora Duse, interpretata da Valeria Bruni Tedeschi, che avanzano verso un campo di battaglia dell’esercito italiano.

Una volta arrivata sale sul palco, ricopre egregiamente il ruolo di icona e incoraggia i soldati, ricorda loro che sono tutti lì per il bene superiore della nazione, quella stessa nazione di cui lei è uno degli emblemi più luminosi.

Questa è solo una delle illusioni in cui vediamo cadere la Duse di Marcello, quelle illusioni torbide che contaminano le finzioni limpide messe in scena dall’arte, dal teatro, dal cinematografo.

Negli ultimi anni di vita della Divina, Marcello condensa una serie di questioni che dal Novecento invadono con forza il presente: riflessioni su cosa significhi fare arte mentre la violenza divora il mondo e sull’arte che deve sottrarsi alla tirannia anche a costo di morire, anzi, proprio per non morire.

Ma la potenza illusoria e rivelatrice delle immagini si attenua nella stretta di un mito troppo saldo: lo spazio evanascente in cui prendono forma le contronarrazioni si comprime sotto il peso di un personaggio storico che si impone su ogni tentativo di riscrittura.

Duse non si svela, rimane ancorata al suo tempo, e l’occhio cinematografico sembra timoroso di immergersi e farci immergere in quella stessa illusione che vuole fabbricare.

E si ripropongono quelle domande che accompagnano i film storici, i biopic e tutto quel corpus di opere che gravitano intorno a eventi e personaggi reali, legate a convenzioni estetiche rigide e un po’ stantie: l’immagine deve preservare o rielaborare?

Cosa significa essere fedeli alla materia d’origine?

Mantenere intatto l’involucro del mito o scavarci dentro, svelando la loro potenza intrinseca?

A chi e cosa dobbiamo questa fedeltà, al passato o al presente?

Una danse macabre di illusioni

Duse è un film di ombre che incombono da ogni angolo: l’ombra della guerra (quella finita e quella che sta ancora per cominciare), dell’oblio, del fascismo e della morte. Eleonora non calca le scene da più di un decennio, è piena di debiti e gravemente malata: tornare a fare teatro si fa scelta di libertà, affermazione ultima di vitalità ma anche necessità disperata, unico modo per rimanere a galla il più possibile.

Lo afferma a gran voce lei stessa quando parla con la figlia Henriette, una giovane donna profondamente religiosa che cerca per tutto il film di strapparla dal suo essere attrice per riportarla al ruolo di madre. A questi dolci e tirannici richiami all’ordine Eleonora risponde con ostinazione, forse con un eccesso di didascalismo, affermando il suo essere ancora viva, viva, viva.

Ma la vitalità affermata a gran voce dalla Divina è un grido stanco che fatica a trovare il suo linguaggio: fa il suo grande ritorno a teatro con La donna del mare di Ibsen, viene accolta con valanghe di fiori, applausi e lodi sperticate.

Ma bastano le poche parole di chi conosce bene quanto lei i meccanismi dell’inganno per far riemergere l’inquietudine: Sarah Bernhardt, grande attrice francese, le ricorda che è cambiato tutto, che non si possono dire le stesse cose che si dicevano prima della guerra, non si possono fare le stesse cose, non si può riproporre la stessa arte.

Le solite storie, i soliti attori, le solite facce artefatte congelate in espressioni esasperate: il pubblico ha fame di altro.

Duse le dà ragione, si infiamma, butta tutto all’aria, prende baracca e burattini e se ne va a fare il suo spettacolo: prende un giovane soldato con aspirazioni da drammaturgo e punta tutto sulla sua storia. Accumula altri debiti, dirige la compagnia, si immerge nei costumi mediocri forniti da uno scettico produttore cinematografico.

Si va in scena: il pubblico fischia, lancia robaccia sul palco, insulta gli attori, il drammaturgo, e chiede il rimborso.

Il talento del giovane di belle speranze è un’altra illusione che nemmeno la buona stella di una grande diva è in grado di sostenere. Così delle parole vere, dei tentativi di riancorarsi alla realtà, alimentano chimere velenose: l’amore passato per D’Annunzio che ritorna sulla scena come un baluginio stanco, Mussolini che cerca di usarla e di trasformarla nella portavoce artistica del regime fascista.

La presenza ingombrante del mito

Tutti vogliono cibarsi della sua luce prima che si spenga per sempre, tutti vogliono usarla per raggiungere i propri scopi, tutti accorrono a rifugiarsi in questo residuo splendente del mondo vecchio con l’illusione di contenerlo, domarlo, salvarlo e salvarsi.

La Duse di Marcello è circondata da miraggi: vede la salvezza dall’oblio in ogni granello, si appiglia a ogni stralcio di vita, finge con convinzione di credere a ogni illusione che le vendono.

La chimera del progresso e della fama, trappola letale che fa agonizzare lentamente le anime: come in Martin Eden, Marcello propone il ritratto di un’anima ribelle e fluttuante, una forza creatrice e autodistruttiva che travolge la realtà e la plasma con le sue inquietudini, le sue passioni e le sue visioni fugaci.

Ma se in Martin Eden questa potenza pervade anche le immagini trasformandole in un flusso sconfinato, atemporale e magnifico dove le coordinate geografiche si confondono in un affresco monumentale e radicale, in Duse qualcosa, ogni tanto, si inceppa: la storia a volte si ripiega su sé stessa, la maschera non cade mai del tutto.

Rispetto alla sperimentazione scompigliata di Martin Eden, Duse rimane ancorato alla realtà, alla Storia, ai suoi luoghi e ai suoi miti. Manca la smitizzazione necessaria per rendere il passato vitale: la distanza tra noi e l’icona della Divina non si sgretola, il confine tra palcoscenico e platea rimane ben marcato.

La distanza si incrina solo quando è lei stessa a rivelarsi un miraggio, una figura sull’orlo della non-esistenza, in trattativa con la morte. Non più Eleonora Duse, la più grande attrice di teatro, la Divina, ma si fonde totalmente col suo personaggio, diventa, per l’ultima volta, la donna del mare, l’irrequieta Ellida che segue con passo sicuro la «vertiginosa nostalgia del mare».

Il soffio vitale del mare e il suo richiamo rovinoso, ventre acquoso pieno di libertà e di terrore: Duse è intangibile, fatto di salsedine e polvere, intriso dell’aria salmastra del mare e delle stanze sigillate, pervaso dalla guerra e dalla morte che sta a guardare, aspettando beffarda la prossima mossa.

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