Da Magnolia a Una battaglia dopo l’altra – Noi possiamo chiudere con il passato

Tommaso Paris

Ottobre 13, 2025

Resta Aggiornato

«Noi possiamo chiudere con il passato, ma il passato non chiude con noi», dice William Shakespeare ne Il mercante di Venezia. Ed è ciò che ribadisce Paul Thomas Anderson in Magnolia.

È il 1999. Sono passati dieci anni dalla caduta del Muro di Berlino, formalizzando la cosiddetta fine della storia teorizzata da Francis Fukuyama nel 1992. La fine dell’Unione Sovietica e la crisi del comunismo sanciscono la supremazia della democrazia e del libero mercato sullo stato di cose, incorniciate come il punto finale dell’evoluzione politica e ideologica dell’umanità. Lo spirito del tempo di hegeliana memoria ha trovato il suo spazio-tempo definitivo. Il percorso occidentale intrapreso dalle parole al vento socratiche ha raggiunto il suo compimento.

La storia, intesa come conflitto di grandi idee politiche, si è esaurita. Chi ha provato ad opporsi ed immaginare un’alternativa è stato letteralmente massacrato a Genova nel luglio del 2001. Siamo alla fine del film sulla storia del mondo. Non esiste più futuro, solo passato. Ed allora non resta che farci i conti.

Paul Thomas Anderson – nato verso la fine della ventennale guerra statunitense in Vietnam – ha 29 anni nel 1999 e dirige il suo terzo lungometraggio. Il film racconta l’accadere di nove personaggi che, durante un’abituale giornata nella San Francisco Valley, affrontano i propri demoni e quelli del loro passato. Magnolia è un film di figli e figlie che devono assumere le colpe dei propri padri. In quel tempo, purtroppo, sembra che si possa chiudere con il passato, ma è il passato che non chiude con loro.

Alla fine di una narrazione tra meta-realtà e meta-cinema, tutti i personaggi figli e figlie rimangono intrappolati nella gabbia di un passato che non è chiaro quanto gli appartenga. Eppure, tutti e tutte riusciranno a lottare per il proprio posto nel mondo, senza subirlo passivamente, come mostra quel solco lungo il viso come una specie di sorriso concesso alla cinepresa, rompendo la quarta parete nell’ultimo frame del film. Claudia accetta che la vita possa concederle della bellezza sincera, ma rimarrà soggetta a ferite insanabili. Il piccolo Stanley chiede al padre di essere più gentile, ma dovrà continuare a seguire il sogno di qualcun altro. Il personaggio di Tom Cruise affronta il suo trauma irrisolto, ma dovrà prendersi cura di Linda, forse dell’eredità e capire che direzione dare alla sua strada di vita.

Claudia nell’ultimo frame di Magnolia (1999)

I padri, invece, muoiono. Chi prima, chi dopo. Perché di padri si tratta, in cui il patriarca si erge a sistema. Dopo aver causato pene infinite, guerre emotive irreparabili, massacri immaginativi, riescono comunque a porre a compimento la loro storia. Nella morte, il passato divampa, ma come l’ultimo barlume di una fiamma. Ai morti non importa del passato. Ma al passato importa di loro. E sono i figli e le figlie a doverci fare i conti.

Paul Thomas Anderson ha 29 anni nel 1999. Vive in un spazio-tempo nel quale gli è stato detto che dovrà fare i conti con il passato, perché l’avvenire non sembra essere altro che una replica futura. Non ha altra scelta. Nemmeno una pioggia di rane sembra cambiare significativamente l’ordine degli eventi. Nulla può trasformare lo stato di cose. È la fine della storia.

Pioggia di rane in Magnolia (1999)

Ma è stato veramente così?

È veramente pericoloso confondere i bambini con gli angeli? La malinconia con la depressione? La fine della storia con l’apocalisse?

«La storia si ripete sempre due volte: la prima volta come tragedia, la seconda come farsa».

(Karl Marx, Tesi su Feuerbach, 1845)

È il 2025. È passata un’intera generazione. Paul Thomas Anderson ha 55 anni. Il suo cinema ha viaggiato nel tempo passato, addentrandosi nelle origini del capitalismo tra fine Ottocento e inizio Novecento, nei traumi della Seconda Guerra Mondiale, fino ridenti anni ’70. Al suo decimo lungometraggio, il narratore statunitense decide di affrontare il suo presente contemporaneo, lasciando uno spazio alle nuove generazioni, quelle di cui i figlie e le figlie di Magnolia sono ormai padri e madri, quelle di cui Paul Thomas Anderson, ora, è padre. Dal 2001, infatti, Paul è legato a Maya Rudolph, con la quale vive nella San Fernando Valley di Magnolia, con le loro quattro figlie/i nate/i tra il 2005 e il 2013.

Negli anni che intercorrono Magnolia al nostro presente, abbiamo imparato a riconoscere come la storia sia una continuità ideale, eternamente infranta da discontinuità reali.

Il sogno della democrazia e del libero mercato come Paradiso storico ha svelato la sua reale natura. Per quanto difeso da istituzione mediatiche, governative ed economiche, e quando possibile da guerre preventive ed esportazioni morali, la polvere sotto il tappeto si è rivelata un elefante nella stanza, per giunta violento, ipocrita e maligno. L’Impero coloniale occidentale sta cadendo, e come suo solito, lo sta facendo in grande stile. Una pluralità di altre entità geopolitiche sta emergendo, e lo spirito del tempo sembra esserne attratto.

L’idea della fine della storia si è rivelata l’ultima grande illusione del raziocinio occidentale. Il passato sembra meno presente, e il futuro è finalmente tornato ad essere misterioso e inimmaginabile.

Una battaglia dopo l’altra (2025)

È il 2025, e Paul Thomas Anderson decide di parlare ai suoi figli e figlie. Ecco Una battaglia dopo l’altra, dichiarazione d’intenti di una generazione.

Diversamente da Licorice Pizza (2021), ma sempre di corsa, il film inizia e si conclude alla massima velocità, in un inseguimento costante, in fuga dal passato. Tutti i personaggi si mostrano iperboli ridicole, anacronistiche, dei pesci fuor d’acqua in un mare di rane. È tutto sotto la luce del sole: l’élite finanziaria che controlla le redini del mondo soggetto a una malattia etica, le forze militari che sniffano potere e testosterone, rivoluzionari per convenienza, Sensei portoricani fan di Tom Cruise.

E poi c’è Willa. La figlia del passato per eccellenza. Figlia di una madre attivista che infama il suo gruppo rivoluzionario per salvarsi la pelle e scappare in Messico, di un tecnico d’esplosivi innamorato che si è bruciato il cervello con alcol e droghe e infine del capo dei servizi anti-immigrazione, esaltato militare dipendente dalla supremazia.

Eppure c’è Willa.

Charlene/Willa, Perfidia Hills e Ghetto Pat in Una battaglia dopo l’altra (2025)

Alla nascita, però, si chiamava Charlene, ma per scappare dagli errori e dal passato della madre, è stata costretta a crescere nell’ombra. Il personaggio adolescente immaginato da Anderson è l’unico sul quale il regista non ironizza, l’unico sul quale il suo sguardo non è predominante e giudicante, l’unico che intraprende una strada che le è propria. Willa riconosce la madre senza aderire alle sue logiche, riconosce il padre biologico senza ritenersi responsabile delle sue colpe, e riconosce i limiti del suo vero padre, quello che l’ha cresciuta e amata, non raccontandogli la vera storia sulla sua nascita per non farlo cadere nelle sabbie mobili del loro passato.

Willa, e non più Charlene, è libera dal passato. Lo conosce, ma si sente libera di intraprendere il suo percorso.


Willa in Una battaglia dopo l’altra (2025)

La generazione di Willa – la fantomatica Gen Z di cui chi scrive per un soffio ci fa parte – è sempre più libera dal proprio passato, perché ne è sempre più distaccata. La percezione rispetto alla politica, all’informazione, alla verità e all’etica è sempre più differente. La generazione di Paul Thomas Anderson e quella dei suoi padri, ha sempre meno da spartire con le nuove, e il divario sta lasciando un vuoto incolmabile dove l’incomunicabilità ha sempre più parola. Infatti, PTA non dice nulla, e da buon padre e compagno apre la porte sul mondo alla propria figlia, tenendola aperta, mentre lui sta a casa, qualora avesse bisogno di aiuto, dopo un’ulteriore battaglia.

È la fine di un mondo. Non è la fine del mondo, perché altrimenti cadremmo ancora nella parabola di colonizzazione occidentale dell’immaginario che rinchiude l’esistenza in un’unica prospettiva. Ma è la fine di un mondo, di quel mondo.

Forse è vero che c’è stata la fine della storia, ma si tratta esclusivamente di quella occidentale nella sua forma colonizzatrice. E se c’è stata la fine di una storia, significa che ne sta iniziando una nuova. Ognuno prenda parte alla propria storia e scelga, tra le plurime possibili, da quale parte stare.

Parlamento avvolto dalle fiamme in Nepal

La nostra è una maggioranza frammentata che, per caso o per necessità, sta iniziando a convergere. Sa cosa contro cui lottare, e una battaglia dopo l’altra, inizia a scorgere il barlume di un’alternativa, la possibilità almeno di immaginarla.

«Noi possiamo chiudere con il passato, ma il passato non chiude con noi», diceva la generazione di Paul Thomas Anderson. La nostra generazione, invece, non lo dice più. Noi possiamo chiudere con il passato, e il passato ha chiuso con noi.

«Considero il mondo per quello che è: un palcoscenico sul quale ciascuno recita la propria parte»

(William Shakespeare, Il mercante di Venezia)

Leggi anche: Archivio Paul Thomas Anderson:_letteratura cinematografica

Autore

  • Tommaso Paris

    «Dio è morto, Marx è morto, e nemmeno io mi sento molto bene»

Share This