Magnolia: l’incipit tra meta-realtà e meta-cinema

Tommaso Paris

Novembre 17, 2023

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L’incipit di Magnolia tra meta-realtà e meta-cinema

Sul New York Herald del 26 novembre 1911 apparve il resoconto dell’impiccagione di tre uomini, giustiziati per l’omicidio di Sir Edmund William Godfrey, residente a Greenberry Hill, Londra. Vennero identificati come Joseph Green, Stanley Berry e Daniel Hill. Già, Green-Berry-Hill.

Sul Reno Gazatte del 1983 è presente un articolo che parla di un incendio, dell’immenso volume d’acqua necessario ricavato da un lago e di un sommozzatore chiamato Delmer Darion, impiegato al Casinò del Nugget Hotel di Reno. Secondo il rapporto del coroner, Delmer, che venne malauguratamente “pescato” nel lago, morì per un attacco cardiaco a metà del tragitto. Ma non è finita qui.

Il particolare curioso della vicenda è il suicidio che avvenne il giorno dopo: Craig Hansen, un padre di famiglia e volontario dei pompieri che beveva troppo. Il signor Hansen pilotava l’aereo che “pescò” Delmer nel lago, ma i due si erano già incontrati proprio due sere prima al Casinò, sfiorando una rissa. Il senso di colpa, combinato a quella grottesca coincidenza, lo spinsero a suicidarsi.

A Los Angeles il 23 marzo 1958 avvenne il fallito suicidio e il riuscito omicidio del diciassettenne Sidney Barringer. Contemporaneamente al salto dal cornicione del palazzo del ragazzo, qualche piano più sotto si accendeva una furiosa lite che prevedeva anche la presenza di un fucile e, mentre Sidney cadeva al di là della finestra, partì un colpo che uccise il giovane.

La storia iniziò a complicarsi quando si scoprì che i soggetti in lite erano Fay e Arthur Barringer, rispettivamente madre e padre di Sidney. I due giurarono di non sapere che il fucile fosse carico, e infatti un amico del ragazzo confermò la teoria, sostenendo come vide Sidney, stanco delle perenni litigate dei genitori e consapevole della loro indole aggressiva, caricare il fucile qualche giorno prima.

Dunque, Sydney salta dal cornicione del nono piano, quattro piani più sotto parte accidentalmente il colpo di fucile che lo uccide immediatamente, ma il ragazzo continua a cadere, fino a fermarsi su una rete di protezione installata da una ditta di lavavetri tre giorni prima, che avrebbe attutito la sua caduta salvandogli la vita. Ed è così che Fay Barringer fu accusata dell’omicidio di suo figlio e Sidney imputato come complice nella sua stessa morte.

Narratore: «Ci si imbatte in strane storie fatte di coincidenze e di fatalità, di vicende che si intersecano, e di come e di perché, e di chi può saperlo. E noi di solito commentiamo: “beh, se l’avessi visto in un film, non ci avrei creduto!”».

Attraverso il racconto di questi tre avvenimenti troppo fiabeschi per essere reali, il narratore di Magnolia (1999) – maschera dell’autore, artigiano e fiorista Paul Thomas Anderson – sentenzia come «stranezze simili accadono di continuo», rendendo esplicito l’indissolubile legame che sussiste tra la vita e la sua narrazione, in un’eterna danza di nietzschiana memoria tra la favola che diviene mondo vero e il mondo vero che si rivela favola.

Phil Parma: «Senta so che sembra pazzesco e che io faccio la figura dello stupido, come se stessi girando la scena di un film dove il vecchio morente cerca il figlio, ma mi creda, siamo in quella scena. Ora siamo in quella scena. Io credo che mettano queste scene nei film perché corrispondono alla verità. Capisce? Perché succedono veramente. E lei deve credermi perché sta accadendo, qui, in questa casa. Facciamo così, ora le do il mio numero e fa tutti i controlli che vuole e poi mi richiama, ma per favore non può lasciarmi in questa situazione. Glielo chiedo in ginocchio, la supplico. Questa è la scena del film in cui lei mi viene ad aiutare».

Phil Parma in Magnolia

Nell’incipit di questo meraviglioso fiore a nove petali denominato Magnolia e attraverso l’accadere di uno di questi denominato Phil Parma (Philip Seymour Hoffman), P.T.A. si addentra in un discorso dalle sfumature meta-reali e meta-cinematografiche, rivelando le infinite possibilità insite alla narrazione poetica poiché, dirà Mazzoni in Teoria del romanzo, «raccontare significa interessarsi alla regione antologica popolata dalle vite e dalle forme di vita contingenti, seguire le storie di esseri finiti, reali o possibili, mostrare l’intreccio dei loro destini, la felicità o infelicità cui vanno incontro esistendo in mezzo agli altri e nelle circostanze».

Favola e realtà, cinema e vita, dunque, sono facce della stessa medaglia.

Il narratore si rivela osservatore del mondo, poeta della vita che, prosegue Mazzoni, «separa l’essenziale dal contingente, introduce un telos nel disordine e crea quelle zone di intensità, ordinate e inverosimili, che Sartre chiamava “avventure”», manifestando l’epicità del quotidiano, l’ordinario nella sua massima straordinarietà e la mitologia del banale.

Magnolia, infatti, racconta l’accadere di nove personaggi che, durante un’abituale giornata nella San Francisco Valley, semplicemente si incontrano; un oceano attraversato da più correnti inventate e finzionali che sarebbero potuto essere diverse, ma che avrebbero avuto lo stesso profondo significato, poiché, come sostiene Aristotele nella Poetica, collegando l’antico al contemporaneo e il mýthos al cinema, «compito del poeta è di dire non le cose accadute, ma quelle che potrebbero accadere e le possibili secondo verosimiglianza e necessità».

Il terzo film del ventinovenne Paul Thomas Anderson si erge a manifesto della favola reale, tanto concreta quanto illusoria, nella quale l’improbabile si rivela più probabile del probabile, annunciando come ogni petalo possieda un aroma che vale la pena di essere esperito, così come ogni possibile vita vale la pena di essere narrata: dall’inizio di un amore tra un poliziotto e una tossicodipendente alla fine di un altro, dall’incontro positivo e risolutivo tra genitori e figli alla sua massima distruzione e negazione.

Paul Thomas Anderson, regista di Magnolia

Tuttavia, per quanto vita e cinema facciano parte della stessa narrazione, ciò non significa che siano totalmente sovrapponibili. Il fenomenologo esistenzialista Maurice Merleau-Ponty, infatti, abbozzando una fenomenologia della percezione cinematografica sostiene:

«Ma ciò non vuol dire che il film sia destinato a farci vedere e sentire quello che vedremmo e sentiremmo se assistessimo nella vita alla storia che ci racconta, né d’altronde a suggerirci, come storia edificante, una concezione generale della vita. […] È vero anche che mai nel reale la forma percepita è perfetta, c’è sempre del mosso, delle sbavature e come un eccesso di materia. Il dramma cinematografico ha, per così dire, una trama più serrata dei drammi della vita reale e si svolge in un mondo più esatto del mondo reale.»

(Maurice Merleau-Ponty, “Senso e non senso”)

L’arte rappresentazionale in senso lato, e in particolar modo il cinema in quanto sguardo totalizzante, è quindi sin dall’origine profondamente consapevole dell’essere creatore di illusione; quell’illusione che, come la intende Nietzsche, «è la vera e unica realtà delle cose», mostrando dunque come la relazione con il mondo non possa che essere estetica, narrabile e prospettica. Se la verità si rivela essere «un mobile esercizio di metafore» e «illusioni di cui si è dimenticata la natura illusoria», allora si prende coscienza dell’essenza metaforica del mondo, della verità della finzione e della realtà della favola, cosicché le illusioni assumono paradossalmente un significato ontologico.

Il cinema, dunque, mito sincero e consapevole di se stesso, non pretende di sostituirsi al “mondo vero”, ma riconosce di poter parlare della realtà più della realtà stessa, essendo per P.T.A. l’unico modo per concepure a un’autentica ridefinizione del mondo, sovrapponendo due forme del discorso: la realtà  e la possibilità della sua rappresentazione.

L’autore americano rende esplicita tale istanza nel finale, rivelando l’illusione attraverso una pioggia di rane che bagna e colpisce le vite dei personaggi – come una sorta di deus ex machina simile alle tragedie greche di Euripide -, ribadendo ancora una volta e solo in un modo così estremo il carattere meta-cinematografico dell’opera, la distinzione tra vita e narrazione.

Le parole di Phil Parma, infatti, spogliano gli accadimenti filmici da ogni affermazione di realtà, smascherando il proprio carattere illusorio e rivelando l’esser favola, così da amplificare l’esperienza emotiva dei personaggi, del regista e del pubblico, costituendo una sintesi etica ed estetica. Dunque, è lecito sostenere che Phil Parma è un traghettatore dalla finzione alla realtà e il segreto protagonista del film che incarna la voce di Paul Thomas Anderson.

Leggi anche: Il finale di Magnolia – La pioggia di rane

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