Intervista con Marco Ottaiano, editor di “Napoli Ferrovia”.
Le storie possono essere davvero potenti.
Alcune sono fatte per intrattenere e dare piacere , ma poche sono in grado di imbrigliarti fino trasformare il mondo in una favola, come diceva Nietzsche.
C’è una storia che negli ultimi tempi mi ha ossessionato: quella del Naziskin convertitosi all’Islam, detto Caracas. Una figura divenuta protagonista dell’ultimo film di Marco d’Amore, tratto dal libro di Ermanno Rea Napoli Ferrovia.
In questo film Marco D’Amore, affiancato dal maestro Toni Servillo, si presenta in una nuova veste di regista e attore. Dopo L’Immortale e Napoli Magica , D’Amore si cimenta in un genere completamente diverso per raccontare la storia di Caracas, un fascista convertitosi all’Islam per amore, e di Giordano Fonte, uno scrittore napoletano ritornato nella città natia a malincuore. Caracas è un personaggio misterioso, ma semplice, un ragazzo dall’animo ingenuo cresciuto tra i vicoli di Napoli, che immagina di avere origini sud americane, al punto di guadagnarsi questo soprannome. La sua conversione all’Islam non si fonda su una convinzione ideologico/spirituale, ma è frutto di una scelta fatta per amore della sua donna, musulmana e vittima dell’eroina.
Per una recensione, leggi qui: Caracas – L’urgenza di sperare a Napoli
Fino alla fine del film non si saprà se Caracas sia il frutto della fantasia letteraria dello scrittore; anzi, in alcuni momenti il personaggio di Caracas ricorda quasi uno di quegli spiriti che animano la tradizione popolare partenopea, come o’ Munaciell, una specie di spirito guida che abita la casa, che condiziona e influenza le scelte di chi vi abita.
Questo elemento di mistero permea tutto il film fino a confondere lo spettatore, che non saprà quando sia sorta l’amicizia tra Caracas e Giordano o se essa sia il frutto della fantasia dello scrittore impersonato da Servillo.
Giordano Fonte, nonostante il nome evochi i concetti di “origine” e di “rinascita”, finirà per ritrovarsi smarrito in una dimensione tra realtà e sogno, in una Napoli labirintica, umida e buia, caratterizzata da case vecchie e negozi esotici.
Con l’avanzare dei minuti, la scenografia diventa sempre più tendente al caos spazio/temporale, dove nulla si compie, ma tutto accade e si ripete.
«A volte è meglio non sapere le cose. Il bello della vita è proprio questo: ignorare che cosa accadrà domani; anzi, che cosa accadrà tra un istante. Del resto, come potremmo nutrire qualche speranza sul nostro futuro, se lo conoscessimo già?»
(Caracas di Marco D’Amore)
Il film, però, non consegna un significato chiaro allo spettatore, perciò ogni interpretazione non può che
essere soggettiva. Nemmeno la lettura del romanzo aiuta a comprendere la pellicola per le profonde differenze di trama e di personaggi tra i due prodotti.
Giordano Fonte non ricorda la figura di Ermanno Rea, il quale è protagonista del suo stesso romanzo-diario. Il personaggio interpretato da Servillo sembra più l’alter ego del regista che di Rea, tanto innamorato di Napoli da farsene ‘na malatìa.
Però è un’esperienza cinematografica e bisogna accettarla così come viene presentata.
Ma perché scegliere proprio questa storia per un simile cambio di prospettiva cinematografica? Perché trasporre in chiave onirica un romanzo così complesso e concreto come Napoli Ferrovia?
L’opera di Rea è una sorta di romanzo-diario dalle molteplici sfaccettature, dove l’immagine di Napoli appare nitida agli occhi attenti e critici dello scrittore.
Il romanzo, che arrivò secondo al Premio Strega 2008 dopo La solitudine dei numeri primi, esplora il rapporto tra l’autore e la sua città attraverso il racconto dell’amicizia tra lo stesso Rea e Caracas, e tra Caracas e la sua amata donna, Rosa La Rosa, in un complesso ma mai confusionario “gioco di specchi”, dove l’immedesimazione nell’altro e nella città è il vero protagonista della storia.
Sin dalle prime pagine Ermanno Rea non nasconde le sue inquietudini suscitate dal ritorno nella città natia, a cui si sente legato proprio come Caracas è legato a Rosa La Rosa: come lui, nonostante i suoi demoni, non può fare a meno di amarla.
Sono frequenti le descrizioni cittadine, storiche e sociali di una Napoli divenuta crocevia del mondo negli anni della globalizzazione. Una Napoli che adotta tutti quelli che vanno ad abitarla, da qualsiasi posto provengano, trasformandoli in Napoletani. È una città che non ammette individualismi, che si appropria di culture e lingue. Un’ amante che ti strega, che ti ama spezzandoti il cuore. Come una donna vittima dell’eroina, Napoli è una città dove le sue aspirazioni sono limitate dalla militarizzazione del porto, che ha stroncato quel commercio che faceva di Piazza Mercato un punto essenziale del Mediterraneo, ormai divenuto humus per le attività di contrabbando.
Tutte queste sfaccettature, questo intreccio di sentimenti e di dinamiche umane che riflettono quelle sociali sarebbe stato bello vederle trasposte nel film con maggiore profondità.
Nel film l’amicizia tra lo scrittore e Caracas è impostata come una relazione padre-figlio sui generis, mentre nel romanzo, ciò che colpisce, è il profondo legame tra due personaggi che sono l’uno la giusta compensazione dell’altro. Caracas, chiamato così poiché nato in Venezuela, è la guida di Ermanno Rea, il Virgilio che accompagna l’autore nel cuore della città e lo sostiene in un percorso introspettivo severo e lucido. Attraverso il suo personaggio, in controluce si vede con chiarezza l’autore di Napoli Ferrovia.
Il Caracas del romanzo è un uomo ricco di contraddizioni, che non lesina affermazioni forti che non erodono la sua empatia, la sua sincerità e il suo amore verso il prossimo. Nonostante sia stato un naziskin, la prima azione che compie è soccorrere un senzatetto africano incrociato per caso nelle sue passeggiate notturne; passeggiate in cui con la sua Leica fotografa e soccorre i senzatetto, gli ultimi, con un amore per gli afflitti tale da portare l’autore del romanzo a soprannominarlo come ll Cristo della Ferrovia.
Anche la sua conversione all’Islam avviene per questa sua indole a simpatizzare con gli ultimi, e nel
romanzo sembra che ciò avvenga sulla scorta del dolore e dell’indignazione per quanto accadde nel carcere di Abu Ghraib. Il Caracas letterario è mosso da una “malattia dell’animo” che lo spinge a immergersi e immedesimarsi in storie che non lo appartengono.
Ciò che più colpisce di tutta la vicenda è che Rea sceglie di scrivere il suo libro più intimo legando parte della sua storia a quella della sua nemesi. Caracas è l’opposto di Ermanno Rea: l’uno nazista, l’altro comunista, uno musulmano e l’altro ateo. Tuttavia, nel corso del romanzo viene messa in dubbio l’esistenza di Caracas, al punto che viene paragonato ad un fantasma per come è in grado di sparire. Si tratta di un passaggio breve rispetto al romanzo, ma abbastanza forte da ispirare Marco D’Amore a costruire il suo film intorno a questo dubbio, portando sul grande schermo una storia onirica e criptica.
I dubbi, però, restano e molte domande sorgono quando ci si appassiona ad una storia. Caracas esiste? L’amicizia tra lo scrittore comunista e l’ex naziskin, è vera o inventata? Chi e cosa sono stati l’uno per l’altro? Perché la storia del naziskin convertitosi all’Islam è così potente da rendere Caracas un personaggio che, sebbene non fosse alla ricerca di autore, ha spinto alla fine gli autori (del romanzo e del film) ad andare alla ricerca del suo personaggio? Qual è il significato di questa storia?
Sono le domande che alla fine, quasi per volontà stessa dell’opera (narrativa e filmica), mi sono fatto anche io. Ho però scoperto che Caracas esiste davvero ed è soprannominato Mexico. Fa il fotografo ed è anche molto bravo. Ho scoperto pure che per lui gli ultimi sono e saranno sempre la sua “malatìa”.
Devo questa scoperta al professore Marco Ottaiano, amico di Ermanno Rea e dello stesso Caracas, che coadiuvò lo scrittore occupandosi del lavoro di editing del romanzo.
Quanto mi ha raccontato mi ha fatto scoprire una storia dentro la storia di Napoli Ferrovia, di cui
anch’egli è stato – se così si può dire – un personaggio.
La cosa sembra incredibile, ma non per quello che spesso accade a Napoli, perché Napoli – come diceva
Eduardo – è essa stessa un teatro.
«Napule è ’nu paese curioso
è ’nu teatro antico, sempre apierto.
Ce nasce gente ca senza cuncierto
scenne p’ ’e strate e sape recità»
Eduardo de Filippo
Ringrazio Marco Ottaiano per avermi reso partecipe di questi suoi ricordi e per aver generosamente
soddisfatto le mie curiosità di lettore e di spettatore del film, dandomi dei dettagli che hanno reso ancora più viva la storia che da qui in poi vi voglio raccontare.
I protagonisti sono Tullio Pironti, un pugile poi dedicatosi all’ editoria, Ermanno Rea scrittore affermato e premiato, Marco Ottaiano e infine “Caracas”/Mexico, fotografo.
L’amicizia tra questi personaggi ha come sfondo soprattutto la zona di piazza Dante a Napoli, una delle
piazze principali del capoluogo partenopeo, e si dipana tra i ristoranti frequentati da questo insolito quartetto e la Libreria di Tullio Pironti.
Ermanno Rea mi viene descritto come un uomo composto, intelligente, che non parlava in napoletano,
signorile. Mi viene trasmessa un’immagine calma e composta e io non posso che paragonarlo ad un lago con la superficie calma e cristallina, ma animato da forti correnti e mulinelli sotto la superficie.
“Napoli era il suo daimon” mi dice Marco Ottaiano.
Come raccontare una città così complessa e dalla velenosa bellezza? All’epoca era già autore del libro la Dismissione sull’Ilva di Bagnoli e Mistero Napoletano, sul suicidio della giornalista dell’Unità Francesca Spada. Tuttavia, Rea voleva raccontare qualcosa di più intimo e legato al suo rapporto con la città.
Nei progetti iniziali, meditava di scrivere del suicidio dello scrittore Luigi Incoronato, autore di Scala a San Potito, Murunni e altri gioielli letterari, nonché suo amico.
Un rapporto doloroso vincolava lo scrittore a Napoli, che alimentava quelle inquietudini narrate poi nel suo romanzo diario. Ispirato dalla storia di Luigi Incoronato, Rea voleva visitare la Scala a San Potito, spesso abitata da senza tetto e persone disperate. Da questo desiderio nasce l’occasione che porta Ermanno Rea e Caracas/Mexico a incontrarsi. La Scala a San Potito non è proprio un luogo sicuro per un uomo anziano, specie la sera, pertanto l’amico Tullio Pironti suggerì allo scrittore di farsi accompagnare da Mexico. Questi aveva l’aspetto ideale per allontanare qualsiasi male intenzionato.
L’idea del romanzo-diario nacque durante una di quelle frequenti cene al ristorante Leone d’oro, dove si riunivano i quattro amici.
Racconta Ottaiano che quando Rea rivelò di voler raccontare la storia di Luigi Incoronato, Tullio Pironti gli suggerì di narrare della storia di Caracas. L’ex pugile aveva un notevole fiuto per le storie, lo dimostra il fatto che fosse l’editore del romanzo Il Camorrista di Giuseppe Marrazzo, nonché uno dei primi editori a far conoscere al pubblico italiano grandi scrittori americani.
Anche questa volta il suo intuito aveva messo a segno un bel colpo, perché Ermanno Rea rimase subito
folgorato dalla storia di Mexico.
Perché? Chiedo ingenuamente a Marco Ottaiano, che con grande pragmatismo mi risponde: “Rea vide delle bellissime contraddizioni, che sono alla base di ogni progetto artistico”.
Rea non cercava il realismo, ma una storia in grado di permettergli di dar voce al suo Daimon, Napoli.
La Dismissione nasceva da un’idea politica. Mistero napoletano aveva narrato una vicenda a lui vicina sul fronte professionale. Con Napoli Ferrovia, Ermanno Rea voleva narrare la sua storia, attraverso quella che rendeva il suo ritorno a Napoli una sua personale nemesi.
Chissà, forse Tullio Pironti conosceva così tanto Ermanno Rea da intuire che all’amico scrittore servisse un tuffo in una storia completamente diversa dalla sua per ritrovare se stesso, o almeno mi piace pensarla così.
Già, perché una città complessa e ricca di contraddizioni come Napoli poteva essere narrata solo attraverso una storia altrettanto complessa.
Così, dall’idea di narrare la storia di un triste suicidio (che comunque trova il suo spazio nel romanzo)
nacque quell’amicizia sfociata in quel gioiello che è Napoli-Ferrovia, che invece è un inno alla vita,
nonostante contenga molti passaggi amari.
Ottaiano mi ha raccontato che Rea e Mexico in quel periodo erano sempre insieme a girare per Napoli, camminando da piazza Garibaldi alla Sanità, il Vasto, la piazza Principe Umberto fino a piazza Dante. Un’amicizia sincera, bella e affiatata, che non smetteva di sorprendere coloro che li conoscevano, che destava stupore per quanto fosse corroborante per l’anziano scrittore. Al di là della bellezza della storia, Mexico/Caracas era una persona trasparente e sincera, su cui contare, al punto che lo stesso Rea rivedeva in lui il defunto amico Luigi Incoronato, anche questi comunista.
L’apertura mentale di Rea e la semplicità di Mexico avevano compiuto l’impossibile: far diventare amici un comunista e un ex naziskin.
Ottaiano ha ancora lo stupore negli occhi quando mi racconta che da quell’amicizia con Mexico, Ermanno Rea ottenne una nuova energia, quella stessa energia che si avverte sfogliando le pagine di Napoli-Ferrovia: usciva tutte le sere, mangiava con più gusto, fino a lasciarsi andare a qualche parola in napoletano.
Ho sempre pensato che un po’ tutti siamo sempre abituati a ricercare chi ci è simile per sentirci a casa;
eppure, ascoltando la storia di queste due persone tra loro tanto diverse ed opposte, non posso far altro che ricredermi.
Mexico era un fotografo dalle idee politiche discutibili, che tutto immaginava fuorché diventare il
personaggio di un libro.
Rea era uno scrittore comunista, e se da giovane gli avessero rivelato questa avventura inattesa della sua esistenza non so quanto ci avrebbe creduto.
Eppure, questa storia bellissima ha avuto luogo.
Ho chiesto a Ottaiano se tra lo scrittore e Caracas si fosse mai aperto il tema della “creazione del
personaggio”. Nel romanzo, infatti, Caracas spesso afferma “Tu mi vuoi convertire”; parole che suonano
come un monito allo scrittore, con cui viene avvertito che sta creando un personaggio anziché compiere un ritratto letterario.
Grazie a Ottaiano sono riuscito a fugare i miei dubbi.
Mexico intendeva la scrittura come fedeltà e letteralità. Rea, al contrario, non cercava il realismo assoluto. Mexico era un uomo pragmatico, per lui non c’era spazio per esigenze narrative, di cui uno scrittore deve necessariamente tenere conto per narrare una storia.
In questa affermazione, forse, le differenze che così tanto avvicinavano Rea e Mexico/Caracas tornavano ad annodarsi.
La tematica non è nuova. Pirandello la affronta in Uno, Nessuno e Centomila, affermando che di ognuno di noi esistono plurime versioni a seconda dell’osservatore, e spesso anche noi stessi non possiamo guardarci con chiarezza.
Alla fine di questa storia, culminata con la pubblicazione del romanzo, Ermanno Rea regala una copia del libro all’amico Marco, scrivendogli come dedica: “Finalmente in porto, ma non so se basta per dirmi
soddisfatto”.
Non sono le parole di un uomo troppo severo con se stesso, quanto più una presa d’atto: il significato di certe storie, quello vissuto sulla propria pelle e nell’intimità del cuore, non può mai essere rappresentato in modo soddisfacente. Noi possiamo soltanto intuirlo. O forse, semplicemente non c’è alcun significato da inseguire e ricercare, perché ciò che ha luogo nelle profondità del cuore non può essere espresso con il linguaggio umano.
E per Mexico/Caracas?
Chissà.
Ogni parola è ormai superflua. È giusto che questa storia, nelle sue più intime sfaccettature, resti ai suoi veri protagonisti. A noi restano in fondo soltanto delle parole o delle immagini da cui intuire la forza di questo legame.
L’immagine più adatta e bella ce la regala Tullio Pironti, nel suo libro Il paradiso al primo piano:
«Finita la serata accompagnammo Rea in albergo. Durante il tragitto si mise sotto braccio a
Mexico e si estraniarono completamente da noi. Ero con Marco alle loro spalle e li guardavo con
stupore: non capivo cosa avessero da dirsi un ex fascista divenuto musulmano e un vecchio
comunista. Quando ci salutammo, Rea si rivolse a Mexico: «Ci vediamo domani alle dieci a piazza
Dante». Da quel giorno incominciarono a vedersi quasi ogni sera»