Un uomo attraversa il deserto con il volto scavato dal sole e dalla guerra. Un altro uomo, con gli occhi spenti, guida di notte tra le strade umide di New York, anche lui ex soldato, trasformato dalle urla dei fucili. Entrambi sono soli. Entrambi tornano da un altrove che era diventato tutto il loro mondo, ed ora nulla di ciò che ricordavano è rimasto. Ciò che conoscevano si è disfatto, si è corrotto e si è dimenticato di loro.
Travis: «All my life needed was a sense of some place to go».
Ethan Edwards e Travis Bickle non si conoscono, ma uno è il fantasma dell’altro. Due volti dello stesso mito: l’uomo che ritorna, ma non appartiene più a nulla.
Sono i protagonisti di Sentieri Selvaggi, il capolavoro di John Ford, e Taxi Driver, cult del grande Martin Scorsese. Due opere separate da decenni di cinema, eppure profondamente legate.
Sentieri Selvaggi segna la fine dell’epica western, il tramonto della leggenda fondativa dell’America come terra di eroi e pionieri. Con Ford, la frontiera non è più il luogo dove nasce la civiltà, ma quello dove muore o, meglio, si trasforma: il deserto si richiude sull’eroe solitario, e l’epopea del West si spegne insieme a lui.
Vent’anni dopo, Taxi Driver raccoglie quell’eredità e la rovescia. La città sostituisce la frontiera, ma la missione resta la stessa: “ripulire” un mondo che non esiste più. Travis è l’ultimo cowboy, ma si muove tra semafori e vetrine al neon, un cavaliere senza direzione, in un’America che ha ormai consumato i propri ideali e che assolve la violenza invece di riconoscerla come follia. Scorsese non racconta la nascita del mito, ma il suo smascheramento.

New York: la frontiera rovesciata
Nel film di Scorsese e Shrader, New York viene dipinta come la città in cui tutto è in vendita e nulla ha più radici. Per Travis, che di notte fa il tassista, ogni volto sfocato dietro il parabrezza dell’auto è una maschera priva di valori, una figura corrotta, esposta alle luci malate dei neon.
In mezzo a questo caos vischioso, Travis sogna ordine, sogna purezza, sogna la famiglia.
È per questo che si innamora di Betsy: la vede come l’incarnazione di un’America pulita, bianca, borghese, inviolata.
È per questo che vuole “salvare” Iris: perché nel suo delirio, travestito da crociata morale, crede ancora di poter riportare il mondo a un’innocenza che non è mai esistita.
Travis: «Vengono fuori gli animali più strani, la notte: puttane, sfruttatori, mendicanti, drogati, spacciatori di droga, ladri, scippatori. Un giorno o l’altro verrà un altro diluvio universale e ripulirà le strade una volta per sempre».

La Monument Valley come soglia del mito
Lo spazio in cui si muove Ethan è invece delineato da Ford con un confine dapprima netto, poi sempre più labile: il film si muove costantemente tra Tame e Wilderness ovvero tra la civiltà, la casa e la natura selvaggia, incontrollata. Ethan, pur appartenendo di diritto al primo mondo, si rivela incompatibile con esso. Allo stesso tempo, non può appartenere al secondo: ne è attratto, quasi ossessionato, ma resta irrimediabilmente un estraneo.
Nella scena finale di Sentieri selvaggi, Ford chiude il cerchio con un gesto di straordinaria semplicità e potenza simbolica: dopo aver riportato a casa Debbie, una ragazza rapita dagli indiani, Ethan rimane sulla soglia ad osservare la famiglia riunita, senza mai entrare. È il suo mondo quello che guarda, ma non può farne parte.
La comunità che ha davanti non è più quella che conosce da sempre: è una società nuova, meticcia, nata dall’incontro/scontro di culture diverse, di Tame e Wilderness. Ethan, che ha combattuto per difendere un’idea di purezza ormai superata (proprio come Travis), non riesce ad accettare questa trasformazione.
Rimane immobile, sospeso tra l’interno domestico e il deserto che si stende alle sue spalle.
Poi si volta e si allontana lentamente, inghiottito dalla vastità della Monument Valley.

Un’America che tradisce i propri eroi
La nuova America che si sta costruendo alla fine dell’Ottocento è un mosaico di culture, di mescolanze etniche e linguistiche, ma Ethan, legato a un’idea di appartenenza esclusiva, non può accettare questo cambiamento. La sua ossessione per la “contaminazione” e il suo odio verso i nativi lo rendono un relitto di un’epoca che sta scomparendo.
È il cavaliere errante che resta fuori dal focolare domestico, escluso da quel nuovo ordine che avanza, così come Travis, il grande eroe americano che però, alla fine, ritorna nel suo umile taxi giallo, perché la sua alienazione rispetto alla nuova società non è svanita neppure dopo aver salvato Iris.
Ethan: «Secondo me un uomo deve fare un giuramento alla volta. Io ho fatto il mio agli Stati Confederati d’America».
La New York di Scorsese è quindi soffocante, claustrofobica, pulsante di vita artificiale, una vita che ormai Travis non sa più comprendere. Il deserto di Sentieri Selvaggi è invece vasto, inospitale e arido come l’anima di Ethan, che cavalca per anni in circolo senza trovare pace. Entrambi si muovono in territori che li rifiutano, che parlano un linguaggio diverso dal loro.


La violenza come ultima preghiera
La lunga ricerca di Ethan è un viaggio che consuma anni e paesaggi, e ogni tappa sembra solo rafforzare la sua ossessione. Il fucile che porta con sé non è solo un’arma: è l’unico modo che conosce per guardare il mondo, per metterlo a fuoco.
In Taxi Driver invece la tensione monta per accumulo: notti tutte uguali, strade tutte uguali, pensieri che girano in tondo. A forza di rimuginare, Travis riduce la città a un campo di tiro. La pistola diventa un’estensione dei suoi occhi: non serve a difendersi, ma a dare forma concreta al suo delirio. Così, quando la violenza esplode, non è una deviazione improvvisa: è la conseguenza naturale di uno sguardo che da tempo non riesce più a vedere altro.
L’esclusione dalla comunità non li rende passivi, ma al contrario li spinge verso una tensione crescente: se non possono vivere dentro le regole della società, allora cercano di riscriverle con la forza. È in questo scarto, tra il desiderio di ordine e l’incapacità di integrarsi, che la violenza diventa l’unico linguaggio possibile, il solo modo che hanno per lasciare un segno, è il ponte distorto attraverso cui Ethan e Travis tentano di dialogare con un mondo che non li ascolta più.
Né Ethan né Travis hanno legami che li ancorino al mondo: vivono ai margini, incapaci di appartenere a una casa, a una comunità, a un affetto. Entrambi agiscono mossi da un impulso che somiglia all’eroismo, ma ne corrompe il senso. Non sono eroi tragici nel senso classico: non cadono da un’altezza morale, perché quella grandezza l’hanno già perduta.




