Con il finale di Sentieri selvaggi (1956) non si chiude solamente uno dei più grandi film della storia, ma viene posto il sigillo anche a un certo modo di concepire l’epica western. Sentieri selvaggi di John Ford è un vero e proprio spartiacque, sia all’interno del genere che all’interno della filmografia dell’immenso cineasta americano. Infatti Ford, colui che era stato il massimo cantore dell’epopea western, decise, con questo film, di mettere in discussione tutte quelle dinamiche che del genere fecero la fortuna.
In che modo questo avviene? Partendo da un assunto che Ford, fin dai tempi di Ombre rosse, fece suo. Ovvero il rapporto tra la coscienza del singolo individuo e la società. Questo tema, molto americano, è stato una costante nel cinema di Ford. Tuttavia, in Sentieri selvaggi il tutto assume sfumature quasi impercettibili, che rendono l’opera decisamente più complessa e non così facile da decifrare.
E anche il finale è perfettamente coerente con la natura enigmatica di quest’opera gigantesca. Un’opera che, anche grazie ai suoi infiniti sottotesti, e all’estrema sensibilità con cui vengono trattati, è stata consegnata all’immortalità.
Il contesto storico
Prima di cominciare la dissertazione sul finale del film, è necessario citare brevemente il contesto storico in cui la vicenda è ambientata. Siamo in Texas, nel 1868. La guerra di secessione è terminata da ormai tre anni. Tuttavia le ferite che hanno dilaniato il Paese sono ancora vivide e lungi dall’essere risanate. E queste ferite non riguardano solamente le città bombardate e le numerose vittime, ma anche le ferite ideologiche che la guerra ha causato.
Gli Stati Uniti sono, nel 1868, una nazione relativamente giovane. E la guerra di secessione ha rischiato di mettere fine, per la prima volta nella storia degli Stati Uniti, a quell’unità nazionale così duramente conquistata decenni prima con la guerra d’indipendenza.
Perché è così fondamentale prestare attenzione al contesto storico del film? Perché l’epica dello smarrimento che travolge l’intera nazione è la stessa che caratterizza i personaggi di Sentieri selvaggi. E soprattutto perché sapere questo ci aiuterà a decifrare meglio il finale del film, che fondamentalmente parla proprio di questo; ovvero di personaggi smarriti nei sentieri selvaggi dell’esistenza, dove la ricerca della coscienza è un’operazione vana e, allo stesso tempo, necessaria.
Il finale di Sentieri Selvaggi
Il protagonista Ethan (John Wayne) è un reduce che torna finalmente a casa dai suoi cari con la speranza di ricominciare una nuova vita. Le nobili speranze di Ethan vengono però soffocate dalla violenza, poiché una tribù di Comanche stermina la sua famiglia e rapisce sua nipote.
Da qui comincia il lungo viaggio di Ethan, che durerà anni, per trovare l’adorata nipote, ma anche e soprattutto se stesso. È molto emblematico il fatto che il titolo originale dell’opera sia The Searchers, poiché tutti i personaggi del film sono alla ricerca di qualcosa. E spesso si tratta di un qualcosa di intangibile, come la riappacificazione morale verso un paese composto da mille identità diverse, e costituito da mille contraddizioni interne.
Con questo fardello esistenziale sulle spalle, Ethan porta finalmente a termine la sua ricerca. Ritrova la nipote (una giovanissima Natalie Wood) e ritorna alla civiltà. Una volta abbandonate le vie della violenza, Ethan è però messo di fronte a una scelta. La più importante della sua vita. Ha finalmente l’occasione di cessare questo suo errare infinito, e sistemarsi, per godere in pace degli ultimi anni della sua vita. Oppure può continuare il suo vagabondaggio, fisico e spirituale, perché forse la ricerca più importante della sua esistenza non è ancora terminata.
Ethan sceglie la seconda opzione. E questa scelta non è frutto di un elaborato processo mentale, in quanto è figlia diretta di un impulso del tutto irrazionale. Un impulso che sa di autodistruzione.
Nell’ultima scena del film, Ethan decide di non entrare nella casa che gli permetterebbe finalmente di mettere radici, e scompare, mentre la porta si chiude, verso quei sentieri selvaggi in cui, a conti fatti, ha passato tutta la sua nomade esistenza.
Una parabola sullo smarrimento
Per capire meglio tutte le sfumature del finale del film è molto interessante addentrarci nella forma, con la quale Ford decide di narrarlo. Se si parla del finale di Sentieri selvaggi è impossibile non riportare alla mente la sequenza iniziale.
L’opera si apre con una carrellata in avanti che, partendo da dentro un’abitazione, si protrae verso l’esterno, inquadrando la sterminata Monument Valley in tutta la sua incontaminata purezza. In questa inquadratura, oltre allo spazio sconfinato, notiamo anche un uomo a cavallo, Ethan, che progressivamente si avvicina verso la casa, e quindi anche verso la macchina da presa.
Nel finale del film avviene tutto l’opposto. La macchina da presa, partendo dal porticato di una casa, compie una carrellata all’indietro, terminando il suo movimento all’interno di uno spazio chiuso. In questo frangente, tutti i personaggi presenti entrano nella casa, tranne Ethan, che rimane sulla soglia. Dopo qualche istante di indecisione, Ethan si volta e si allontana dalla casa e la macchina da presa non osa seguirlo. La porta si chiude, regalandoci un ultimo sguardo verso un uomo condannato a un eterno, malinconico, viaggio. Schermo nero.
Così si chiude Sentieri selvaggi. In un modo quasi cinico nel suo essere sospeso. Come cinico e sospeso è Ethan; talmente schiacciato da insormontabili dilemmi esistenziali, che la violenza che compie non è altro che una naturale estensione della guerra spirituale che lo consuma.
In fin dei conti questo è Sentieri selvaggi, una parabola sullo smarrimento della coscienza. È una ricerca disperata di un qualcosa di cui si ignora il nome. Ed è anche un doloroso insuccesso, perché Ethan, come tutti gli eroi tragici del mito, assume la sua valenza solamente nel fallimento.
L’eredità di Sentieri Selvaggi
Come abbiamo già affermato all’inizio, Sentieri selvaggi segna anche la fine di un glorioso periodo per il western, in favore di un altro. Comincia infatti la declinazione più esistenzialistica del genere; una fase in cui i personaggi si interrogano sulle loro azioni e si abbandonano a malinconiche riflessioni sul tempo che passa e sulla costante inadeguatezza nei confronti del presente.
Tutto questo decadentismo è figlio di Sentieri selvaggi e del suo finale. Perché è proprio nel finale che tutto questo decadentismo viene alla luce. Con una conclusione differente il film non avrebbe avuto la stessa valenza. E lo stesso John Ford, consapevole della nuova piega che il genere aveva intrapreso, proseguirà l’esplorazione di queste tematiche nei suoi film successivi, come nel capolavoro del ’62 L’uomo che uccise Liberty Valance.
Ma ci furono anche tanti altri maestri che riuscirono a fare proprie queste riflessioni creando opere immense; tra questi troviamo ad esempio Sergio Leone, con la forte ambiguità morale dei suoi personaggi, o Sam Peckinpah, instancabile narratore della disperazione umana che rifiuta la morte di ogni simbolo decaduto. E tutto questo prosegue fino ad arrivare anche a tempi più recenti, come a Gli Spietati del maestro Clint Eastwood, che in qualche modo è un altro spartiacque all’interno del genere. Ma questa è un’altra storia.