Una premessa è fondamentale: un articolo non potrà mai esaurire le sconfinate sfaccettature del Western. Un genere senza frontiere, che contribuì alla formazione del cinema stesso. Nato come fiaba epica, il western si è evoluto fino ai giorni nostri, mutando di volta in volta. Storie di eroi che sono diventati antieroi, pellicole dal perenne lieto fine che diventano leggende di un’inevitabile sconfitta umana.
In quel “lontano west” gli uomini hanno vinto e perso, hanno scoperto la loro fragilità attraversando il deserto ineffabile. Il western è la dimensione in cui l’individuo, solo anche nella collettività, vaga per lande desolate alla ricerca di una versione migliore di se stesso.
Dove ha inizio questa ricerca? Ovviamente, in una storiella, una favoletta, che qualcuno una volta ha raccontato.
Origini del Mito
C’era una volta il famigerato Buffalo Bill, che nel 1883 esportò in Europa il suo spettacolo da circo Wild West and Congress of Rough Riders of the World (Il Selvaggio West e il convegno dei cavalieri più duri al mondo). Ecco dove tutto ebbe inizio. Tra i fenomeni da baraccone, letteralmente.
Agli inizi del XX secolo, poco dopo gli albori della settima arte, iniziò la produzione dei primi film western. Come suggerisce il nome stesso, il vero protagonista di queste pellicole era il paesaggio, le terre infinite dell’America occidentale (il termine “western”, infatti, può tradursi come ciò che è “proprio delle regioni dell’ovest”). Non a caso le prime storie narravano di pionieri che compivano viaggi in occidente per esplorarne e conquistarne i territori.
Si può iniziare a scorgere la manovra di fondazione mitologica che attuarono in quegli anni gli Stati Uniti. Essendo un paese assai più giovane rispetto alle civiltà europee e asiatiche, già forti del loro passato remoto e delle loro leggende, l’America decise di crearsi un proprio mito di fondazione, divenendo una sorta di Nuova Grecia. Questo mito fu trovato nella frontiera. La vastità delle piane e dei deserti americani, che tanto sussurravano l’idea di infinito, divennero il simbolo dell'”infinita” libertà per cui l’America da sempre si vanta di combattere. Trovarono il loro passato nel paesaggio, inconsapevoli della violenza che il selvaggio west avrebbe scagliato sull’uomo.
Tuttavia, questo non fermò gli avventurieri, i colonizzatori, i cercatori d’oro guidati dal destino manifesto. Gli esseri umani avrebbero dominato la natura, col ferro e col sangue.
I primi archetipi del western nel cinema, infatti, nascono da macabri retroscena. Partire alla volta dell’ovest, della corsa all’oro, e alla conquista dell’uomo che voleva dirsi libero implicavano necessariamente sbarazzarsi di tutto ciò che fosse su quel cammino.
Alle origini del mito assistiamo alle fantomatiche lotte tra cowboy e indiani, entità indomite a stretto contatto con la natura, da dominare o eliminare. Uno dei film più celebri del genere, Ombre Rosse (1939) di John Ford, affronta proprio questa tematica. Le popolazioni indigene dell’America settentrionale erano selvaggi terrificanti, degli spettri che infestavano le valli solitarie.
La mutazione del western, in seguito, demolirà questo stereotipo; le pellicole diventeranno strumenti di denuncia e ricordo per le angherie subite dai nativi americani, come nel tristemente romantico Balla coi lupi (1990).
C’era una volta il West
Col tempo i film western divennero sempre più eroici, sempre pieni di speranza e carichi di messaggi positivi. Divennero storie di disadattati che si riunivano per proteggere dei contadini oppressi dai banditi, come ne I Magnifici Sette (1960). Viceversa, poteva esservi anche un solo protagonista, come nella stragrande maggioranza dei film di John Ford con John Wayne, oppure nel così facilmente dimenticato Il cavaliere della valle solitaria (1953).
In questi film non potevano mancare avventura, sparatorie e duelli, risse nei saloon, assalti al treno, pistole colt e fucili Winchester.
Essendo, tuttavia, film destinati anche alle famiglie, la violenza della polvere da sparo era alquanto edulcorata. Diversi espedienti registici e di montaggio cercavano di rendere il più impetuoso degli scontri a fuoco fruibile anche ai bambini. Proprio per questi ultimi, tra l’altro, difficilmente si vedrà in un western americano dei primi tempi il protagonista che beve whisky e fuma sigari. Almeno fino agli anni ’60, quando il western giunse in Italia.
I cosiddetti “spaghetti western” furono una sorta di rivoluzione del genere. Tra i registi di questo filone, troviamo un uomo destinato a cambiare la storia del cinema: Sergio Leone, il cowboy della macchina da presa.
Con la sua Trilogia del Dollaro (Per un pugno di dollari, Per qualche dollaro in più e Il Buono, il Brutto e il Cattivo) Leone riscrisse per sempre i canoni del western. Potendo sfruttare il grugno e l’indolenza di Clint Eastwood, il regista italiano creò personaggi che l’America non aveva mai visto. Tolse il velo illusorio di eroismo e perbenismo della fiaba di frontiera, scrivendo di figure rozze e sporche, sempre a proprio agio con la violenza che li circondava.
Se il carattere dei cavalieri americani era ispirato alle delicate e confortanti pianure verdi, i pistoleri di Leone sono grezzi e duri come la roccia delle montagne. Il western è anche questo: violenza. Della natura sull’uomo, ma ancor di più, degli uomini sugli uomini.
In un certo senso, i protagonisti di Sergio Leone sono tutti dei fuori-legge, che è diverso dall’essere criminali. Sono al di là dell’ordine costituito, liberi come il paesaggio che solcano, decidono in base al proprio spirito. Negli spaghetti western persino gli “eroi” divengono ricercati, perché rappresentano la creatura più temuta al mondo: uomini liberi.
E nonostante queste infinite ambiguità, la storia che ci viene raccontata è sempre la più classica delle fiabe, del bene contro il male. Solo che non seguiamo più le vicende di paladini senza macchia, anzi. Questi nuovi pistoleri, che fumano sigari e bevono whisky, sono avvolti da un passato misterioso e angosciante, cui non ci è dato accesso se non dai loro sguardi. E per arcigni che possano essere, per spietati che siano, scelgono di aiutare, di salvare il reame, da bravi cavalieri, e di andarsene poi, senza meta, verso un tramonto ineluttabile.
Perché, infine, il western è anche questo. Se il suo paesaggio è moralizzato, cosa significa dunque il deserto? Non è altro che l’anima degli uomini, e insieme il loro destino. Una terra vasta, ma che in fondo è anche vuota, ed esige un grande cuore.
Dopo l’avvento di Sergio Leone riusciamo a scrutare questa perdizione, la sentiamo come nostra pur nella distanza; perché l’uomo nel deserto non potrà essere che solo, schiacciato dal niente che lo circonda, assordato dai ricordi silenti della pietra.
Il west è una landa desolata di sconfitti, di individui smarriti e di un tempo perduto. Un’era che sa di morte, ma anche di amara speranza, di un’epica redenzione rosso sangue.
Molta brava gente si perde nel deserto, persone innocenti, fragili e confuse. Quando il mondo fallisce nell’essere una fiaba, ecco che arrivano i cowboy. Questi fantasmi, cui sono rimasti solo dubbi e cicatrici, possono scegliere di tormentare o proteggere gli indifesi, accompagnandoli fuori da quel deserto in cui loro, però, sono relegati.
Quando sono gli uomini con le pistole ad aiutare i contadini, questi ultimi vincono sempre; i primi, invece, sono destinati a perdere, alla fine del film. D’altronde, l’occidente è la terra del tramonto (letteralmente, “occidente”, dal latino occĭdens, -entis, participio di occidĕre “cadere”, riferito al sole che tramonta, ma traducibile anche come “morire, estinguersi”).
william Munny: «È una cosa grossa uccidere un uomo: gli levi tutto quello che ha… e tutto quello che sperava di avere».
Kid schofield: «Credo che se la sono meritata».
william munny: «Tutti ce la meritiamo, ragazzo».
Da un dialogo de Gli Spietati (Unforgiven, “senza perdono”, di Clint Eastwood, 1992).
Non è un paese per il vecchio West
Come inscritto nel suo nome, anche l’epoca del west doveva giungere a una sua fine. Tra leggende all’italiana, parodie e rivisitazioni, il western nella sua purezza si è spento lentamente. Non è morto, però. Anzi, si può dire che sia tra le fondamenta del cinema contemporaneo.
Se difficilmente vedremo ancora cowboy in sella, salvo eccezioni come Django Unchained (Quentin Tarantino, 2013) e I Fratelli Sisters di Jacques Audiard (2018), non è detto che servano le icone storiche per fare un genere. «Non basta una corda per fare un impiccato», direbbe Sentenza da Il Buono, il Brutto e il Cattivo.
Già negli anni ’50 I Sette Samurai poteva classificarsi come western, pur essendo ambientato sulla sponda opposta all’Ovest per antonomasia. Non a caso I Magnifici Sette sarà il suo remake occidentale, ma a cambiare saranno solo ambientazione e costumi.
Anche Star Wars utilizza molti elementi western e lo stesso George Lucas ha più volte affermato che con la sua saga ha inteso rivitalizzare la mitologia cinematografica, originariamente creata proprio dal western: gli Jedi, che prendono il nome da Jidai-geki (filone televisivo giapponese che racconta dell’epoca dei samurai), sono caratterizzati da samurai a tutti gli effetti e mostrano chiaramente influenze della cinematografia di Kurosawa; il personaggio Han Solo veste come un pistolero, e il locale nella città di Mos Eisley su Tatooine rassomiglia a un saloon del vecchio west. Come se non bastasse, proprio nel film Solo – A Star Wars Story, abbiamo un assalto al treno, una rapina e un duello.
Dagli anni ’70 in poi si è esaurito il mito di frontiera, ma non quello della riscossa e delle violente passioni con violenta fine. Registi e autori di vario genere hanno scelto se attingere alla componente più eroica del western, come nel caso di Star Wars, o alla vena più malinconica, come in Kill Bill Vol. 2 (Quentin Tarantino, 2004), oppure in Non è un paese per vecchi (2007) dei fratelli Coen.
Quest’ultimo in particolare riprende le tematiche di perdizione e sconforto, la paura e l’angoscia di fronte a un destino ineluttabile. Di fatti, lo sceriffo dei Coen fa discorsi ben diversi dagli sceriffi di John Ford.
Sceriffo Bell: «Io non so cosa pensare, non lo so proprio. Con la criminalità di oggi è difficile capirci qualcosa. Non è che mi faccia paura, l’ho sempre saputo che uno deve essere disposto a morire se vuole fare questo lavoro, ma non ho intenzione di mettere la mia posta sul tavolo… Di uscire e andare incontro a qualcosa che non capisco. Significherebbe mettere a rischio la propria anima, dire “OK, faccio parte di questo mondo”».
Il vecchio dovrà sempre fare largo al nuovo, che lo voglia o meno. Chi, tuttavia, racconta di questi antichi abbattuti, chi ne narra le gesta, mentre fuggivano dal treno della modernità? Il western, ovviamente, in tutte le sue forme e mutazioni. Parlando delle quali, vi è proprio un film sui mutanti, su un X-man, a riprendere gli stilemi del genere per raccontare la storia di un “eroe” ormai non così super.
Logan (2017) di James Mangold riprende il west sia nell’ambientazione, sia nelle musiche e, infine, nella trama. Non solo, prende spunto proprio da quel semisconosciuto Il Cavaliere della Valle Solitaria, per riproporlo in chiave contemporanea e pseudo fumettistica. C’è ben poco di eroico, infatti, in Logan; anzi, la pellicola è alquanto crepuscolare, una storia di un uomo che ha sofferto troppo per vivere, senza poter morire, e che riscopre sé stesso ritrovando sua figlia, una sola dannata buona ragione per andare avanti e sacrificarsi, per l’ultima volta.
I western nacquero per far credere alla gente nel lieto fine, ma furono i western stessi, infine, a distruggerlo. Eppure resiste un’aura di speranza, di compassione, di libertà. Per quanto i pistoleri e i cacciatori di taglie possano essere dannati, avranno la loro possibilità di redimersi, pur sapendo che non ci sarà ricompensa. Ci saranno sempre un buono, un brutto e un cattivo a combattere, chi per il bene, chi per il male, chi per entrambi, nel triello delle forze che reggono il mondo.
Il west come ce l’hanno raccontato, come lo presentò Buffalo Bill nel lontano 1883, forse non è mai esistito. Fu una fiaba e ne divenne il rovescio, narrava di salvataggi epici o di vendette spietate, ora con film del calibro di Tre Manifesti a Ebbing, Missouri (2017), come allora con Per qualche dollaro in più (1965).
Come disse Sergio Leone «il cinema deve essere spettacolo, è questo che il pubblico vuole. E per me lo spettacolo più bello è quello del mito. Il cinema è mito».
Mythos dal greco significa “racconto”, e non vi è racconto più spettacolare di quello del west. Un racconto sospeso nelle sabbie del tempo, tanto antico quanto moderno, per sempre in bilico tra la vita e la morte.
Un genere che nasce come fiaba, per divenire mito e, infine, leggenda.
Scott: «Qui siamo nel West, dove se la leggenda diventa realtà, vince la leggenda».
Tratto da L’uomo che uccise Liberty Valance (1962) di John Ford.