Sergio Leone e Clint Eastwood – Tre film, due espressioni, un sigaro

Davide Capobianco

Gennaio 15, 2020

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“Avevo bisogno più di una maschera che di un attore, ed Eastwood a quell’epoca aveva solo due espressioni: con il cappello e senza cappello.”

Sergio Leone

Con un attore da due sole espressioni Sergio Leone, il pistolero dietro la macchina da presa, si è aggiudicato un posto nella storia del cinema.

Tutto iniziò nel lontano 1964, quando il regista romano, ancora semi sconosciuto, cercava un attore per il suo secondo lungometraggio. Avrebbe voluto un Henry Fonda o James Coburn (I Magnifici Sette), ma costavano troppo.
C’era, però, un giovanotto americano, lento nei movimenti, dall’attitudine indolente, che recitava per un serial western celebre negli Stati Uniti, Rawhide. Sergio Leone lo notò, disse che amava la sua lenta noncuranza nel recitare; era solo troppo pulito per il film, ma un bel poncho, un cappello e un sigaro fumante lo avrebbero reso l’uomo senza nome della leggenda. Inoltre si accontentò di un cachet basso, accettò la parte per un pugno di dollari.

“Andai a prenderlo all’aeroporto. Arrivò vestito col cattivo gusto degli studenti americani. Me ne fregavo. Erano il suo viso e la sua goffaggine a interessarmi. Parlava poco, come in Rawhide. Mi ha detto semplicemente: «Faremo un buon western insieme».” (Sergio Leone).

Clint Eastwood era un attore di contrasti, pigro, ma inesorabile, impassibile, ma capace di rubare la scena a colleghi decisamente più espressivi. Era sempre rilassato e questo creava una perfetta antitesi scenica con l’esplosione e la velocità dei colpi di pistola.

È la potenza delle maschere, d’altronde, dell’espressione imperscrutabile, che può essere tutto e nulla. Uno sguardo suggerisce, ma non esplicita. Si crea una forte suggestione, molta della narrazione viene data dal montaggio, da ciò che ci viene mostrato e non detto, e il vago sarà sempre il linguaggio più efficace e diretto, preciso come un winchester.

All’epoca, però, nessuno poteva sapere di cosa fosse capace Sergio Leone, nessuno sapeva del mito, del cinema degli sguardi che avrebbe consacrato il regista alla leggenda. Anzi, i western italiani erano un controsenso: per gli americani il cinema italiano era d’élite, era cinema d’autore, mentre il western, di qualunque provenienza, era mero intrattenimento di scarsa caratura artistica. Il famoso (o famigerato) termine Spaghetti Western nacque in senso dispregiativo, definiva lungometraggi di serie b, zona retrocessione.

Eastwood decise di recitare in Per un pugno di dollari (1964) poiché la trovò una sceneggiatura audace per i tempi; notò, infatti, che era presa a piene mani da quella grande pellicola che fu Yojimbo di Kurosawa (molti vedono la storia di Leone come una trasposizione occidentale del film giapponese).

“Leone era provvisto in egual misura di un grande senso dell’umorismo e di una tendenza al visionario. Era estremamente naturale. Non aveva paura di fare qualcosa di nuovo.”

Clint Eastwood

In principio vi era stima e curiosità reciproca tra i due. Trovarono subito una sintonia di sorta, quella dei vagabondi sperduti nel deserto, solitari in compagnia; eppure non andavano sempre d’accordo. La prima divergenza d’opinioni nacque proprio sul set di Per un pugno di dollari, quando capirono che avevano tanto da imparare l’uno dall’altro.

Il protagonista del film, secondo Eastwood, parlava troppo. C’era addirittura una scena in cui l’uomo senza nome rivelava prolissamente il suo passato e le sue tribolazioni in un monologo. Clint pensava che in una sceneggiatura di violenza ed epica come quella di Leone il personaggio principale dovesse essere più misterioso, più enigmatico, così da risultare più coinvolgente per lo spettatore. Fu l’attore a suggerire al regista una messa in scena che poi sarebbe stata il marchio di fabbrica dei film a venire: quando si spara si spara, non si parla.

Da quel momento il protagonista delle pellicole successive sarebbe stato completamente imperturbabile: i suoi occhi, così come i suoi aforismi, non avrebbero rivelato niente. Tutto doveva essere nei dettagli, che a detta del regista rivelano potenzialmente ogni cosa di un personaggio: le sue paure, la sua rabbia, chi è o chi sperava di essere. Piccole sfaccettature avrebbero definito il buono, il brutto e il cattivo di una storia.

Tuttavia, c’era un piccolo elemento di grande fastidio per il texano dagli occhi di ghiaccio: il sigaro. Infatti, Clint Eastwood non fumava e per il secondo film insieme a Sergio, Per qualche dollaro in più (1965), implorò il regista di non utilizzare quell’oggetto che pure era così caratteristico. La risposta di Leone non si fece attendere: “vuoi lasciare il personaggio a metà, Clint?”.

C’era una volta a… Hollywood

È interessante soffermarsi sulla provenienza cinematografica di questi due artisti: un attore della vecchia Hollywood, abituato a canoni cinematografici e stilemi narrativi molto precisi, e un regista agli esordi con alle spalle un solo lungometraggio di genere (Il Colosso di Rodi, 1961).
Stando alle parole di Eastwood, Sergio Leone non sapeva nulla di come si realizzasse un western. Anzi, proprio il suo approccio adolescenziale e fantasioso, libero da dogmi e convenzioni, avrebbe fatto la fortuna del regista, poiché lo ha portato verso nuove frontiere del racconto audiovisivo.

Bisogna ricordare, tra le altre cose, che per i film americani dell’epoca vigeva il Codice Hays, una serie di linee guida che per molti decenni ha governato e limitato la produzione del cinema negli USA. Questo codice specificava cosa fosse o non fosse considerato “moralmente accettabile” nella produzione delle pellicole.

Ad esempio, si era stabilito da molto tempo che un personaggio colpito da una pallottola di un’arma da fuoco non potesse trovarsi nello stesso fotogramma dell’arma nel momento in cui questa sparava, poiché l’effetto era troppo violento. La scena veniva girata separatamente, e poi si mostrava la persona che cadeva.
Sergio Leone non ne era affatto al corrente, quindi metteva tutto insieme: la pistola che fa fuoco, la pallottola che parte, il tizio che stramazza al suolo, e non era mai stato così prima.
Fu proprio questa sincera ingenuità, involontariamente sperimentale, che portò Leone ad avere prima la curiosità di Eastwood, poi la sua attenzione.

Un sodalizio durato tre film, culminato in una delle pellicole più belle della storia del cinema: Il Buono, il Brutto e il Cattivo (1966). Lì si realizzò la perfetta sintesi tra la monolitica indolenza di Clint Eastwood e la poetica degli sguardi di Sergio Leone, con inquadrature che sono ritratti di un volto indimenticabile, pur avendo due sole espressioni.

Infine, come spesso accade tra cowboy, si allontanarono; Clint era un attore ancora giovane e voleva fare nuove esperienze, in maniera più autonoma. Insieme a Leone, però, aveva segnato un’epoca, che avrebbe ispirato generazioni a venire.
I loro western sono fiabe tutt’ora raccontate, anzi la loro vera storia è diventata di recente un racconto. Se pensiamo che Eastwood era una star americana di una serie tv western che è finita in Italia a girare “film di serie b”, in pratica stimo riassumendo la trama di Rick Dalton in C’era una volta a… Hollywood di Quentin Tarantino, che da sempre parla di Sergio Leone come suo regista preferito. E fu così che il mondo reale finì per diventare favola.

Poiché quando un ragazzo dagli occhi di ghiaccio incontra un regista dal cuore crepuscolare, nasce il mito. E come diceva John Wayne, nel far west, tra la realtà e la leggenda, vince la leggenda. Sempre.

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