Non è un paese per vecchi, i Coen, la Bibbia.
«Prima o poi bisognerà fare davvero i conti con i fratelli Coen e col loro cinema ingordo di tutto altro cinema, letteratura, fumetti, filosofia, teologia», diceva Ferzetti nel 2007, a proposito del loro nuovo film. Non è un paese per vecchi è in fondo un film unico della loro produzione, ma al contempo uno dei più rappresentativi in virtù di quel loro “modo ingordo” di fare cinema.
Ovviamente, non lo si trascuri, i meriti vanno sicuramente spartiti con Cormac McCarthy – tra i più grandi scrittori contemporanei.
Ma dal suo libro i Coen sono riusciti a estrarre un’opera ancor più distaccata, cinica, dove realmente sembra leggersi la totale mancanza di quella luce di speranza sempre presente in ogni libro dello Shakespeare del West, per quanto tenue possa essere.
Le analogie di stili e tematiche tra queste due entità (McCarthy e i Coen) sono immani: era questione di tempo prima che si trovassero a percorrere insieme parte del loro cammino. E come un certo Harold Bloom scrisse a proposito di Meridiano di Sangue, probabilmente il grande capolavoro di McCarthy: «È la cosa più simile a Moby Dick che sia mai stata scritta», così in Non è un paese per vecchi riemergono forti richiami biblici.
Non si sa quanto questi siano frutto della speculazione dell’autore, oppure di una mera fantasticheria di chi qui sta interpretando l’opera, ma in fondo questo forse non ha molta importanza. Ogni opera è una macchina pigra, diceva Umberto Eco: «fin quando riusciamo a mantenerci nei limiti del buon senso, forse si può osare anche una lettura di questo tipo».
Moss – La caduta dall’Eden
Chiariamoci: la condizione di vita di Moss difficilmente può essere associata al Paradiso Terrestre. Eppure, nella visione fatalista dei Coen e di McCarthy, era quanto Dio, o qualunque cosa governi questo mondo, aveva stabilito per lui. Il ritrovamento della valigetta sembra per lui l’occasione perfetta per cambiare la sua vita, per ribellarsi al destino che gli è stato imposto. Chi mai potrebbe biasimarlo per questo? Nessuno. Nessuno, tranne la legge della causalità: lui non era adatto per una vita del genere, da fuggitivo, da reietto, Wells prima e Chigurh poi glielo faranno presente, ognuno a suo modo.
«Il serpente era la più astuta di tutte le bestie selvatiche fatte dal Signore Dio. Egli disse alla donna: «È vero che Dio ha detto: Non dovete mangiare di nessun albero del giardino?». Rispose la donna al serpente: «Dei frutti degli alberi del giardino noi possiamo mangiare, ma del frutto dell’albero che sta in mezzo al giardino Dio ha detto: Non ne dovete mangiare e non lo dovete toccare, altrimenti morirete». Ma il serpente disse alla donna: «Non morirete affatto! Anzi, Dio sa che quando voi ne mangiaste, si aprirebbero i vostri occhi e diventereste come Dio, conoscendo il bene e il male». Allora la donna vide che l’albero era buono da mangiare, gradito agli occhi e desiderabile per acquistare saggezza; prese del suo frutto e ne mangiò, poi ne diede anche al marito, che era con lei, e anch’egli ne mangiò. Allora si aprirono gli occhi di tutti e due e si accorsero di essere nudi».
(Gen 3, 1:7)
Come afferma il Bianco in Sunset Limited, la volontà di conoscere il perchè della propria condizione è causa di dannazione, e lo è ancor più il cercare di modificarla, di opporvisi. Nella visione dei Coen l’illusione di poter cambiare vita senza lasciarsi nulla dietro, di poter sfidare quanto il fato gli avesse dato in sorte, ne decreta la fine nel momento stesso in cui decide di cogliere quel frutto proibito, di portare con sé la valigetta: la superbia è il primo, il più grave dei peccati capitali. E Moss, decidendo di sfidare il Fato senza avere le carte giuste dalla sua parte, se ne macchia indelebilmente, portando la storia sua e di sua moglie Carla Jean verso l’unica risoluzione possibile.
«Non tutti sono adatti a lavorare in questo settore.» dice Chigurh nel libro. «La prospettiva di guadagni smisurati porta certa gente a sopravvalutare le proprie capacità. Mentalmente, intendo. Si illudono di avere il pieno controllo sugli eventi, mentre forse non è così».
(Cormac McCarthy, Non è un paese per vecchi)
Un’ulteriore conferma che la caduta di Moss nel baratro della sconfitta fosse qualcosa di già preordinato dai flussi degli eventi che sottendono l’universo dell’opera. Lasciare la strada vecchia in favore di quella nuova, per dirla alla Verga – scrittore in cui si possono trovare molte analogie con McCarthy -, senza essere preparati a ciò che si prospetta, non può che portare a un epilogo tragico.
Chigurh – Servire Dio e Mammona
«Alla fine gli ho chiesto se sapeva chi era Mammona. E lui: Mammona?
Sì. Mammona.
Cioè, come quando si dice Dio e Mammona?
Proprio così.
Be’, ha detto, di preciso non lo so. So che è nella bibbia. È il demonio?
Non lo so. Ma voglio fare qualche ricerca. Ho la sensazione che dovrei conoscerlo meglio».
(C. McCarthy, Non è un paese per vecchi)
Ciò che maggiormente rimane impresso di Non è un paese per vecchi, sono senza dubbio l’accento esotico e il ghigno inquietante di Javier Bardem, che è riuscito a dare vita a un personaggio epico sulla pagina scritta, rendendolo qualcosa di indicibile e terrificante sullo schermo. Lucido nella sua efferatezza propria più di una macchina che di una bestia, massacra le sue vittime con una pistola captiva usata per macellare le vacche.
Un «profeta della morte e della distruzione», come lo definisce Bell.
Un essere che sembra irriconducibile ad alcun uovo atavico, che pare non avere origine né scopo se non la cieca e assurda fedeltà nella sua missione. Tornano in mente Fargo e Barton Fink – quest’ultimo non a caso tratto da un libro di Faulkner, uno dei grandi ispiratori di McCarhty -, film in cui il Male si dava come enigma imperscrutabile e quasi necessario. Ma torna in mente in fondo un po’ tutta l’opera di McCarthy, dalla Trilogia della frontiera a soprattutto Meridiano di sangue, un romanzo pieno di violenze e crudeltà indicibili, dove Bene e Male sembrano una dicotomia in lotta ma, alla fine, paiono quasi abbracciarsi, stringersi, mescolarsi fino a diventare indistinguibili.
Il Male è parte di noi, la parte più spontanea e genuina, quella che spinge a perpetuarsi nel mondo.
Non necessita spiegazioni e chiarimenti: è lì, e lo subisci e lo fai. Come i monologhi del giudice Holden, così il gioco di Chirgurh non sono didascalie a margini, ma pura aletheia, disvelamenti della ratifica di sequenze e causalità che muove e plasma il mondo.
Proprio qui si colloca Chigurh: più che una vera personificazione della morte, la sua figura pare proprio quella di un emissario della causalità – e che, nella visione dei Coen come in quella di McCarthy, non può che essere legata a doppio filo con la casualità.
È un Male nel pieno stile di questi due autori, visto con distacco e lucidità.
Un’entità priva di alcuna forma di compiacimento nei suoi atti di violenza, se non la cieca e immutabile convinzione che, per farsi strada nel mondo, non può che divenire una macchina inarrestabile.
«Non sei obbligato a farlo, disse. Non sei obbligato. No.
Lui scosse la testa. Mi stai chiedendo di rendermi vulnerabile, e questo non lo posso fare. Ho un solo modo per sopravvivere. Non ammette eccezioni. Al limite un lancio di monetina».
(C. McCarthy, Non è un paese per vecchi)
Un cacciatore solitario, solo contro il mondo, con una fedeltà assoluta nella sua visione del mondo – come dimostra nell’epilogo coi due ragazzini, non permettendo di accettare il loro aiuto disinteressato. È Mammona come lo definisce Bell, indubbiamente, specchio di un mondo che «non è altro che una saga fatta di stragi, avidità e follia», per dirla come il Bianco di Sunset Limited.
Ma è anche soprattutto il Leviatano, il caos primordiale che si riversa sul mondo, la potenza che pare cieca e priva di controllo e che sembra specchio di quella del manovratore dei fili di questo mondo. Fili a cui tuttavia non può evitare di sottrarsi, come il Leviatano – destinato a essere distrutto insieme a Behemoth e Ziz nel giorno del Giudizio.
«Ho visto anche sotto il sole che non è degli agili la corsa, né dei forti la guerra e neppure dei sapienti il pane e degli accorti la ricchezza e nemmeno degli intelligenti il favore, perché il tempo e il caso raggiungono tutti.
Infatti l’uomo non conosce neppure la sua ora: simile ai pesci che sono presi dalla rete fatale e agli uccelli presi al laccio, l’uomo è sorpreso dalla sventura che improvvisa si abbatte su di lui».
(Ec 9, 11)
A differenza del giudice Holden infatti, Chigurh non è un essere che trascende il mondo: ci sguazza come chiunque altro, con la consapevolezza che ogni bivio, ogni evento, ogni momento dell’esistenza non sia altro che una serie immutabile di testa o croce, a cui nessuno può sottrarsi.
Sottrarsi – evento che appare solo nel film, non nel libro -, equivale essenzialmente a non vivere, rinunciare a «danzare» citando ancora il giudice Holden, e quindi a essere annientati, come accade a Carla Jean.
Bell – La sofferenza del giusto
«Ero sereno e Dio mi ha stritolato, mi ha afferrato la nuca e mi ha sfondato il cranio, ha fatto di me il suo bersaglio. I suoi arcieri prendono la mira su di me, senza pietà egli mi trafigge i reni, per terra versa il mio fiele, apre su di me breccia su breccia, infierisce su di me come un generale trionfatore».
(Gb 16, 12:14)
Bell è sicuramente la vera anima del film, come lo è nel romanzo, e il personaggio a cui – benché spesso la cosa passi in sordina -, si possono ricondurre i maggiori riferimenti biblici.
I legami con la figura di Giobbe sono immani: entrambi hanno perso dei figli – Bell una figlia in circostanze misteriose, ma alcuni indizi nel libro fanno pensare al crollo di una casa, analogamente al personaggio biblico -, entrambi vengono dipinti come persone rette che tuttavia subiscono sofferenze immani quanto e più degli altri, e infine entrambi sembrano perdere gradualmente sempre più l’idea che il mondo sia guidato da un’entità benevola, che ha cura del destino dell’uomo premiando i giusti e punendo i malvagi – nella visione un po’ ingenua che Bell, all’inizio del film almeno, pare avere del mondo.
«Sono stato costretto a guardare le cose con occhi nuovi, sono stato costretto a guardare me stesso. Se sia stato un bene o un male non lo so. Non so se vi consiglierei di prendere la mia stessa strada, e dubbi di questo genere non ne avevo mai avuti. Forse sono arrivato a capire meglio il mondo, ma ho pagato un prezzo. Un prezzo salato, oltretutto».
(C. McCarthy, Non è un paese per vecchi)
Bell, nell’incipit del film, ci espone i racconti degli sceriffi del passato.
Di come girassero senza armi poiché non ve ne era alcun bisogno per far rispettare la legge.
Un’idea che non si rivela altro che una bugia, come gli espone lo zio Ellis, raccontando dell’assurda – e, in fondo, silenziosa agli occhi di Dio – morte dello zio Mack.
Ellis: «Quello che stai vivendo tu non è una novità. Questo paese è sempre stato duro con la gente. Non puoi fermare ciò che arriva. Non sta aspettando il tuo intervento. È solo Vanità».
(Dal film Non è un paese per vecchi)
«Ciò che è stato sarà e ciò che si è fatto si rifarà; non c’è niente di nuovo sotto il sole».
(Ec 1, 9)
«È questa una occupazione penosa che Dio ha imposto agli uomini, perché in essa fatichino. Ho visto tutte le cose che si fanno sotto il sole ed ecco che tutto è vanità e un inseguire il vento».
(Ec 1, 14)
Se ne potrebbero citare un’infinità di riferimenti al Qoelet (o Ecclesiaste) presenti in Non è un paese per vecchi, di cui sembra la vera anima portante quanto il libro di Giobbe lo è per il personaggio di Bell.
Ritorna indubbiamente l’analogia con l’episodio dell’albero della conoscenza della Genesi.
Bell non capisce il Male inizialmente, ma quando ne comprende il vero volto non può che sentirsene angosciato, atterrito, sopraffatto e impotente di fronte alla sua presenza incontrastabile, ritirandosi sconsolato («Ho deciso allora di conoscere la sapienza e la scienza, come anche la stoltezza e la follia, e ho compreso che anche questo è inseguire il vento». Ec 1, 17)
Tre volti, un solo personaggio
Già, il vento. Il vento è un elemento fondamentale del film, e in un certo senso si potrebbe definire il suo vero protagonista. Il vento che tutto cancella, che corrode ogni impronta del passaggio dell’uomo, che spolpa e rinsecchisce i cadaveri e poi li rende polvere.
Il film è una sfilza di cadaveri, di uomini come di animali, tra cui non vi è alcuna differenza; tutti muoiono allo stesso modo – persino uno dei protagonisti, Moss, la cui morte non viene neanche mostrata allo spettatore, quasi a segnalarne la futilità nel quadro generale -, come se tutti si annullassero nella grande vanità dei loro propositi.
«Poi riguardo ai figli dell’uomo mi son detto: Dio vuol provarli e mostrare che essi di per sè sono come bestie. Infatti la sorte degli uomini e quella delle bestie è la stessa; come muoiono queste muoiono quelli; c’è un solo soffio vitale per tutti. […]
Tutto è venuto dalla polvere e tutto ritorno nella polvere».
(Ec 3, 18:20)
Uomini e bestie, ogni cosa subisce il passaggio del vento incessante e annichilente, al cui corso è cosa vana opporsi, anzi «è semplice vanità», come dice Ellis. Così come è inutile cercare di opporsi alla morte o alla gravità, così è inutile pensare di poter raddrizzare un mondo che trova le sue fondamenta nella Legge del più forte, nella sopraffazione, un mondo nato già storto («Ciò che è storto non si può raddrizzare, e quel che manca non si può contare». Ecc 1,15)
Non a caso la musica è assente all’interno del film – scelta coraggiosa quanto superba, autoriale.
È il vento la vera musica, costantemente presente, quasi a segnare l’assenza di un Dio regolatore, come si è già detto, ma solo di una qualche confusa idea casuale che muove i fili passo dopo passo, spettro dell’agire di una Natura che appare malvagia e distruttrice, ma che in fondo è sempre e solo sé stessa, fredda e indifferente, perfetta e lontana.
Non solo – scopre infine Bell – non è un paese per vecchi (metafora di un paese per deboli): non lo è mai stato, tornando al riferimento al Nihl sub sole novum. Il Texas stesso che ci viene mostrato è un paese di morti e per morti, «fuori dal tempo ma non dalla storia», come ha detto Morandini. Siamo negli anni ’80, ma potremmo anche essere nella Preistoria, agli albori dell’uomo, in un mondo dove non c’è spazio per la pietà (il grande errore di Moss, che innesca la tragica girandola che porta alla sua rovina).
C’è solo spazio per la presa di coscienza dell’onnipresenza del male nel mondo, della vita come una costante e spietata lotta per la sopravvivenza, e quindi per la sopraffazione: un meccanismo crudele che porta unicamente a schiacciare i deboli e permette ai forti di vincere, meccanismo che nessuno potrà mai cambiare perchè intrinseco alla natura stessa.
Un messaggio che nel libro appare mitigato da quel fioco spiraglio di luce della mirabile scena dell’abbeveratoio dell’explicit, e che invece nel film appare ancor più sconsolato e privo di speranza.
Bell: «Ne ho fatti due [Bell parla alla moglie dei sogni fatti durante la notte, ndr]. E in tutti e due c’era mio padre – che strano. Ho vent’anni di più di quanti ne aveva lui quando è morto, quindi, in un certo senso, è lui il più giovane. Comunque sia, il primo non me lo ricordo tanto bene, ma lo incontravo da qualche parte in città, mi regalava dei soldi. Ed io li perdevo. Il secondo era come se fossimo tornati tutti e due indietro nel tempo. Io ero a cavallo e attraversavo le montagne di notte. Attraversavo un passo in mezzo alle montagne. Faceva freddo, e a terra c’era la neve. Lui mi superava col suo cavallo e andava avanti. Continuava a cavalcare senza dire una parola. Lui era avvolto in una coperta e teneva la testa bassa. Mi ha sorpassato, e io mi sono accorto che teneva una fiaccola, ricavata da un corno, come usava ai vecchi tempi. E il corno alla luce della fiamma che c’era dentro era del colore della luna. E nel sogno sapevo che stava andando avanti. Per accendere un fuoco da qualche parte, in mezzo a tutto quel buio e a quel freddo. E che quando ci sarei arrivato, lo avrei trovato lì. Poi mi sono svegliato».
(Dal film Non è un paese per vecchi)
Quella parte finale, che in molti hanno visto come il punto debole del film, è dunque proprio il punto della storia in cui i Coen spiattellano in faccia il risultato della loro analisi e la loro volontà di conoscere – sempre presente nelle loro opere, ma forse mai come qui, complice probabilmente la vicinanza con lo Shakespeare del West.
Pur nel mondo senza pietà che il film rappresenta, si avverte come uno sguardo di compassione sui tre protagonisti.
È come se fossero tre volti di uno stesso personaggio con cui il Dio del racconto si diverte a giocare a dadi – o meglio, a testa o croce. L’ineliminabile solitudine in cui ognuno di loro, pur con modalità diverse, si ritrova invischiato, gli sforzi quasi patetici per darsi una ragione di esistere, una ragione del loro errare, o comunque un senso alle loro pene. Un senso al perché della loro rovina, poiché tutti e tre, alla fine, si ritrovano a essere dei Vinti.
È difficile inquadrare con stile, compassione e ironia il mondo nel momento stesso in cui lo rappresenti come un posto totalmente impazzito, alla deriva, fuori da ogni logica comprensibile dall’uomo e in cui c’è spazio solo per l’avidità e la più cieca violenza incontrollata. E i Coen, riuscendolo a fare con un tocco così magistrale, classico e personale allo stesso tempo, rientrano nell’opinione di chi scrive tra i più grandi autori del cinema americano contemporaneo.