Funny Games, Kid Yugi, Noyz Narcos e quell’eterna lotta tra chi non c’ha niente e chi c’ha tutti addosso

Sofia Lorenzetti

Dicembre 9, 2025

Resta Aggiornato

La fermata periferica di De Angeli il 27 novembre a mezzanotte ha chiuso per tutti e ha aperto le porte del rap; nel microcosmo inedito della metro, dove di giorno l’urbanità si fa essenziale e la vita scorre a ritmo forzato, il macrocosmo raccontato in Funny Games ha trovato la sua collocazione più esuberante e incontenibile.

Dopo tre anni Noyz Narcos torna e impregna le pareti dell’underground con altra underground perché a quanto pare sì, sottoterra la realtà viene a galla meglio. Lì, tra il rosso liquido del neon, e muri già saturi di parole che trasudano vite senza vie preferenziali, Il mio amico è un’omelia profana per persone che non credono più a nulla: una dimensione in cui i gesti non sono scelte, ma reazioni a un contesto che detta tempi, funzioni e ruoli.

È su questa stessa lunghezza d’onda che Funny Games di Haneke si inserisce come controparte cinematografica; mettere in relazione questi due mondi significa cogliere una convergenza profonda: la violenza non come eccezione, ma come claustrofobica infrastruttura, che non esplode mai ma circola; una presenza integrata nel quotidiano, come il rumore metallico dei treni o l’odore di umidità stantio delle banchine.

E la dove l’urbanità si fa essenziale, sottoterra, le maschere cadono.

Ed è lì, nel sottosuolo buio, che le connessioni diventano chiarissime.

«Il mio amico è nella trappola, non posso biasimarlo»

Noyz Narcos

Un’immagine che non ha nulla di retorico; una constatazione secca, quasi amministrativa, quella che introduce un mondo in cui la scelta è un lusso inesistente.

L’“amico” non è colpevole: è catturato. E in questa cattura risuona la stessa logica che regola il teatro della violenza in Funny Games.

Nel film, la famiglia borghese è rinchiusa in un ambiente domestico che perde ogni funzione protettiva e si trasforma in un palco claustrofobico. Gli aggressori non sono solo carnefici: sono officianti di un rituale che procede secondo regole impenetrabili, un gioco già scritto in cui le vittime sono chiamate a recitare un ruolo senza averlo scelto. Non c’è libero arbitrio, solo adesione forzata al dispositivo del film stesso.

Sembrerebbe quella di Althusser l’unica lente possibile per comprendere a fondo l’idea di interpellazione che vi è alla base — quel processo per cui l’individuo viene chiamato dal sistema e riconosce, suo malgrado, la sua posizione. “L’amico” di Noyz è interpellato dall’economia illegale, dal quartiere, dal bisogno; la famiglia di Haneke è interpellata dal meccanismo narrativo che li trasforma in vittime designate. Entrambi sono afferrati da strutture che funzionano come macchine: impersonali, rigide, indifferenti all’etica individuale.

Frame tratto da Funny Games di Micheal Haneke, tra Funny Games Kid Yugi e Noyz Narcos

Il risultato è una condizione esistenziale che annulla la responsabilità morale in favore della costrizione sistemica.      
Non assistiamo alla “devianza” di un singolo né alla crudeltà irrazionale di due aguzzini: assistiamo alla messa in scena della trappola sociale, una rete di forze più grande dei personaggi stessi.

In questo, la canzone e il film si sfiorano come due specchi che riflettono la stessa fatalità: l’idea che, in certe periferie urbane come in certe narrazioni cinematografiche, la libertà non sia un punto di partenza, ma un mito impossibile.

In entrambi i casi, la violenza non esplode: si manifesta come struttura. E il soggetto — sia egli pusher o padre di famiglia — diventa l’attore inerme di un copione che non solo non ha scritto, ma che non può neanche riscrivere.

«Casa nuova è molto poco accogliente / c’è solamente una poltrona e un tavolo pe’ vende»

Noyz Narcos

Nell’algidità dell’immagine scarna, quasi fotografica, lo spazio smette di essere domestico e diventa un contenitore funzionale, un ambiente progettato non per vivere, ma per operare. È una stanza che respira insieme alle logiche dello scambio, non insieme al corpo che la abita. Una casa senza “casa”, ridotta al grado zero dell’essere.

È proprio qui che l’eco con Funny Games si fa più nitida. La casa della famiglia borghese, impeccabile e ordinata, è un altro vuoto travestito da ampollosità. Haneke la trasforma lentamente in una scenografia ostile, un perimetro immobile che registra la violenza con indifferenza quasi clinica. Non è rifugio, non è intimità: è un palco chiuso, un recinto in cui i personaggi vengono disposti come pedine. Anche qui lo spazio è sacrificato alla funzione: ospitare il gioco, contenere l’esperimento.

Scena tratta dal film Funny Games tra Funny Games Kid Yugi e Noyz Narcos

A collegare questi due ambienti è l’intuizione heideggeriana dell’essere-nel-mondo. Per Heidegger, l’abitare autentico richiede un mondo che accolga, che offra possibilità. Qui accade l’opposto: sia il monolocale dello spacciatore che la villa borghese di Haneke diventano spazi inautentici, luoghi in cui l’esistenza non si apre ma si restringe.

L’individuo non abita: è collocato, inserito in un’architettura che decide per lui e delimita il suo margine d’azione.

In questo senso, la povertà dell’arredo e la perfezione glaciale della casa del film sono due facce della stessa negazione. Non conta lo stile; conta la funzione di contenimento. Questi ambienti non sono pensati per proteggere o nutrire: sono dispositivi che registrano il degrado, che incanalano la violenza, che definiscono i personaggi attraverso ciò che sottraggono.

Nel monolocale di Noyz come nella casa di Haneke, lo spazio non è innocente. È una sentenza.
E i personaggi che lo attraversano non sono protagonisti, ma ospiti temporanei di un mondo che non concede loro alcun diritto di cittadinanza.

«La droga è il suo indotto / picchia i ricchi come A Orange Clockwork»

Kid yugi

Quando Kid scandisce Picchia i ricchi come A Orange Clockwork, non lo fa per provocazione sterile: sta evocando un immaginario preciso: quello in cui la violenza diventa un linguaggio diretto, primitivo, quasi rituale. È la stessa grammatica che governa Funny Games, dove due giovani apparentemente impeccabili infliggono una crudeltà chirurgica a una famiglia borghese, senza movente né rancore. Non è vendetta sociale: è un’operazione geometrica.

In entrambi i casi la violenza non sale dal basso né scende dall’alto: circola. È un vettore che attraversa i personaggi senza chiedere permesso, che non appartiene a qualcuno, fa parte della struttura, come un flusso elettrico nelle pareti del sistema. L’amico di Yugi colpisce i ricchi non per sovvertire l’ordine, ma per adempiere all’ordine già costituito: una rete urbana dove ogni corpo è potenzialmente bersaglio e ogni gesto è una negoziazione tra potere e sopravvivenza.

È l’incarnazione dell’archetipo hobbesiano, di uno stato di natura dove la guerra è latente, anche quando sembra tutto quieto. Lo stato di natura non è preistorico: è accessibile, riemerge ogni volta che le istituzioni non filtrano più la tensione sociale.

La Milano sotterranea di Noyz e la villa borghese di Haneke sono esattamente questo: micro-territori dove la legge formale non entra più, dove il conflitto torna alla sua forma essenziale, spogliato di ideologia.

Sia Yugi che Haneke sembrano dirci che la violenza contemporanea non nasce dal conflitto tra classi, ma dalla frattura tra individui costretti a muoversi in spazi che li isolano e li esasperano. Il pusher che usa la forza per garantirsi un margine di sopravvivenza e i due ragazzi che torturano una famiglia per annullare l’illusione dell’ordine borghese sono manifestazioni complementari dello stesso dispositivo.

La brutalità diventa allora livellamento: l’ultraviolenza non punisce, non redime, non risolve: rende chiaro ciò che sta sotto. E rivela che, quando i contesti falliscono, l’essere umano torna a muoversi nella zona grigia dove la morale non opera più, e dove vige l’unica forma possibile di razionalità: la morte per la vita; in altre parole, la sopravvivenza.

Scena tratta dal film Funny Games tra Noyz Narcos, Kid Yugi e Funny Games

«A tredic’anni vendeva la nera; non faceva i compiti»

Kid Yugi

L’immagine di Kid è brutale, quasi disarmante e così spudorata da racchiudere una verità ingombrante: ci sono vite che non entrano mai nella dimensione della scelta. Per chi “a tredic’anni vende la nera”, il futuro è un orizzonte? No, è un tracciato già inciso sotto i piedi. È la logica del quartiere, della famiglia, dell’economia informale; è quella che Pierre Bourdieu chiamerebbe habitus, cioè l’insieme invisibile di strutture sociali che modellano il possibile e chiudono l’impossibile prima ancora che il soggetto possa immaginarlo.

Questa stessa forza deterministica attraversa parimenti Funny Games. La famiglia protagonista non è minacciata da un evento imprevedibile, ma da una forma di fatalità che Haneke orchestra con precisione chirurgica. Ogni tentativo di fuga è annientato, ogni deviazione riportata alla linea principale.

Scena tratta dal film Funny Games tra Funny Games Kid Yugi e Noyz Narcos

Il parallelismo è sorprendente: la villa borghese del film e il quartiere popolare del brano sono mondi diversi solo in apparenza. Entrambi funzionano come scenografie deterministiche, come macchine che restringono il campo d’azione dei loro abitanti fino a trasformarli in personaggi di un copione già definito. In Haneke, l’ineluttabilità distrugge la convenzione del thriller; in Noyz, l’ineluttabilità concede alla criminalità di determinarsi come scelta non individuale.

Scena tratta dal film Funny Games tra Funny Games Kid Yugi e Noyz Narcos

Ciò che emerge, tanto nella traccia di Noyz quanto nel film di Haneke, è che il soggetto non è più il centro dell’azione, ma il luogo in cui l’azione accade.          
Non orchestra il proprio destino: ne registra l’impatto.       
Non dirige la scena: ne è il punto di pressione.

L’“amico” “c’ha tutto” non perché domina un mondo, ma perché possiede un intero fardello che non ha scelto e c’ha tutti addosso” perché ne abita le conseguenze. Allo stesso modo, la famiglia di Funny Games sperimenta che la propria vita non è un progetto, ma un terreno su cui il dispositivo narrativo esercita la sua forza, come un campo magnetico che dispone gli eventi prima ancora che essi si manifestino.

Haneke e Noyz tolgono il velo a questa ambivalenza, mostrando come la libertà non sia un dato: è una negoziazione continua con ciò che ci precede e ci determina.

In questo senso, essere “testimoni della propria storia” non è un atto passivo: vuol dire abitare la zona intermedia in cui l’esperienza è reale ma il controllo è illusorio.

È comprendere che la libertà, se esiste, è minuscola, intermittente, conquistabile solo nei varchi.

Ed è lì, in quei varchi, in quella frizione tra individuo e struttura, che il rap di Noyz e Kid coagula nel cinema di Haneke: nella consapevolezza che forse, in questo scambio di arbitrarietà e interpellazione, la storia che interpretiamo non racconterà mai del tutto la storia che ci attraversa.

Leggi anche: Funny Games – A che gioco stai giocando?

Autore

Share This