Funny Games – A che gioco stai giocando?

Caterina Cingolani

Marzo 18, 2023

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Spietato, asettico e perturbante, Funny Games (1997) è forse l’opera più concettuale e claustrofobica del regista austriaco Michael Haneke, una dichiarazione di guerra a quel cinema colpevole di impedire la riflessione, di viziare il pubblico nella disperata ricerca di apprezzamenti.

Durante la 50ª edizione del Festival di Cannes circa i due terzi di questo abbandonò la sala: il peso della vicenda era insostenibile, il ritmo esageratamente lento e le atmosfere troppo crude. Lo spettatore vorrebbe deresponsabilizzarsi, evacuare lo sguardo e rinnegare i propri istinti, ma non si accorge che così facendo, ne diventa, in fin dei conti, complice.

«Quando noi vediamo, la nostra mente entra in rapporto con gli eventi del mondo esterno per mezzo degli occhi e del sistema nervoso. Nel processo della visione, mente, occhi e sistema nervoso sono strettamente associati in un tutto unico. Influenzando uno di questi elementi, si influenzano tutti gli altri»

(Aldous Huxley, L’arte di vedere)

Funny Games - A che gioco stai giocando?
Il nemico entra in casa

Funny Games?

Il film inizia con un gioco, nella quale Anna (Susanne Lothar), Georg (Ulrich Mühe) e il piccolo Schorschi (Stefan Clapzynski) cercano di indovinare chi sia il compositore delle opere classiche che ascoltiamo. Un valzer immobile e straniante costruito prima sulla matericità del silenzio, poi sul fracasso del jazz-metal di John Zorn e i Naked City.

Il brano musicale, Bonehead, irrompe senza preavviso sullo schermo, smontando l’atmosfera di quiete creata nei primi minuti dell’opera. La scelta musicale diventa, così, il segno di un’aggressiva dichiarazione autoriale che si espande nella trasversalità della meta-diegesi (anche) sonora.

I membri della famiglia raggiungono la casa sul lago, dove intendono trascorrere le vacanze estive. Felici e ignari della loro sorte, salutano i vicini, Fred e Gerda, i quali sono accompagnati da due giovani dalle buone maniere, entrambi vestiti con delle polo, degli shorts e dei guanti bianchi.

Sono il furbo e loquace Paul (Arno Frisch) e il bambinone sottomesso Peter (Frank Giering), due educati serial killer, i quali si approfittano di una banale richiesta per irrompere in casa, diventando man mano sempre più molesti e invadenti.

Peter e Paul propongono alla famiglia di partecipare ad una scommessa, come quelle televisive, i cui termini sono quelli di vita o di morte nelle successive 12 ore. Essi si avvalgono di una serie di giochetti mortali, sfide infantili e a-logiche ma estremamente serie volte ad intrattenere il pubblico e, insieme, lasciarlo nudo di fronte a se stesso.

Le regole del gioco

Il perturbante è ciò che Freud definisce come «quell’emozione risultante dalla trasformazione impercettibile di ciò che è familiare in qualcosa di sinistro». Questa condizione nel cinema di Haneke è un basso continuo che attraversa tutte le sue opere e trova la sua compiutezza nei luoghi, negli spazi e nei microcosmi descritti nei suoi film.

L’autore rifiuta dichiaratamente l’uso consumistico o feticista della violenza nel cinema: Funny Games si pone nell’ottica di una contestazione diretta ed emancipata nei confronti dell’industria dell’intrattenimento, ridotta ormai ad un mero divertissement figlio di un consumo smodato, casuale e ossessivo di immagini cruente.

«Si giunge alla violenza in primo luogo quando non c’è altra via di scampo, e secondariamente quando già una volta l’uso della violenza ha avuto successo. Questo modello teorico fa dell’uomo un oggetto di manipolazione illimitata. L’individuo diventa il burattino delle circostanze, cui vengono in tal modo attribuite un’enorme importanza e la responsabilità di tutto».

(Rüdiger Dahlke, Aggressione come scelta)

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Un piano-sequenza di più di un minuto, per permettere ai nostri occhi di decifrare la violenza insita in esso.

Haneke non vuole confrontarsi con un discorso estetico e plastico della rappresentazione della violenza, ma la racconta semplicemente per quello che è: un istinto primordiale che, provocatoriamente, assume con malcelato sadismo un aspetto ludico e/o metaforico.

Si tratta piuttosto di applicare agli effetti psicologici ed emotivi della violenza del dato visivo e uditivo, quel processo di introspezione retorica, morale e politica, in cui il medium cinematografico diviene opaco e mostra la sua consistenza. L’autore circumnaviga l’atto, alimentando l’immaginazione.

È il gioco dell’onnipotenza registica, in grado di cambiare a proprio piacimento le regole della partita, di farci sentire ora questa, ora quella emozione (in questo caso l’impotenza, la frustrazione, l’orrore, la rabbia); o di negare a priori una via di fuga allo sguardo (la fissità delle inquadrature, l’infrangimento delle leggi della prossemica, le scelte di messa in scena, la dilatazione temporale data dal montaggio, l’assenza di tappeto sonoro…).

Funny Games: è solo un film

Haneke annulla le distanze tra soggetto e oggetto del discorso, palesando continuamente la finzione: Paul, compiaciuto delle sue azioni, criminalizza il nostro atto visivo, ammiccando più volte allo spettatore. Non c’è nessuno dietro di lui: Paul cerca intesa nello spettatore sulla base di una perversa ironia, volta a divertire chi guarda.

Il regista mescola magistralmente ambo i regimi, lavorando contemporaneamente su due dimensioni: quella diegetica del racconto e quella meta-testuale della regia. Ne risulta una tensione costante tra l’assorbimento filmico e il perturbante stato di coscienza della natura fittizia del film come artefatto.

Nel finale, poco prima di uccidere Anne, gettandola in mare come un sacco di rifiuti umani, Paul e Peter intrattengono la conversazione che racchiude in sé tutto il significato del film. Peter analizza un film di fantascienza e racconta di come il protagonista sia intrappolato in un mondo fittizio, che lui stesso ha reso concreto grazie al potere della sua immaginazione.

Paul: «Ma la finzione è la realtà, non è vero?»

Peter: «In che modo?»

Paul: «Bene, lo vedi nei film, giusto?

Peter: «Certamente.»

Paul: «Quindi, è reale così come la realtà, che osservi nello stesso modo, no?».

Lo spettatore, da semplice voyeur, si accorge di essere non solo osservato ma anche giudicato, a un livello superiore, dall’occhio-cinema. Haneke ci costringe a prendere una posizione, a considerare la finzione come elemento della realtà, il falso come momento del vero. Siamo vittime, siamo carnefici o complici; poco importa.

Stammi lontano

Avvertiamo sin da subito la presenza di un sottile substrato di malessere e disagio quando Peter, chiedendo educatamente le uova a Anna: egli si avvicina in maniera ambigua alla donna e rimane fisso ad osservarla.

Haneke, attraverso specifiche scelte di messa in scena, infrange le leggi della prossemica muovendo i due intrusi entro il cerchio della distanza intima (0-45cm), creando così un senso di disagio e impotenza tanto nel personaggio, quanto nello spettatore.

Si tratta di una vera e propria violazione dello spazio intimo, della privacy del singolo: la difesa assume i tratti di un riflesso incondizionato, inteso come una reazione spontanea (istinto di sopravvivenza) che lega l’uomo alla sua indissolubile natura animale.
Funny Games - A che gioco stai giocando?
I killer sbeffeggiano Georg che non sa difendersi: vorremmo farlo noi spettatori, ma la distanza fisica e metaforica non ce lo permette.

La regia, caratterizzata da un uso espressivo del fuoricampo, visivo e sonoro, si fa via via più formalizzata e statica, grazie a lente e ponderate panoramiche, a strazianti campi lunghi (i quali eliminano la presenza del corpo umano all’interno del nucleo domestico), poi alternati a vividi primi piani dei visi tumefatti della famiglia.

Da situazioni iniziali di calma apparente, attraverso rarefatti movimenti di macchina e progressivi spostamenti della tensione, il regista guida lo spettatore in esperienze da incubo che man mano assumono forme sempre più crudeli e asettiche. Non ci resta che lavorare per mezzo di una soggettiva e limitata ricostruzione mentale, frutto di un’immagine mancante, di una Visione Negata.
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Mentre il sonoro racconta la morte del piccolo Schorschi, l’immagine rimane su Paul che, con nonchalance, si prepara un panino in cucina.

Le radici della violenza di Funny Games

Le potenzialità creatrici e distruttive di Paul e Peter derivano dalla consapevolezza dei due killer di appartenere alla diegesi del film. Questi, come due deus ex machina vestiti di bianco, senza passato né futuro, guidano la partitura del testo: essi sono autori, sceneggiatori e interpreti della parte che loro stessi hanno scritturato, arrivando persino a comparare il loro operato a quello delle trame di altri film, citati durante tutto il corso dell’opera.

Sembra quasi che siano loro a dire agli attori (la famiglia) come posizionarsi in scena quando, con piedi e mani legati, supplicano per la loro vita; a dirigere la macchina da presa verso il campo da inquadrare; a creare il significato delle parole all’interno delle battute ma, soprattutto, a decidere che piega far prendere alla narrazione.

Paul delibera che la tortura non è terminata e, soprattutto, che il film non è ancora arrivato alla canonica ora e mezza di durata.

L’unico momento in cui la violenza diviene graficamente esplicita, coincide con il massimo grado di autorità raggiunto dai due killer-demiurghi: Anne riesce ad afferrare il fucile e sparare a Peter, il quale stramazza a terra.

Dopo aver soddisfatto le aspettative dello spettatore e averci fornito un barlume di speranza sul destino della famiglia, Haneke “ordina” a Paul di cercare disperatamente il telecomando, il vero scettro del potere. Il trucco è svelato e l’opera di disarticolazione dell’ingranaggio-cinema può dispiegarsi: Paul riavvolge il nastro perché non è così che doveva andare la storia.

L’assurdo entra inaspettatamente nella pellicola attraverso il rewind e svela il meccanismo di fruizione della violenza, mettendo a nudo una naturale “propensione” al male e al sadismo voyeuristico del pubblico.

Perché non ci uccidi e basta?

I killer forniscono alla famiglia fantasiosi moventi per cui compiono tali azioni: Paul inventa storie sull’infanzia e sulla famiglia di Peter, insistendo sulla presunta componente di depravazione sessuale, sull’abuso subito dai genitori, sulla dipendenza da droga fino al torpore di un’esistenza semplicemente vuota. Peter nega e ridacchia.

Si tratta solo di un modo di farcire la famiglia di motivazioni stereotipate e lontanamente possibili, per giustificare le torture e pensarli come entità concretamente colpevoli. Ma che cosa rappresentano davvero? Sono archetipi della violenza o prodotti della stessa?

Peter e Paul sono il “nemico” che abita dentro ogni essere umano. Il lato oscuro che si materializza nel doppio e che compie il male per il Male. Essi non sono né liberi né schiavi, ma innervano in loro tutto il comportamento dell’uomo contemporaneo, esprimendo l’ambiguità del potere in senso lato e assoluto. Esseri senzienti e astuti ridotti a pure funzioni narrative.

Funny Games: tutto è bene quel che finisce bene

La parabola narrativa di quello che poteva sembrare un classico Thriller/Horror home invasion, viene destrutturata e privata di ogni fondamento logico o razionale, trascendendo gli stilemi imposti dal genere.

Funny Games assume i tratti di un macabro, spesso ironico, reality show interattivo, dilatato nel tempo ma non nello spazio (a tutti gli effetti un kammerspiel della violenza psicofisica), in cui i “buoni” non si salvano e i “cattivi” se la passano liscia; una democrazia verticalizzata, in quanto autoimposta da un’autorità (i due killer) che non permette di empatizzare con nessuna delle due fazioni.

Funny Games - A che gioco stai giocando?
L’immagine si blocca su una still Paul che, per l’ultima volta, guarda dritto in macchina

Il gioco è destinato a ripetersi in maniera ciclica: come due entità intrappolate nel determinismo della loro storia, i personaggi di Paul e Peter devono reiterare la violenza per poter sopravvivere. Nel finale c’è qualcosa di diverso: Paul irrompe in casa di un’altra famiglia ma la sua attenzione verte su un fronte differente, quello dell’intera umanità.

«Sei proprio sicuro che il mostro non sia uno come te?», sembra chiederci Paul. «O forse sei proprio tu», aggiungerebbe Haneke.

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