Era già tutto previsto. Risuona familiare questa frase, un po’ maledetta, come tutte le poesie. Ti rimane addosso Parthenope, a te che per una vita ti sei nutrito di frasi e incanti. A te, di una generazione che scopre La Grande Bellezza prima de La Dolce Vita.

Ma, senza pretendere di affermare una verità, né cercarla in via definitiva, rimanendo proprio nel territorio che Sorrentino ci propone, che svela ma non dice, che sussurra ma non affonda, si ha qui voglia di farsi delle domande su questo film.
La Lingua e L’Immagine
L’Italiano è una lingua essenzialmente retorica, che si nutre di metafore. Le parole in Italiano, a differenza di altri idiomi, non asseriscono intrinsecamente a significati. Se io dicessi Verità in Greco Antico, direi Alètheia, un parola che al suo interno contiene il suo possibile significato. Alètheia, infatti, viene da λανθάνω che significa sono nascosto (il mitologico fiume Lete, ἡ Λήθη, di cui parla per esempio Platone nel X libro de La Repubblica, è il fiume dell’oblio) e un α privativo: ἀλήθεια, la verità, è lo stato del non essere nascosto. Verità in greco antico dunque è una parola composta da due elementi etimologici che ne definiscono il significato. Poi, la speculazione filosofica è infinita, ma è la parola stessa a proporla.
In Italiano invece, le parole hanno bisogno di definizioni che le diano un significato. Di altre parole che le spieghino. Parole che a loro volta andrebbero poi spiegate.
Questo vuoto semantico della parola stessa, permette alla nostra lingua di strutturarsi nella creazione di contesti di significato: le parole sono a servizio della frase, della sintassi e soprattuto alla figura retorica. Nella lingua comune spessissimo usiamo figure retoriche, ci vengono insegnate come presupposto stesso della scrittura. Anche nella tradizione orale viviamo di detti, di aforismi retorici anche nei dialetti stessi.

In Italiano, possiamo giocare con le parole e ribaltarle costantemente. Possiamo dire che “La verità è oscura come le ultime leghe del mare” o al contrario che “La verità è la luce dei tuoi occhi dopo che tutto è stato buio”. Ma questo gioco vive della sua stessa retorica, non stiamo davvero definendo, ci stiamo muovendo nell’illusione di dire qualcosa senza mai davvero dirla, solo evocando affascinanti possibili scenari, che rimangono essenzialmente retorici. Ci toccano, ci affascinano perché assumono una possibile verità più profonda ma non la definiscono, la svelano, la sussurrano, ma rimane fumosa.
Paolo Sorrentino è un maestro in questo. La sua scrittura tocca vette di creazione retorica assolute. E Parthenope ne è costellato, si fonda sulle frasi più che sulla storia. Non c’è verità da definire, neppure a livello narrativo in questo film. E questo il film stesso lo sa bene, ce lo dice anche più volte. Parthenope stessa è figura a metà tra la creazione retorica e la persona umana.

Parthenope funge volutamente da ibrido cinematografico: lei è contemporaneamente dichiarato come il personaggio mitico di una storia, è un eponimo, ovvero il personaggio che dà il nome alla città e allo stesso tempo una ragazza di un certo tempo storico, che vive realmente nella storia del film. Lei è quindi metafora stessa, persona, donna e figura retorica di un film.
E lo stesso vale per film: un viaggio attraverso frasi e personaggi che aprono a luoghi e tempi della vita, proponendo sguardi attraverso cui spiare ma rimanendo intrappolati nel fascino delle frasi e dei personaggi stessi. Napoli diventa poema dove ogni capitolo è un luogo metaforico, dalla giovinezza, all’Antropologia, passando ovviamente per il mistero della fede, profondo e perverso.

Ma, se è vero che la nostra lingua può svelare ma rimane illusoria nel dire cose sulla vita, sospensiva nelle fessure che apre, è anche vero che questa consapevolezza può trascendere se stessa.
Per spiegarsi: il grande problema di Parthenope è che si rivela un circolo vizioso della sua stessa retorica. Tutto è già deciso nel film, tutto è già una frase, tutte le frasi e tutti i personaggi sono auto-conclusivi.
Lo sviluppo narrativo è fittizio, è come se Sorrentino creasse luoghi dove mettere le sue frasi e suoi personaggi ma senza nessun percorso di scoperta narrativo o poetico.
Non c’è reale scoperta in Parthenope, tutto appare già scoperto.
In Parthenope, le parole non arrivano perché le cose accadono, bensì le cose accadono affinché le parole arrivino.
E come se, in sintesi, Sorrentino dica tutto ciò che ha già detto o pensato. Nulla di nuovo. Ma soprattutto, è come se il suo film dica tutto come già assodato e deciso, senza scoperta, senza mistero, senza sviluppo reale. Tutto è già figura retorica, non lo diventa nel film. Il film, piuttosto, si costruisce nella somma delle sue figure retoriche. E come se il film venisse dopo, come accumulo di personaggi e frasi.

Se Mastroianni ne La Dolce Vita finiva a non poter neppure più ascoltare parole sincere, perché troppo intrappolato nelle illusioni; se Jep Garbardella scopriva il trucco della vita nel ripercorrersi e ripercorrerla, Parthenope è essa stessa il trucco, il film stesso è il trucco.
E qui, l’immagine.
Le immagini di Parthenope sono meravigliose, belle nel senso più puro della bellezza: cioè fini a se stesse. La bellezza è fine a se stessa, non ha altri scopi al di fuori della bellezza stessa. La bellezza non serve a trovare la verità: la verità della bellezza è la bellezza stessa.

Anche in questo, Parthenope è perfetto ibrido: lei è donna, persona, ma anche metafora della bellezza stessa, e Sorrentino la ritrae costantemente come tale. La Bellezza di Parthenope dialoga con le cose della vita svuotandole e perdendole. Questa potenza è pura, perché non si perde nell’infinita nebbia della ricerca di un senso finale, si risolve nel suo istante bello. E Parthenope è fatta di incanti, di immagini bellissime che non hanno altro scopo se non intrappolarci proprio nel loro paradosso: c’è altro oltre quella bellezza?
No. Al di fuori, c’è solo il tempo e il dolore. O forse non è così? Questa è la domanda più bella del film, posta dal Cardinale Tesorone.
Perché, forse, questa domanda è posta al film stesso. Per Sorrentino, c’è ancora altro oltre la sua geniale capacità di giocare con le meravigliose illusioni della nostra lingua e con la bellezza fine a se stessa?

Parthenope, forse, è il fallimento stesso del cinema sorrentiniano nel poter essere qualcos’altro oltre la sua sublimazione fine a se stessa? O è proprio il suo compimento?
Fellini con Otto e Mezzo creava un capolavoro di ricerca sul poter stare al mondo di un artista, che alla fine inneggiava alla festosità, caotica, confusa e pura della vita.
Sorrentino con Parthenope ci mostra la trappola del creare un mondo di cui si è padroni e prigionieri, dove non c’è scoperta della vita o domanda che davvero destabilizzi, perché tutto è già deciso, rarefatto, tra bellezza e segreti sussurati per rimanere lì, perché al di fuori di ciò non resta niente.
Parthenope è la pagina bianca di Mallarmé riempita con tutte le poesie già scritte, senza nessuna parola nuova, senza nessuna immagine sbagliata come la vita.
D’altronde, era già tutto previsto.
O forse non è così?




