Kynodontas – Adolescenza tra logos e tradimento

Martina D'Antonio

Novembre 16, 2021

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L’opera terza che ha donato fama al regista Lanthimos, soprattutto a seguito della sua più recente distribuzione in Italia, racconta la storia di una famiglia in cui padre e madre, in un distopico e subdolo gioco di possesso, negazione e tradimento, tessono la trama di una fittizia narrazione ai danni dei tre figli, relegati a vivere tra le mura di casa e del recintato giardino.

È possibile rintracciare dai ricchissimi spunti di Kynodontas due elementi necessari per il processo di individualizzazione adolescenziale, quali il tradimento e il linguaggio, intimamente interconnessi. Tale lettura è solo una delle innumerevoli chiavi per indagare questa magistrale ed eclettica opera che ci appare ancora così futuristica a dodici anni dalla sua uscita.

Si svela così un potente messaggio sulla morale del processo adolescenziale che l’essere umano è tenuto ad affrontare. Un viaggio non privo di intemperie, tra le prime grandi prove della vita che deve affrontare.

Ambientazione interna ed esterna

Il padre (Christos Stergioglou) fuori al posto di lavoro

È interessante incastonare fin da subito questo gioiello nella sua cornice storico-economica. Si nota infatti, fin dalle prime scene, un abnorme divario tra il dentro e fuori, tra ambientazione interna e esterna. Tra una casa opulenta, che ci parla di ricchezza, di abbondanza, soprattutto attraverso l’immagine di un rigoglioso giardino verde, e di contro, un paesaggio esterno estremamente spoglio, rurale, in cui vediamo il padre raggiungere e lasciare il posto di lavoro.

Un puntuale dualismo che illustra il paradosso tra una vita opulenta e apparentemente ovattata e il disagio che cela invece un vuoto, una mancanza entro l’esistenza. Questo contrasto acquisisce ancora più connotazioni storiche se si pensa che il film vide la luce in una tristemente nota Grecia del 2009, anno dell’inizio della crisi economica nazionale.

Inevitabile è quindi la suggestione al giardino dell’Eden, giardino che contiene e che vede scorrere la vita dei tre figli. Eden in cui tutto è perfezione ed equilibrio, e la vita scorre nella sua armonia, in parte priva di smacchi. Il giardino che offre loro una quietudine apparente è, per ovvie ragioni, molto lontano dal proporre uno stato delle cose imperturbabile.

Così come Dio prova a tenere Adamo ed Eva in un eterno stato di grazia, allo sesso modo i genitori fino a un certo momento avvolgono il figlio in una coperta di cashmere, volta ad attutire i primi colpi della vita. Ma i genitori di questa storia continuano nel tentativo di proporre ai figli, anzi imporre, un paradiso terrestre controllato. Un’assoluta privazione dalle turbolenze dell’esistenza, che non lascia spazio a nessun tipo di ordine naturale.

Ciò che viene mostrato della natura, in senso stretto, è il verde e rigoglioso giardino. Scenario naturale di ciò che è invece, nel suo paradosso, inscenato.

Il significato del canino

La “maggiore” (Angeliki Papoulia) allo specchio dopo essersi cavata di bocca il canino

A essere fortemente evocativo è ciò che precede il primissimo fotogramma, ed è il titolo “canino”. Il canino e il cane sono infatti l’immagine speculare che ritorna lungo tutto la narrazione. L’immaginario sul cane, che rappresenta la possibilità di forgiare e di assoggettare l’altro a noi, viene puntualmente tradotto sia nella scena in cui sono i membri stessi della famiglia ad assumere un comportamento da cani, ringhiando a quattro zampe, ma soprattutto nel dialogo tra il padre e l’addestratore di cani presso cui si reca.

Addestratore: «Un cane è come la creta, il nostro lavoro qui è di dargli forma: un cane può essere dinamico, aggressivo, un lottatore, codardo o affettuoso. Richiede lavoro, pazienza e attenzione da parte nostra. Ogni cane, anche il suo, aspetta che noi gli insegniamo come comportarsi».

Il canino è invece l’avvenimento che è necessario accada per uscire dalla casa. Rappresenta la narrativa del padre ai figli, è l’incarnazione del modo imperativo. La funzione normativa paterna. La simbologia legata al canino è ampia e apre a una serie di suggestioni: una di queste rimanda alle grandi trasformazioni, ai movimenti interni legati appunto all’adolescenza. 

Allo stesso tempo siamo provvisti di premolari, che sono situati subito dopo i canini e che corrisponderebbero invece all’Io, al luogo in cui è inscritto il desiderio individuale. Si potrebbe dunque tradurne il significato con l’io voglio, ma questi ragazzi, sprovvisti metaforicamente dei premolari dell’identità, non possono volere. Il dogma del paterno li vincola: il canino non cade.

Il linguaggio

La figlia maggiore (Angeliki Papoulia) nel giardino bendata

Non a caso, i denti sono squisitamente connessi a un altro fortissimo elemento di questa opera, che è quello del linguaggio. Un linguaggio che viene sradicato e ricomposto, offerto, anzi imposto come bolo ai figli, privato perciò dei principi di autenticità e universalità.

Un micro neologismo familiare dunque, che trincera ogni certezza e fondamento, così come ogni possibilità di dubbio e di scoperta. Gli aerei che vedono volare sopra di loro sanno essere uccelli; l’autostrada un vento molto forte; il mare una poltrona in pelle e una gita un materiale per pavimenti.

Attraverso questo ostaggio linguistico sono condotti a una cecità linguistica che si traduce nell’impossibilità di creare una propria inedita narrazione, e che si cristallizza per lo spettatore in una scena in cui la maggiore nuota bendata in piscina.

I figli, inoltre, sono sprovvisti di nomi, e vengono distinti tra loro con gli appellativi di “la maggiore, il minore”. Il linguaggio, che attribuisce sia significati convenzionali che universali, è al contempo però un’apertura a nuovi significati. Il linguaggio inteso come narrazione che attribuisce senso e che in qualche modo lo trasporta, crea la realtà e al contempo la tramanda.

In questo caso è come se i genitori negassero ai figli quella matrice intersoggettivamente creata e comune a tutti gli esseri umani, un’eredità sociale. E allo stesso tempo negano loro la scoperta e l’attribuzione soggettiva di significati creativi e del tutto inediti. Il linguaggio che veicola questa possibilità di contattare l’altro, di entrare in comunicazione, in questa famiglia è invece utilizzato al fine di tenere imbrigliati a sé i figli.

La comunicazione e la (non) possibilità del desiderio

La figlia minore (Mary Tsoni) e la guardia di sicurezza dove il padre lavora (Anna Kalaitzidou), l’unica persona esterna ammessa

La comunicazione è inespressiva, artificiosa e contribuisce alla creazione di un’atmosfera alienante, meccanica e perturbante, che aleggia per tutto il film. Come meccaniche e prive di pathos sembrano essere tutte le azioni che questa famiglia compie.

Meccanica è la masturbazione del pene da parte della donna di sicurezza, chiamata per avere rapporti sessuali con il figlio per placare i suoi istinti; come il rituale che compiono marito e moglie ogni sera prima di avere un rapporto; come superflue e vuote sembrano essere le lezioni scolastiche impartite, nozionistiche, teoriche e prive di applicabilità, e le conversazioni del tutto futili che scandiscono le loro giornate.

Tutto il film sembra dunque muoversi entro un’atmosfera priva di calore e colore, a dispetto invece di un tripudio di colori sgargianti che viene offerto dalla fotografia, ma soprattutto privo di autenticità e spontaneità. Ma senza calore, quindi senza pathos, dove risiede il proprio desiderio o la possibilità di venire cercato? Desiderio inteso come desiderio di creare, di diventare noi stessi, desiderio entro cui ci riconosciamo come individualità.

In questa famiglia, tutto ciò è impossibile. Come letteralmente inaccessibile è il mondo esterno, così sembra essere parimenti distante il loro mondo interno. Osserviamo infatti l’incapacità di dare senso alle proprie emozioni, che sono dirompenti, non pensate e perciò molto spesso agite, modalità rintracciabili in alcune scene in cui vediamo i figli compiere tra loro azioni pericolose.

Come a voler mettere alla prova la loro stessa esistenza, e sfuggire per pochi attimi da una vita anestetizzata. Anestetizzate letteralmente a vicenda sono le due sorelle, attraverso uno dei loro tentativi di intrattenersi.

Il tradimento e “la fiducia originaria”

Le due sorelle

L’immagine paterna, dunque, può essere espressa anche con il concetto di logos che incarna il codice normativo, ovvero, parafrasando lo psicologo americano James Hillman, come «l’immutabile sacralità della parola maschile». Inizia a essere ora più evidente lo stretto e indissolubile intreccio, quasi impossibile da slegare, tra l’elemento del linguaggio e quello del tradimento. Rintracciabile nella complessità insita nel fare riflessioni a partire prima dall’uno e poi d’all’altro.

I genitori attuano un tradimento ai danni dei figli nella misura in cui attentano a una verità intersoggettiva e alla possibilità di far trovare la loro verità. Se nel “normale” processo è l’adolescente a dovere attentare alla fiducia originaria attraverso il non adempimento di certe leggi e di certi patti con la trasgressione, qui tale scenario è capovolto. Sono infatti i genitori a tradire i figli con una verità del tutto alterata.

Il concetto di fiducia originaria di Hillman è prezioso per comprendere questo concetto. Per Hillman la sicurezza di cui si parla non è una sicurezza fondata sul calore della carne, del seno e del latte, ma è una sicurezza fondata e incarnata sulla parola, e a partire dalla quale è possibile ricostruire la fiducia originale, ritornare alla fiducia primaria esperita nell’Eden, cioè a quello stato di grazia dell’esperienza prenatale nel grembo. Questa però non è la sicurezza primigenia del grembo, ma la sicurezza maschile incarnata nel logos attraverso la parola e il patto.

L’ambivalenza umana tra tradimento e sicurezza

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Il figlio (Christos Passalis) intento a tenere in bocca del collutorio come punizione

Il punto fondamentale è che questa sicurezza ci parla non solo di un bisogno umano di intimità con l’altro, di riesperire quindi quella fiducia nei rapporti significativi. Ma parla anche di un bisogno circa l’essere contenuti dalla spaventosa e naturale tendenza a tradire l’altro.

Cerchiamo, dunque, nell’altro, la capacità di essere contenuti dalla nostra stessa ambivalenza. Ambivalenza che si esplica nel bisogno insieme di amare e al contempo di sfidare, di mettere alla prova la tenuta dell’altro. Come Adamo infatti sfida Dio, pur avendogli garantito un apparente stato di grazia, così l’adolescente sfida o dovrebbe sfidare i genitori.

Ma la sicurezza non può bastare a sé stessa, non può da sola favorire la vita, e se in una grande misura la garantisce, in un’altra la nega. La vita, intesa come scoperta di sé, del proprio posto nel mondo, del proprio autentico desiderio è possibile solo a partire dall’uscita dal giardino.

La fiducia originaria interiorizzata permette di lasciare posto al movimento e alla vita stessa, che è in un qualche modo un’incertezza ancorata alla sicurezza, ma che allo stesso tempo non si limita a essa. Il tradimento dunque possiede una duplice funzione in apparente contrasto: è sia la sottrazione della sicurezza sia la possibilità di permanenza della stessa.

Il tradimento come unica strada per lasciare il giardino

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La figlia maggiore (Angeliki Papoulia) in procinto di uscire dal giardino

L’unica via per lasciare il giardino è dunque, la via del tradimento. Un’uscita che mostra l’insufficienza della sicurezza, la quale non è poco importante, ma non è tutto. È nel tradimento che risiede la possibilità di uscire dal giardino, di (ri)scoprire, di compiere passi falsi, ma di potersi girare per guardare indietro. Il tradimento è reso possibile dalla garanzia, o meglio dalla sensazione di aver fatto esperienza che chi verrà tradito non verrà condannato/disintegrato dallo stesso tradimento. Questo processo si inscrive nel processo proprio dell’adolescenza.

In Kynodontas questa possibilità non è concessa, anzi è scientemente negata con ogni forza vitale. I figli sono quindi impossibilitati nel compiere quei naturali, quanto necessari, movimenti oscillatori tra passato, presente e futuro, che gli fanno questione in quanto angoscianti. Come non possono essere interiorizzate e poi trasformate le immagini genitoriali, dal rapporto genitore-bambino all’immagine del rapporto genitore-adulto, costruendo così una propria identità e potendosi affrancare dai genitori.

Nonostante ciò, la crescita e quindi il cambiamento, è una tensione, una forza motrice inscritta nell’uomo da prima della sua nascita, ed è per questo che la figlia maggiore decide di uscire dal giardino, per quanto incerta e accidentata la via sia per lei. Mettendo però così in scena l’aspetto più importante e affascinante della vita: la spinta al divenire.

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Autore

  • Martina D'Antonio

    26 anni, quasi strizzacervelli
    .
    «Il cinema è la scrittura moderna in cui la luce è inchiostro»
    Jean Cocteau

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