La notte degli Oscar. Oramai un simbolo del cinema hollywoodiano; e come tale, simboleggia tutto ciò che Hollywood rappresenta nel mondo del cinema: il lido dorato, la culla delle celebrità più eleganti e famose al mondo, l’irraggiungibile ed illusoria meta sognata da tutti i cineasti esistenti.
All’unanimità, l’industria cinematografica per eccellenza.
In una fastosa sfilata che ci accompagna annualmente da quasi un secolo, film di indubbia qualità prodotti negli Stati Uniti raccolgono la loro mercede, in quella che si potrebbe definire una vera e propria fiera della vanità. Il meglio del meglio per ogni appassionato di cinema, la cui sola presenza all’interno del Dolby Theatre di Los Angeles farebbe andare in tilt i circuiti psico-motori.
Sarebbe tuttavia sbagliato considerarla una festa del cinema se non includesse, all’interno della sua bolla di esclusiva sfarzosità, un momento di riconoscimento per le produzioni d’oltreoceano, a cui il cinema americano, storicamente, deve tantissimo. Ed ecco, dal 1957, aprirsi la possibilità di aggiudicarsi l’Oscar al miglior film straniero, una degna medaglia al merito che ha contribuito a rendere immortali i nomi dei più rivoluzionari registi europei (e non solo): il cinema italiano, in particolare, gode di una considerazione non da poco all’interno della sopracitata categoria; e non potrebbe essere altrimenti, visto com’è stato in grado di insegnare e rinnovare la concezione mondiale del fare film. Fin dalla nascita dell’ambito premio.
Tra la realtà di De Sica e il sogno di Fellini
Siamo già al tramonto del neorealismo quando, nel 1957, l’Oscar al miglior film straniero viene ufficialmente istituito. Premi speciali erano già stati eccezionalmente consegnati all’opera di Vittorio De Sica, i cui film godono di una certa notorietà anche negli anni ’60. Ma c’è un nome che affascina il pubblico americano più d’ogni altro, tanto che arriverà ad essere considerato come una delle maggiori ispirazioni della Nuova Hollywood; sto parlando, ovviamente, di Federico Fellini.
Il genio italiano raccoglie la cinepresa dalle strade del neorealismo italiano per spostarla nella sua onirica e visionaria dimensione: un’inquadratura mai ferma sul posto accompagna una narrazione del tutto innovativa, il tutto colorato (seppur in bianco e nero) dai sogni e dalla malinconia del maestro romagnolo. La strada e Le notti di Cabiria vengono immediatamente premiate, e il sorriso di Giulietta Masina è già riconosciuto in ogni ambiente cinematografico americano.
E’ la visione prettamente personale che Fellini inserisce puntualmente in ogni suo film ad affascinare fino a questo punto, quella sempre presente malinconia autobiografica che il regista non ha paura di condividere; questo l’ha reso uno dei più grandi. E sebbene La Dolce Vita non ottiene nemmeno una candidatura, ecco nel ’64 la sua opera più celebre vincere l’Oscar e prenotarsi un posto a tempo indeterminato nell’immaginario di ogni appassionato di cinema: Otto e mezzo è un successo senza precedenti.
Mai come in questo caso Marcello Mastroianni rappresenta l’alter ego del regista, che all’interno di quest’opera innovativa inserisce tantissimo del suo passato e della sua esperienza formativa. Inutile sprecare inchiostro per un capolavoro che ancora oggi viene ritenuto uno dei migliori film della storia: un viaggio, un sogno attraverso la confusione dell’esistenza umana targato Federico Fellini.
E se è vero che è proprio questa disperata condivisione ad ottenere i consensi dell’Academy, il visionario di Rimini centra nuovamente il bersaglio il decennio successivo, con Amarcord, dal titolo talmente celebre da diventare neologismo. Stavolta Fellini ci porta direttamente nei luoghi della sua infanzia, senza romanzare, senza abbellire: il risultato è un autentico affresco a colori. Doveroso sottolinearlo, l’opera del maestro italiano gli varrà l’Oscar onorario alla carriera, ritirato nel 1993.
Concluso l’omaggio al genio di Fellini, sarebbe imperdonabile non omaggiare allo stesso modo Vittorio De Sica, la cui produzione neorealista, oltre a segnare la storia del cinema, ha ispirato la rivoluzione della Nouvelle Vague francese. E sebbene il neorealismo concluda la sua epopea d’oro prima dell’istituzione dell’Oscar al miglior film straniero, il regista romano non manca di dire la sua anche negli anni a seguire: grazie al talento di Sophia Loren (insignita dell’Oscar alla miglior interpretazione femminile per La Ciociara, fatto degno di nota), spesso affiancata da Marcello Mastroianni, De Sica ci regala pellicole indimenticabili, che riflettono fedelmente la condizione della nascente società italiana.
L’anno successivo ad Otto e mezzo viene premiato Ieri, oggi e domani, film a episodi che ritrae la condizione femminile negli anni cinquanta, non senza un velo di humour tipicamente italiano. L’anno dopo ancora riceve la nomination Matrimonio all’italiana, mentre nel 1972 De Sica conquista nuovamente l’Academy con Il Giardino dei Finzi-Contini, meravigliosa trasposizione del romanzo di Giorgio Bassani (un anno dopo il trionfo di Elio Petri, nell’originale Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto).
Se è vero che molto del cinema di oggi discende da quello di De Sica, non sorprende la considerazione dell’Academy nei suoi confronti (unico nella storia, insieme allo stesso Fellini, a vincere l’Oscar al miglior film straniero per ben quattro volte), il cui genio fu in grado di spaziare dal neorealismo all’allora nascente commedia all’italiana. Quest’ultima, in particolare, rappresenta un’altra fetta discretamente importante della storia del nostro cinema; magari meno premiata, certo, ma lo stesso importante.
Dai fasti della Commedia all’Italiana alla crisi degli anni ’80
Sebbene il nome possa trarre in inganno, la commedia all’italiana non si impone come genere meramente comico volto a contrastare il precedente neorealismo o il più recente cinema d’inchiesta di Francesco Rosi. Al contrario, si tratta di un genere che non smette di indagare la realtà, di ritrarla, di illustrarla: la differenza è la pungente ironia, la satira, lo sfondo spesso drammatico che caratterizza i film di questo filone. E’ un cinema che genera sorrisi tirati, molte volte amari, per l’aspra consapevolezza che celano.
Come può un filone del tutto nostrano, intriso del nostro spirito e della nostra natura, avere successo nella tana dei cineasti americani? Semplicemente perché, ancora una volta, l’unicità degli artisti italiani finisce per catturare, rapire l’attenzione dei giganti statunitensi: Divorzio all’Italiana di Pietro Germi si impone subito come miglior sceneggiatura originale nel 1963, e accanto alle imponenti figure di Loren e Mastroianni emergono le sagome altrettanto ingombranti, tra gli altri, di Vittorio Gassman, Alberto Sordi, Ugo Tognazzi e Stefania Sandrelli. Il precursore del genere, Mario Monicelli, riceve subito due candidature per il celebre I soliti Ignoti ed il commovente La Grande Guerra. Al suo fianco, Dino Risi e Luigi Comencini contribuiscono a rendere sempre più monumentale il movimento della commedia all’italiana, firmando pellicole considerate unanimemente cult della storia del nostro cinema: dal ’69 al ’79, pur senza vincere alcuna statuetta, l’Academy ci mostra considerazione candidando La ragazza con la pistola (1969), Profumo di donna (1976), Pasqualino Settebellezze (1977) e I nuovi mostri (1979).
Si trattò di un movimento talmente coinvolgente da, di fatto, sopravvivere nei decenni: persino ai giorni nostri ne sono visibili i marchi, con alcuni registi (Paolo Virzì su tutti) considerati gli eredi della commedia all’italiana. Ma che inevitabilmente perse smalto con l’evolversi dell’arte cinematografica.
Negli anni ’80, la crescita e l’espansione del mezzo televisivo lasciò strascichi pesanti nella tradizione del cinema mondiale, che vide di fatto perdere quell’identità e quell’elemento di unicità che caratterizzava le produzioni dei diversi paesi. Su tutti, ne risentì il cinema nostrano: l’epopea della commedia, così come lo sviluppo dell’emblematico genere spaghetti western, non ebbero lo stesso successo dei decenni precedenti. Tuttavia, un nome si fece prepotentemente spazio nelle attenzioni delle critiche mondiali, raccogliendo la tradizione della commedia all’italiana e ricoprendola di un velo di personale concezione artistica: quello di Ettore Scola.
La sua è una commedia evoluta, più pensata, rielaborata; ma non per questo dai caratteri più pesanti o artificiosi. Già candidato nel 1978 per Una giornata particolare, il regista campano firma pellicole indimenticabili per tutto il decennio successivo, raggiungendo però solamente un’altra candidatura, per La famiglia nel 1988. Uno dei suoi grandi meriti, tuttavia, fu l’aver rinnovato il nostro cinema quel tanto che basta da spianare il terreno ai giovani registi che si affermeranno negli anni ’90 e 2000.
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L’affermazione dei giovani registi
Nel 1990, per l’appunto, quel gioiello di Nuovo Cinema Paradiso riporta la statuetta sulla penisola, con tutti gli elogi all’allora trentaquattrenne Giuseppe Tornatore: un commovente affresco della Sicilia del dopoguerra, condito dalla malinconia propria dei nostri cineasti, commuove e incanta l’intera Academy; un titolo imprescindibile nel grande albo del nostro cinema.
Due anni dopo, si afferma sulla scena internazionale un altro nome nuovo, che tenterà a più riprese di dare nuova linfa allo stile cinematografico italiano, riuscendoci puntualmente: Gabriele Salvatores. Il suo Mediterraneo vince l’Oscar e lancia le figure di Diego Abatantuono e Claudio Bisio, soldati italiani bloccati in un’isola greca insieme a vari commilitoni per gran parte della seconda guerra mondiale, perdendo di fatto ogni contatto con la realtà.
Con gli anni ’90 il cinema italiano sembra finalmente tornato ai livelli che merita: Tornatore assapora per un attimo la possibilità di una doppia vittoria (L’uomo delle stelle viene solo candidato nel 1996), e, nel 1999, passa alla storia il trionfo quasi travolgente di Roberto Benigni, che non solo alza la statuetta al miglior film straniero per La vita è bella, ma vince addirittura l’Oscar al miglior attore, uno dei pochissimi non americani a riuscirci; la sua è la toccante interpretazione di un papà ebreo che trasforma un campo di concentramento in un campo giochi, riuscendo così a mascherare gli orrori della guerra di fronte al figlio piccolo; gli varrà consensi da tutto il mondo.
Sull’onda dei fortunati anni ’90, il nuovo millennio sembra promettere nuovi e memorabili successi. Ma se è vero che i giovani registi (Crialese e Garrone su tutti), contribuiscono a cambiare in positivo il cinema all’interno dei confini italiani, l’Academy sembra dimenticarsi di noi, regalandoci una sola candidatura (per La bestia nel cuore di Cristina Comencini, mentre Paolo Virzì sfiora solamente l’entrata in cinquina per La prima cosa bella).
Fino al 2013, anno in cui un silenzioso Paolo Sorrentino, quasi dal nulla, decide di regalarci La Grande Bellezza. E’ un successo globale. Oltre a richiamare alla memoria i lavori di Federico Fellini, Sorrentino condisce il film con una malinconia, una profondità, una disillusione intrinseca che fa innamorare gli americani, ritrovatisi ad ammirare la pellicola come si può ammirare una quadro, un’opera architettonica, una scultura; come si ammira Roma, nella sua disincantata immobilità, nella gloria del suo passato, e nella sua travolgente bellezza. La cerimonia è una formalità, l’Oscar è già nelle mani del regista napoletano.
Innegabile, dopo un periodo negativo il nostro cinema sembra in continua crescita, con lo stesso Sorrentino e Virzì che esportano il marchio lavorando ad Hollywood (senza dimenticare la produzione americana di Luca Guadagnino, quest’anno candidato al miglior film per Chiamami col tuo nome), e i giovani registi come Mainetti e Sibilia che con coraggio danno voce alla loro idea di cinema, risultando spesso più che convincenti. Attendendo il prossimo capolavoro che conquisterà la giuria degli iconici Academy Awards.
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