Rubrica: Il Poetico Cinematografico come Simbolo
La presente rubrica intende esplorare il significato del poetico cinematografico: che cosa leghi cinema e poesia e che cosa significhi “fare poesia” attraverso il medium cinematografico. Senza la pretesa di tracciare una mappa esaustiva, ma solo di fare rotta sul alcune isole di questo mare inesplorato.
Qual’è il filo rosso che ci guiderà nell’indagine? Quale è il punto di contatto che si può identificare fra due forme d’arte apparentemente così diverse?
Noi lo identifichiamo senz’altro nel loro costante rimandare a qualcosa di altro, ad un significato che rimane sempre in parte inespresso e mai esaurito completamente.
Nel linguaggio poetico i silenzi sono tanto significativi quanto le parole.
Rilke, nel Libro delle Ore, scrive che ogni parola è un muro innalzato ed un velo che nasconde ciò che vorrebbe esprimere. Tale è l’intimo paradosso della poesia. Essa tenta di “dire il sacro”, come direbbe Hölderlin, pur sapendo che è uno sforzo sempre vano.
Allo stesso modo l’arte cinematografica veicola, attraverso le immagini ed il suono, un messaggio che tuttavia non viene mai espresso direttamente o contenuto in toto in nessuno dei suoi momenti, ma a cui solamente la totalità della pellicola fa riferimento come un segnavia.
Il cinema è per sua essenza un’arte visibile eppure, proprio come la poesia, rimanda costantemente a qualcosa di invisibile.
In questo senso parola poetica e immagine cinematografica si fanno entrambe simbolo, inteso nel senso di Goethe come “rivelazione viva e istantanea dell’imperscrutabile”. Possiamo chiamare questo imperscrutabile in molti modi, tutti inadeguati: ma la parola che forse meglio di tutte testimonia la sua strutturale impossibilità di descrivere ciò che tenta di descrivere – e che d’ora in avanti utilizzeremo nel corso di questa ricerca – è Assoluto.
Prima ancora della parola e dell’immagine, tutte le forme della natura sono simboli dell’Assoluto.
Per capire meglio il significato del simbolo, potremmo citare un altro passaggio del poeta Ivànov, riportato da Tarkovskij nel suo Scolpire il Tempo:
“Il simbolo è veramente tale soltanto quando esso è inesauribile e sconfinato nel suo significato, quando esso esprime nel proprio linguaggio ieratico e magico qualcosa di inesprimibile, qualcosa rispetto a cui la parola esteriore è inadeguata. Esso è una formazione organica, come un cristallo, che possiede una molteplicità di volti e di pensieri ed è sempre oscuro nella sua remota profondità.”
E’ impossibile ingabbiare il simbolo in qualunque forma concettuale od intellettuale che ne colga completamente il significato. Il simbolo non rimanda a questo o quello, non esprime dei concetti o delle riflessioni sulla vita, ma la vita stessa.
Il rapporto fra l’immagine cinematografica intesa come simbolo e l’Assoluto che tenta di esprimere è come quello fra la goccia d’acqua e il mondo intero che in essa viene riflesso: testimoniato, ma non contenuto.
Il poetico nel cinema si configura dunque come il tentativo, sempre destinato a fallire, di dare forma ed esprimere l’Assoluto.
In questo tentativo crediamo si possa ravvisare l’essenza stessa del cinema poetico. O forse della stessa arte cinematografica.
Pt.3: Un Condannato a Morte è Fuggito – Il Poetico come Anelito di Trascendenza
Un condannato a Morte è Fuggito (1957) di Robert Bresson è un esempio della forma più semplice – ma non per questo più immediata – di cinema poetico: costruire attraverso gli oggetti e lo spazio un sistema di metafore che rappresentino concretamente una realtà spirituale impossibile da mostrare direttamente.
Tutta la pellicola è pervasa da un fortissimo anelito di trascendenza. La storia del prigioniero e della sua fuga è infatti emblematica della “fuga” dalla condizione umana materiale e carnale per raggiungere lo Spirito; fuga dalla dimensione della Natura per approdare alla dimensione della Grazia.
Bresson utilizza il medium cinematografico per dipingere una storia di ascesi spirituale, un viaggio dell’anima paragonabile a quelli di Plotino o di S. Giovanni della Croce.
Il film si apre su delle mani, metafora dell’uomo nella sua materialità, che tentano di aprire la porta di una macchina. Il tentativo di fuga non riuscito porterà le mani ad essere ammanettate ed il loro proprietario, il tenente Fontaine, partigiano francese, ad essere condotto in prigione. Al suo interno, le mani saranno spesso aggrappate alla finestra, nella scena più ricorrente del film, che meglio esprime la sua condizione di cattività.
Ma allo stesso tempo, le mani saranno il punto di partenza per la fuga.
Abbiamo detto che gli oggetti sono una presenza speciale.
E’ attraverso gli utensili più semplici che le mani operano in vista della fuga. Il tenente Fontaine tenta di aprire la porta della sua cella con un cucchiaio – oggetto lucente. Con il fil di ferro e le lenzuola tagliate a strisce prepara la fune per calarsi giù dalle mura. La camicia insanguinata con cui viene portato in cella gli resta addosso, nonostante il passare dei giorni, o forse dei mesi, come un peccato originale impossibile da cancellare.
Grazie alla potenza dell’arte, gli oggetti di uso quotidiano assurgono a simboli.
“Un film di oggetti è un film sull’anima, cioè cogliere questa attraverso quelli”, afferma non a caso Bresson.
Altro simbolo primario del film è l’acqua, veicolo dello Spirito secondo la tradizione.
È solo alla fontana nel cortile che Fontaine incontra gli altri carcerati e spezza momentaneamente la sua solitudine. Il rumore dell’acqua che scorre è avvolgente, si propone prepotentemente in primo piano molto più che restare sullo sfondo. Lavarsi le mani è come lavarsi di dosso i peccati.
Alla fontana il tenente incontra un pastore, con cui parla del Vangelo di Giovanni e del dialogo fra Gesù e Nicodemo. In questo dialogo è contenuto la cifra del film, la necessità per l’uomo di una rinascita “dall’alto”, di morire nella carne per rinascere nello Spirito. La fuga non è che il tentativo di questa rinascita.
La cella rappresenta una caverna platonica, regno di ombre e simulacri, in cui “non si può essere sicuri di nulla”. Gli spari dei carcerieri non si vedono, ma si sentono fuori campo. Tutto è percepito come delle ombre su un muro, mai in modo diretto. La fuga è necessaria per arrivare alla Verità.
Per farlo però è necessario credere in se stessi, stringersi attorno al proprio centro e lasciare andare ogni altra cosa, persino la mediazione di preghiere o rituali. “Credi di più ai ganci e alle tue funi, ma in te dubiti”, dice il compagno di cella a Fontaine. Il tenente troverà la fede solo quando si aprirà al suo compagno, che prima aveva scambiato per una spia, e metterà da parte i suoi dubbi. Solo insieme riusciranno a raggiungere la libertà. Solo l’incontro con l’altro ci permette di uscire dalla prigione di noi stessi.
“Non correre dietro alla poesia. Si infila da sola fra le giunture”.
Fedele alla sua affermazione, il cinema di Bresson vive nel segno di una estrema semplicità. Non c’è ricerca spasmodica della poesia, ma solo l’attesa del suo spontaneo rivelarsi. Come la Grazia, essa si manifesta quando e dove lo ritiene opportuno.
E’ un vento che soffia dove vuole, e non sappiamo da dove viene né dove va.