Con Fitzcarraldo (1981) passiamo dalla claustrofobia di una stanza di prigione alle lande sperdute dell’Amazzonia più nera, che nel linguaggio degli Indios viene chiamata “La terra in cui Dio non portò a termine la Creazione”. Sempre secondo la loro leggenda, il Creatore porterà a termine la sua opera solo dopo la scomparsa dell’uomo. Quella terra rimarrà così per sempre sottratta al Logos, alla possibilità dell’uomo di cogliere il Mistero.
Il poetico di cui ci parla Herzog è qualcosa che non esiste se non nella nostra testa, una vocazione interiore che ci spinge ad andare controcorrente, a salire sulle chiese urlando alla piazza, a pagaiare per giorni su una piccola scialuppa per assistere a un’opera lirica, una fiamma che quando arde nel profondo del cuore può far spostare all’uomo le montagne.
In questo caso il poetico non mira alla trascendenza, ma a partire da essa è irrimediabilmente rivolto al mondo del fare e dell’agire, al di sopra del quale splende come stella polare e utopia da raggiungere.
Deriso da quasi tutti quelli che lo circondano, Fitzcarraldo, come uno toccato dal dono della profezia, insegue un sogno che lui solo è in grado di vedere. Sente il poetico dentro di sé e se ne deve sgravare, donarlo a un mondo che non può comprenderlo finché non lo può toccare con mano. Perché il sognatore sente in sé qualcosa di maestoso, che non può essere testimoniato a parole, ma gli altri non capiscono, vogliono prove.
Questo invisibile – per gli altri – celato nel cuore del protagonista è ciò che la cinepresa cerca di rivelare attraverso tutto ciò che lui compie: i suoi gesti, le sue azioni, le sue parole ed espressioni.
«Ci sono silenzi e silenzi», dice il capitano della nave del nostro eroe.
C’è il silenzio di Fitzcarraldo, quello di chi non sa testimoniare l’Assoluto e sceglie di farsi da parte affinché sia la musica a farlo per lui. E c’è il silenzio dei bambini che ascoltano l’opera lirica, unico pubblico del sognatore insieme a un maiale, e primi a cui il poetico si rivolge.
Ma c‘è anche il silenzio di chi non sa comprendere, degli affaristi di Manaus, morti dentro come elefanti che pure restano in piedi, il cui animo non tende a nulla, è privo di ogni linfa. C’è il silenzio degli Indios, che colti dallo stupore nel vedere il ghiaccio – probabilmente un omaggio a Màrquez – non hanno una parola per descriverlo.
Infine c’è il silenzio della foresta amazzonica, immagine del Caos primigenio, spezzato dall’irruzione della musica di Caruso che irrompe come il Verbo venuto a finire la Creazione.
La musica che Fitzcarraldo fa ascoltare agli Indios è infatti un elemento trascendente che irrompe con forza nella realtà e la trasforma vivificandola nell’interno, creando nuovi scenari: non fosse stato per essa, lui e i suoi compagni sarebbero morti come tutti quelli passati prima di loro attraverso quel fiume. Invece Fitzcarraldo riesce a convincere la popolazione degli Indios Jivaros a seguirlo nella sua folle visione, simile a Orfeo che addomestica le fiere con il suono della sua lira. I Jivaros aspettavano un Dio vestito di bianco che alla fine dei tempi avrebbe mostrato loro una terra senza sofferenza e morte. Fitzcarraldo con la sua musica si fa profeta di questa dimensione sovrannaturale: la sua musica diventa simbolo dell’Assoluto.
«Per Herzog la poesia è il codice attraverso cui l’uomo può confrontarsi con una idea di verità più pura, non per questo meno enigmatica – dove il linguaggio mostra la sua incapacità di toccare ciò che descrive. Messa giù in questo modo, Herzog è un poeta, e i suoi film poesie.»
Scrive Nicolò Porcelluzzi in una bella recensione che avvalora la tesi di questa ricerca.
Si potrebbe anche tracciare un parallelismo fra il regista stesso e il personaggio che rappresenta, ma esulerebbe dal contesto di questo lavoro: per chi fosse interessato a conoscere le enormi fatiche che il cineasta tedesco ha dovuto affrontare per realizzare il suo film – per imprimere la sua visione sulla pellicola – rimandiamo al documentario Burden of Dreams di Les Blanks.
Quello che interessa a noi è che sia Werner Herzog che Fitzcarraldo rivendicano il diritto dell’arte a tendere all’Assoluto, e a non accontentarsi di nulla di meno di esso. Che Fitzcarraldo non vinca, non riesca a realizzare il suo teatro in fin dei conti, è di secondaria importanza.
Perché all’Assoluto non si può pervenire, si può solo continuare a tendere.
RUBRICA: Il Poetico Cinematografico come Simbolo – Qui trovi l’Introduzione alla rubrica: https://artesettima.it/2019/02/12/il-poetico-cinematografico-come-simbolo/