Loro – Ma di che film si tratta?

Andrea Vailati

Maggio 15, 2018

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Ci sono infiniti mondi che il cinema può raccontare.

Ci sono infiniti modi di affrontare quel mondo che si decide di ritrarre.

Si può scegliere di osservare da lontano quel luogo, reale o meno, non schierandosi mai, rimanendo onniscienti osservatori che non giudicano, semplicemente riportano. Ci si può addentrare radicalmente nel fulcro di quel luogo, mentale, storico, relazionale o geografico che sia.

Si può scegliere uno stile narrativo, in un percorso crescente, decrescente o sdrammatizzante (Vedi Tre Manifesti ad Ebbing, Missouri – Una sociologica sdrammatizzante). Si può scegliere uno stile poetico, che da un romanzo cinematografico passa ad un’opera estetica, dove lo stupore non è dato da dialoghi ma da momenti contemplativi. Si può essere realistici, iperrealisti, onirici, grotteschi. Ma una grande magia del cinema è che si può modellare un film in tanti modi allo stesso tempo, muovendosi in differenti osservazioni, in differenti stili.

Quest’ultima è una delle massime elevazioni delle capacità artistiche di colui o coloro che attivamente determinano le sorti della loro opera. Non per forza, però, la contaminazione è migliore della linearità, o ancora meglio non per forza più un’opera è contaminata meglio è, anzi. Perché la contaminazione, la malleabile capacità di fondere momenti poetici a narrativi, realistici a onirici, presuppone un elemento radicale e radicato a fondo nello sguardo dell’artista: un’idea di base, un motore primo che tutto determini e a cui tutto ritorno, uno strato subliminale di coerenza, anche nel dichiararsi delirante. Perché anche un film che sceglie il caos, vi riesce realmente quando ha consapevolezza di averlo scelto: consapevolezza, si intende, non per forza razionalizzata, anche semplicemente nata e trattenuta in un’intuizione essenziale. Talvolta infatti, parafrasando Socrate, vi è una profonda verità nel affermare che “i poeti sanno senza sapere perché sanno”.

Di fronte a tale premessa, proviamo dunque a navigare nell’ultima fatica di Sorrentino.

Loro è un’opera divisa in due parti (Leggi anche Loro 1 – Quando la realtà mette sotto scacco la poesia), per un totale di più di tre ore di film. Decantato nel marketing e nell’aspettativa come un film incentrato su Silvio Berlusconi, la vera pretesta poetica e narrativa sembra di volersi rivelare un qualcosa di più. E’ un film su cui è complesso anche solo capire chi possa essere il protagonista, e di conseguenza quali vogliano essere le tematiche ed i messaggi dell’opera.

– Prima di Lui, parliamo di Loro

La prima parte crea disordine nei nostri sguardi: in una prima fase che domina i due terzi del film, lui, colui che è Berlusconi, è un mito irraggiungibile. Il protagonista di questo periodo narrativo/osservativo è Sergio Morra, imprenditore arrivista pugliese che brama follemente di arrivare al suddetto grande capo. Egli si costruisce su di una strana forma di vacuità, come un homo novus mancante di qualunque capacità realmente di valore, se non quella di convincere belle ragazze disinibite ad inseguire con lui quel sogno. Un personaggio che forse si riduce alla semplicità data dall’effimero, dove per innamorarsi di una donna irraggiungibile bastano un paio di dialoghi poeticamente ovvi ed una grande bellezza sessuale e dove ogni esperienza della sua esistenza, nei suoi eccessi e nelle sue ambizioni, è puramente superficiale.

Crea disordini, perché è un Sorrentino nuovo, che non poetizza l’orrido come ne La Grande Bellezza, per palesarne il vuoto, ma che cerca di filmare un mondo vacuo dalla stessa prospettiva che quel mondo avrebbe. In una sorta di epoché cinematografica, egli finge di non conoscere le sue verità, di non sapere che dietro ci potrebbe essere altro, ma di guardare un mondo dagli occhi di persone per le quali il mondo non è altro che quello, senza niente da cercare di diverso, perché non hanno idea che manchi qualcosa.

La coerenza di tale composizione si afferma, per l’appunto, anche nella moglie, che vaga nei saloni delle “grandi” figure politiche come una sorta di “accompagnatrice che non la dà ma te la fa bramare”, rimanendo saldamente innamorata del suo uomo, in una “solida” base relazionale che sembra sempre essere semplicemente ed unicamente quella di ambire all’apice dell’arrivismo. Così come Kira, la suddetta grande bellezza sessuale, che si fa elemento poetico, ma in vero, non è altro che una che può tirarsela perché va direttamente con lui. Ed ancora Santino Recchia, ex ministro reso una palesata macchietta del ridicolo politico odierno, che aspira a fregare il suo “Presidente” ma alla fine è solo una sanguisuga del sistema.

Già qui Sorrentino però crea confusione nella confusione cercata. Perché in questa complessa scelta, di base intuitivamente molto intrigante, di mostrare un mondo vacuo per quello che è, ma soprattutto di mostrare come gli uomini e le donne all’interno di questo mondo vedano una loro poesia ed una loro ambizione, senza giudicarla ma immedesimandosi in toto in essa stessa, egli non può rinunciare ad alcuni elementi, registici e poetici che, forse, risultano più un suo piacere estetico e simbolico che strumenti realmente utili o anche semplicemente coerenti con il film. Simboli che ritornano verso un autore che sa, o per lo meno comprende, dopo che sembrava volesse porsi nella finzione del non sapere che ci sia qualcosa da sapere.

Un rinoceronte istantaneo, una “zoccola” che fa volare la spazzatura sulla Grande Roma Antica: sicuramente simboli a cui si può accostare un significato e riconoscerne un senso, ma senza che questo implichi una loro sensatezza nel film. Perché ad una scelta che, forse, sembrerebbe di mostrare una poetica del vacuo all’interno del vacuo e rispetto al vacuo stesso, non si connette annettere a quel vacuo simboli che con quel vacuo non centrano. Certo, nel caso della Grande Bellezza era esattamente la contrapposizione, il contrappeso necessario a mostrarne la vacuità, ma come una realtà opposta e contrapposta al vacuo: se questo film sembra scegliere di totalizzarsi, almeno in questa prima fase di questa prima parte nel vacuo dall’interno, allora quel vacuo non conosce quegli strumenti.

Si intende che, se l’innovazione voleva essere raccontare una poetica volutamente banale, essendo il film stesso fatto di quella poetica, come se Sorrentino fosse uno di loro, dove anche i dialoghi si elevano in quel’ “ovvio detto bene” da personaggi che si elevano nella loro essenza totalmente superficiale, allora quei simboli cozzano fortemente. Altrimenti, se così non voleva essere, si tratterebbe semplicemente di dialoghi e scene che vogliono essere molto più di quello che sono.

Abbiamo quindi una prima fase della prima parte che parla di Loro, non tanto di “quelli che contano” come dice Scamarcio, ma di coloro che bramano, idolatrano ed inseguono l’essere con quelli che contano, se non persino di divenire quelli che contano, all’interno di una realtà dove il “contare” è sinonimo di eccessi fini a se stessi, dati dal sentirsi onnipotenti in un mondo di imbrogli, disonestà, volgarità e soprattutto incapacità di saper fare davvero qualcosa di buono. Sorrentino però, a questo complesso ed affascinante disordine volontario accosta momenti stilistici e poetici non realmente coesi, passando da animali a medici che spiegano cosa sia l’MDMA ad ambienti felliniani, a scene che ricordano The Wolf of Wall Street se non persino Project X.

– Ma Lui chi è?

Ed ecco che, nell’ultima parte di Loro 1, compare Lui.

Ricollegandosi alla prima scena, quella che vedeva la pecora/utente medio e cittadino medio morire, perché incapace di realizzare che l’aria condizionata stesse per ucciderlo, simbolo, forse, della comodità carente di consapevolezza, della Fenomenologia di Mike Buongiorno per dirla alla Eco, compare il padre di questo scenario italiano degli ultimi 30 anni: Silvio Berlusconi.
Ecco che il disordine di questo primo film si amplifica nel ritrarre un uomo che non è ben chiaro chi voglia essere: che tipo di volto ha voluto mostrarci Sorrentino, dopo quello di Loro, rispetto a Lui?

La prima scena, quella con il nipote e la cacca è forse la più emblematica, a tal punto che si potrebbe anche dire, parafrasando Ricoeur, che tutto il resto è una nota a piè pagina di quella scena. Un Berlusconi che vive nella sua stessa parodia, a tal punto che Servillo ne fa più una parodia, una macchietta, che un’interpretazione immedesimata ai livelli del Divo. Ma tutto ciò è voluto, potente nell’essere voluto, ma forse fine a se stesso nello scopo narrativo o osservativo che sia. Cosa ci sta mostrando Sorrentino? Un uomo che vive nella sua leggenda, ma che sta decadendo, vedi il calciatore che lo rifiuta? Un uomo che vuole riconquistare sua moglie, elemento forse cardine di una gran parte dei momenti dedicati a Lui, ma che poi non capiamo perché o se lo voglia davvero? Forse sì, ed è interessante, ma profondamente non chiaro. Almeno per il primo film, così ci tocca tornare al cinema, con aspettative fin troppo alte e speranzose.

Ed ecco che arriva, nella prossima pagina, Loro 2.

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– Loro 2: ecco, forse, il suo scopo… ma è davvero così interessante?

Essere altruisti è il miglior modo per essere egoisti.

Arriva Loro 2. Nell’inizio vediamo un doppio Servillo, interprete sia di Lui che del suo socio storico Ennio, in un momento dialogico quanto mai rimarchevole. Lui deve tornare ad essere lui, il venditore geniale che fu, per poter riprendere in mano il suo paese. Capiamo quindi forse il primo film: mostrare un Berlusconi che non ha più nulla da fare, privato del fascino derivante dal suo essere il “Presidente”, del governo o del Milan.

La moglie resta ancora un’intima incognita di un film che, vedremo, non sa mai essere davvero intimo.

Così, a questa prima scena che annuncia il rilancio, sussegue un monologo potentissimo di un Servillo che interpreta un Berlusconi che interpreta un venditore qualunque per convincere, via telefono, una signora a comprare casa. Interessante, perché forse il momento più alto di recitazione, sembra essere quando Servillo, in un certo senso, non interpreta Berlusconi. Ed ancora scene di rapida ed iperbolica ironia su come Lui riprende in mano la situazione: senatori che si convincono, Berlusconi che si mostra il grande oratore che fu. Poi ancora momento sul suo dirigere le scelte della mediaset, in un modo pilotato a tal punto da divenire la parodia del suo essere pilotato. Poi ancora riprende il governo. Sembra sconnesso, o meglio a puntate non coesive, il modo in cui si sta sviluppando questa parte dell’articolo, vero?

Perché è così che va il film. In una climax crescente, avvengono tutte queste cose, con una moglie innamorata ancora una volta ed un pubblico di quei Loro che Scamarcio ammira, ma che sempre sanguisughe si rivelano.

Poi, senza realmente capire come e perché, con un dialogo sull’aereo che ancora una volta ripropone il bisogno di grandi momenti enigmatici, forse fini a se stessi, tutto va in malora. Senza neanche il tempo di capire cosa sia accaduto, cosa volesse essere questo primo rilancio, si presenta finalmente il grande incontro: in questo momento ritorna la poetica del vacuo.

Ed ecco che Lui sembra vagare in quegli estremi, così facilmente raggiungibili e che così facilmente svaniscono dell’effimero: prima mille donne che lo ascoltano cantare, poi il disinteresse per tutte se non una ragazzina, poi la solitudine. Torna quindi forse l’epifania di un uomo che non ammetterà mai a se stesso di essere profondamente vittima del suo personaggio, a tal punto idealizzato da essere irraggiungibile. Vuoto non come loro, perché loro semplicemente non sanno nulla.

Vuoto come chi non ambisce a nulla se non essere il re consapevole di quel nulla.

Ed ecco che torna la moglie, unica a sapere che l’unica cosa che un uomo così capace ha scelto di saper fare di buono, è farla innamorare, come forse ha saputo fare con tutti gli italiani. Tutto il resto è semplicemente cavalcare con stile la disonestà, abilmente ma senza meriti che non siano legati all’apoteosi dell’imbroglio. Così, quell’uomo si svuota definitivamente, smascherato, solo, perché lei non c’è più, perché loro non valgono nulla, perché i veri loro che bisognerebbe ritrarre sono i terremotati.

Da qui, Scamarcio e la sua squadra svaniscono, senza giustificazioni narrative, nel loro essere insignificanti, lui non può che far esplodere il vulcano da solo, i terremotati guardare la statua di Cristo.

Ma perché?

Forse per quella purezza che si annida nella speranza popolare, religiosa ma non solo, forse perché alla fine, si può sempre recuperare dalle macerie di un mondo in rovina una primordiale bontà, credenza, verità che oggi si racchiude in sguardi abbandonati, in un mondo tristemente disinteressato a se stesso.

Ma tutto ciò, tutta questa riflessione, non ci arriva in maniera coinvolta, quanto piuttosto sconnessa. Un rapporto con la moglie che ci sembra uno stereotipo di intimità in un film che non è mai osservatore dell’emozioni nascoste. Una vuotezza che prima è totale, poi svanisce, ma infine non ci permette di connetterci a tutte quelle piccole grandi cose che voleva essere, ma non ha mai inseguito del tutto. Parlare di politica ma solo con battute sui comunisti, raccontare l’unica vera intimità ma riempiendola di dialoghi che sembrano più un saggio critico sull’essenza di Berlusconi che un rapporto tra un uomo ed una donna. Infine un finale che arriva come un fulmine a ciel sereno che non stupisce, piuttosto disorienta, ma in un senso non piacevole.

Voleva essere questo? Infine semplicemente una intima mancanza, attorniata nei suoi eccessi che svaniscono perché di fondo non hanno una struttura umana solida su cui basarsi né una verità da cercare. O ancora una estrema contrapposizione tra un vecchio ed un mito, un uomo ed il suo racconto, troppo grande per essere vivibile. O ancora una contrapposizione tra loro e loro, dove quei loro che sono gli ultimi  compaiono solo nei 10 minuti finali di più di tre ore di film, con lui come strana forma di elemento di mezzo. Forse sì, forse no. Infine però troppo caos, troppi stili, troppi divertissement di un grande regista che sa fare tanto, ma non ha saputo utilizzare la grande magia del complesso che sa cosa vuole essere.

 

Nota a piè pagina: Dio e Paolo Spagnolo, estemporanei momenti che rimandano a quel non detto che sempre Sorrentino ama, ma che mai più che in questo caso sembrerebbe puro piacere nel mostrare cose, piuttosto che nel connetterle ad un film.

LEGGI ANCHE: I Due Volti di Sorrentino/Servillo  – Il Principe e il Poeta

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  • Andrea Vailati

    "Un giorno troverò le parole, e saranno semplici." J. Kerouac

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