l’Andreotti de Il Divo e il Jep Gambardella de La Grande Bellezza.
1. Se il Principe machiavellico fosse esistito, che mondo avrebbe creato?
“Chi non vuol far sapere una cosa, in fondo non deve confessarla neanche a se stesso, perché non bisogna mai lasciare tracce.”
Il primo volto è quello di un Giulio Andreotti dal mal di testa costante. E quel mal di testa ci dice già molto del leggendario, nel bene e nel male, statista italiano della DC. Perché quel mal di testa è il patto di non belligeranza con le emozioni annesse alle proprie azioni: non si può subire il resoconto del proprio agire quando si è il burattinaio più scaltro della Prima Repubblica. Non si può perdere il controllo, dunque si deve sedimentare tutto ciò che un essere normale subirebbe, tutti conflitti con una morale primordiale, con una consapevolezza delle proprie gesta, tutto deve essere contenuto, dietro la nuca, in un dolore costante ma con cui potrà sempre convivere, senza mai dirsi davvero quale ne sia la ragione.
Servillo interpreta una figura composta, nella sua schiena curva e nelle sue mani intrecciate, il cui fascino risiede nel contrasto tra un uomo piccolo e cupo nelle dimensioni e nell’estetica, solitario e per nulla pretenzioso nel mostrarsi, ma potente nel dire, quel poco che si necessita che venga detto, sempre fin troppo sottile, sempre ricolmo di un sapere che non si saprà mai.
Perché Andreotti ha cercato la solitudine, necessaria per poter agire senza ripercussioni nella sua realtà, in lui che, secondo lui stesso, è destinato ad occuparsi di quella causa che tutti rivendicano, ma nessuno a il coraggio di perpetuare ad ogni costo: il benessere dello Stato.
“Livia, sono gli occhi tuoi pieni che mi hanno folgorato un pomeriggio andato al cimitero del Verano. Si passeggiava, io scelsi quel luogo singolare per chiederti in sposa – ti ricordi? Sì, lo so, ti ricordi. Gli occhi tuoi pieni e puliti e incantati non sapevano, non sanno e non sapranno, non hanno idea. Non hanno idea delle malefatte che il potere deve commettere per assicurare il benessere e lo sviluppo del Paese. Per troppi anni il potere sono stato io. La mostruosa, inconfessabile contraddizione: perpetuare il male per garantire il bene. La contraddizione mostruosa che fa di me un uomo cinico e indecifrabile anche per te, gli occhi tuoi pieni e puliti e incantati non sanno la responsabilità. La responsabilità diretta o indiretta per tutte le stragi avvenute in Italia dal 1969 al 1984, e che hanno avuto per la precisione 236 morti e 817 feriti. A tutti i familiari delle vittime io dico: sì, confesso. Confesso: è stata anche per mia colpa, per mia colpa, per mia grandissima colpa. Questo dico anche se non serve. Lo stragismo per destabilizzare il Paese, provocare terrore, per isolare le parti politiche estreme e rafforzare i partiti di Centro come la Democrazia Cristiana l’hanno definita “Strategia della Tensione” – sarebbe più corretto dire “Strategia della Sopravvivenza”. Roberto, Michele, Giorgio, Carlo Alberto, Giovanni, Mino, il caro Aldo, per vocazione o per necessità ma tutti irriducibili amanti della verità. Tutte bombe pronte ad esplodere che sono state disinnescate col silenzio finale. Tutti a pensare che la verità sia una cosa giusta, e invece è la fine del mondo, e noi non possiamo consentire la fine del mondo in nome di una cosa giusta. Abbiamo un mandato, noi. Un mandato divino. Bisogna amare così tanto Dio per capire quanto sia necessario il male per avere il bene. Questo Dio lo sa e lo so anch’io.”
In questo magistrale monologo, la regia di Sorrentino ci mostra l’equilibrio tra la repressione e l’esplosione, l’apice di un sfogo che dice ciò che il mondo mai saprà, ma persino in tale istante si contiene. Inquadrature carrellate che si avvicinano alternate a primi piani statici mostrano l’accrescimento di una confessione che non percepisce il suo peccare, ma lo giustifica, o ancor meglio prova a mostrarne il fine superiore.
Andreotti, in un’Italia grigia, potente nella sua paura, sembra quasi una versione novecentesca del Principe machiavellico. In quella che si definisce una delle più grandi teorie realiste della politica, della riflessione filosofica sull’istituzione, i suoi moti e le sue necessità, il pensatore italiano descriveva l’uomo ideale a perseguire il benessere dello stato, svincolato dai limiti della morale comune, favorito dalla fortuna, autonomo nel suo prevedere la necessità di mali minori per beni maggiori. Andreotti però non è il leader carismatico nel senso rinascimentale, non è Cesare Borgia, ma un’evoluzione data dalla complessità del suo tempo: ancora più svincolata, a tal punto da porsi dietro le quinte, da non comparire come mandante o fautore del necessario, da non rivendicarlo, ma da esserlo ovunque, in ogni istante.
Un’evoluzione profondamente degenerata, ma nessuno, nel mondo reale, ha mai saputo davvero mostrarlo.
Il Divo si rivela quindi un film dove è il non detto, il quasi detto, ciò solo in quella scena verrà per un istante detto, il vero protagonista del film. L’esterno narrabile è quello di uomini che a loro volta non dicono, ma sussurrano compromessi necessari, perennemente sul teso filo dell’astuzia più violenta, più prossima ad implodere che ad esplodere. L’estetica fatta di luoghi vuoti, silenzi fin troppo visibili, ombre perpetue, è quella di un paese, è asservita ad una narrazione voyeuristica di un uomo e attraverso un uomo, rivolta ad una realtà compressa ma silente, dove gli interni umani valgono più degli esterni.
Il nostro primo volto è lo stratega all’interno dell’involucro corporeo, il politico che ha composto l’Italia, sfuggendo alle infinite colpe, per colpa di un mondo che si è fatto plasmare. Il controllo ed il distacco consapevoli sono i suoi strumenti, lo Stato la sua creatura, il moderatismo ubiquo e machiavellico la sua creazione.
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2. Il Poeta alla ricerca dell’origine, nell’aridità del suo mondo
“Sono anni che tutti mi chiedono perché non torno a scrivere un nuovo romanzo. Ma guarda ‘sta gente, ‘sta fauna. Questa è la mia vita, non è niente. Flaubert voleva scrivere un romanzo sul niente, non c’è riuscito. Ci posso riuscire io?”
Risuona come un anatema al suo mondo quello sguardo sempre sottilmente critico ed ironico sulle cose che Jep Gambardella rivendica come suo marchio di fabbrica. E’ un mondo ben diverso da quello de Il Divo quello de La Grande Bellezza, forse ne è persino un prodotto, almeno in parte. E’ un luogo profondamente esteriore, proprio perché gli interni sono oramai annichiliti, dissipati dal consumismo, dall’estetica materialista, dal non bisogno di cercare qualcosa, ma piuttosto di riempirsi di cose che non dicono nulla, ma che stazionano nello stare perché se ne ha la possibilità, senza cercare la ragione.
E’ una Roma che balla musica volgare in luoghi lussuosi, circondata da luoghi dove vi fu e vi sarà sempre la bellezza, ma oramai in ombra, non più accessibile.
Così, il nostro protagonista, gioca sul suo sapere il fallimento, mostrandosi capace di svelare le menzogne ma allo stesso tempo di fare un arma per dominare proprio quei luoghi, fingendo di essere soddisfatto. Ma Jep non è il borghese moderno, che finge di aver militato nel partito, di aver educato i figli o di rivendicare una nobiltà intellettuale, perché egli sa che non è vero. Ed è proprio tale disillusione che concepisce il viaggio, quasi felliniano, nel quale Sorrentino ci conduce attraverso l’immenso Servillo. Alla ricerca di un qualcosa di perso, di quell’origine autentica dove tutto per un istante è stato bellezza.
La Ferilli e la sua ingenuità popolare ma sincera, Verdone ed il suo aver fallito in quel mondo che si eleva ma per status non per curiosità: il nostro poeta subisce le piccole sincerità di quei pochi, condanna gli artisti finti, è ammaliato dai grandi maestri del passato (leggi anche: L’intervista al Grande Regista).
Il regista gioca con un’estetica contrapposta: da un lato lo sfarzo eccessivo e volgare, dall’altro la poetica di un’esistenza sospesa, vittima di un’eternità e di una bellezza che non può più toccare, tra statue di marmo, giraffe e fenicotteri.
Ma, alla fine, veramente non può più cercare?
Anche qui abbiamo un volto solo, ma di una solitudine che non è subentrata con presupposto vincolante per poter essere ciò che Il Divo è, bensì come risultato di un’epoca che si autoinduce a dissiparsi costantemente, non decadente ma decaduta.
Se quindi condividono un’individualità che anche in mezzo a mille persone non è sanabile nella sua componente solitaria, i due volti raccontano due storie diverse, evidenziate in due fasi stilistico-narrative diverse.
Se ne Il Divo la protagonista era la narrazione del non detto, del potere nascosto, e l’estetica svolgeva un ruolo veicolante, ne La Grande Bellezza è proprio la bellezza che c’è ma non c’è più la vera protagonista: sempre un qualcosa di mancante, ma che precede il dire, il ragionare, il confabulare, affermandosi l’immediatezza visiva, nell’intuizione primordiale sempre più lontana dal nostro mondo. La narrazione è quindi in questo caso il veicolo e non l’oggetto, dove alle storie che i vuoti uomini si raccontano, costruite e fasulle, rispondono piccole perle poetiche, su ciò che la voce può solo parzialmente illuminare.
“Infondo è solo un trucco…sì, è solo un trucco.”
https://www.youtube.com/watch?v=61RtRLdeIhk