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Il Corriere – La strada infinita di Clint Eastwood

Gabriel Carlevale

Febbraio 14, 2019

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Allora mi sembrava importante creare da zero il successo, il nuovo status per la famiglia. Poi il rimpianto, di chi è riuscito a farlo, ma è sempre rimasto solo.

Earl Stone

 

Prima di iniziare a leggere quanto segue, c’è una premessa da fare: chi vi scrive è un amante incondizionato dell’opera cinematografica di Clint Eastwood, sia in veste registica che attoriale. Detto ciò, c’è un dato che non può passare inosservato: quest’uomo ha 89 anni. Una veneranda età. Tanti muoiono prima di arrivarci, molti perdono le piene capacità psichiche e motorie. Trovare, in qualsiasi campo artistico, un altro autore così vivo e pienamente in controllo di sé è un’autentica sfida. Fatta questa premessa, Eastwood torna in sala con solennità e dignità, facendo così anche ammenda per lo scivolone che fu Ore 15:17 – Attacco al treno. La sua carriera non è ancora finita.

Il Corriere restituisce l’Eastwood migliore, quello che tanti di noi hanno cominciato ad amare con film del calibro di Million Dollar Baby e Gran Torino, offrendo l’ennesimo ritratto fedele degli Stati Uniti d’America, mostrando i suoi contrasti più vivi, non tralasciando il suo grande amore per la narrazione. Earl Stone è un vigoroso floricoltore e veterano di guerra che ha dedicato la vita al suo lavoro, lasciando alle spalle gli affetti della famiglia, cercando di essere qualcuno nel mondo anziché il fallimento che era dentro casa. Solo e in crisi economica, quasi per sbaglio entra in un gioco più grande di lui, senza vie d’uscita ma non per questo sentendosi in gabbia.

Eastwood richiama a sé il fido Nick Schenk (sceneggiatore di Gran Torino) e Bradley Cooper, per raccontare una storia ispirata ad un fatto di cronaca, tornando finalmente davanti la macchina da presa. Se, come sempre, non possiamo che rimanere affascinanti dalla recitazione, qui assistiamo a qualcosa di inaspettato: ammiccamenti con le giovani donne e impensabili passi di danza aprono la strada a nuove sfaccettature del personaggio Eastwood, non tradendo però la sua vera scorza, legata al patriottismo e ad una ironia sempre tagliente, che passa dalle battute di spirito alla critica sociale, i continui rimbrotti ai giovani ormai schiavi di internet o gli stereotipi su omosessuali e persone di colore.

Quest’ultima considerazione, seppur lieve in superficie, nasconde una delle matrici cardine del cinema eastwoodiano: da noto repubblicano ed elettore di Trump, il regista non perde occasione per mettere in mostra la banalità del linguaggio comunque, facendo allo stesso tempo un ragionamento su forma e contenuto. Se è vero che termini simili inveiscano contro le persone a cui sono rivolti, allo stesso tempo l’ipocrisia generale ci ha portato alla condanna immediata di tali atteggiamenti, senza però sviluppare un ragionamento critico atto alla vera risoluzione del problema, o, tanto meno, all’analisi reale del dilagante fenomeno dell’offesa gratuita.

Se dal punto di vista puramente registico siamo di fronte al più classico degli schemi di Eastwood, sempre molto asciutto, con panoramiche di straordinaria bellezza sul territorio americano, la forza del film sta tutta nella relazione dei personaggi con la storia in cui, eccezion fatta per Earl, svolgono un ruolo principalmente formale: i trafficanti messicani del Cartello non manifestano mai affondo la propria crudeltà, mentre gli agenti della Dea fanno da cornice ad una vicenda che non li impegna mai oltre il minimo sindacale.

Seppur anziano, abbandonato e fragile, il regista riesce perfettamente a non rendere il protagonista un eroe, tendendo a manifestare principalmente i suoi aspetti negativi. Il lavoro sulle emozioni è graduale, parte dall’aridità del uomo e arriva ad una consapevolezza tardiva, che tenta in tutti i modi di riallacciarsi alle cose importanti della vita nel momento in cui le sta perdendo, e in questa visione, fondamentale è il rapporto con la giovane nipote, punto di legame tra passato e futuro.

Una riflessione sul tempo, sull’importanza dei valori da proteggere, sugli effetti delle scelte sbagliate. Con il suo solito anti-moralismo, la critica ai cliché, l’inesorabile sfacciataggine, il dilagante senso dello humour, fatto di battute, di momenti sorprendenti, come l’intonazione di classici americani alla radio come Ain’t That a Kick in the Head. Clint Eastwood realizza un film che non passerà alla storia, ma che lo riconcilia con il miglior cinema. Rappresenta l’inchino di un artista dinanzi al suo pubblico, il quale dovrebbe inchinarsi a sua volta.

Leggi anche: Ore 15:17 – Il clamoroso svarione di Clint Eastwood

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