Attacco a Mumbai: coraggiosi e non, eroi o antieroi, buoni o cattivi, la differenza sostanziale risiede nella volontà che creiamo ogni giorno. Non siamo vittime spregiudicate di un mondo alla deriva, non siamo innocenti davanti alla distruzione del bello e al cambiamento del brutto. Facciamo soltanto quello che decidiamo di fare.
Le premesse per un thriller, biopic e suspense al cardiopalma ci sono tutte. Eppure dentro il proverbiale mondo magico del cinema, ci sono forti emozioni che si descrivono dalle circostanze che si creano dietro la macchina da presa. Nonostante la settima arte resta un momento speciale da condividere con le persone speciali, talvolta questi mostra i propri denti affilati; incastra i suoi artigli nella pelle delicata del suo spettatore seduto in poltrona. E lo fa senza la minima percezione di un movimento.
Attacco a Mumbai è la prova vivente che il cinema autobiografico continua indisturbato il suo racconto del mondo odierno, dei fatti antecedenti, di vite meravigliose di individui vissuti. Di racconti brutali senza veli. Proprio come Attacco a Mumbai, il quale racconta crudelmente le immagini vissute con gli occhi dei sopravvissuti durante l’attacco terroristico nell’omonima città nel novembre del 2008.
CIÒ CHE SEMBRAVA UNA SERATA COME TANTE ALTRE
Le prime immagini che scorrono sono di un magico, rosso tramonto indiano e di una serata che si preannuncia incantevole come tutte le altre.
Tuttavia, a dar quel tono che si instaurerà per tutta la durata del film (125 minuti di tensione), è un lamento prodotto da un violino, spigoloso, frustrante e con quella percezione che Attacco a Mumbai non lascerà l’astante con il sorriso sulle labbra.
Quando un piccolissimo gruppo di rivendicatori musulmani decidono di attaccare la città di Mumbai, tutti coloro che tenteranno di scappare dai colpi serrati dei mitra dei terroristi si ritroveranno a ripiegare dentro il ristorante e hotel lussuoso della città: il Taj Mahal Palace. Nel frattempo, proprio dentro queste mura sfarzose, le vite di due coniugi e una babysitter, insieme alla cena di un maldestro milionario verranno sconvolte dall’arrivo scrupoloso di questi terroristi. A nulla servirà la richiesta di risparmio di coloro che si troveranno la fredda canna del mitra puntata alla testa; come disperato sarà il bisogno di sopravvivere davanti all’egemonia crudele dei terroristi.
E nel momento più oscuro di quelle ore autunnali, con le forze speciali a ottocento chilometri di distanza da Mumbai, per coloro che si nascondono ovunque nel Taj Mahal Palace non resta che sperare di sfuggire ai colpi di arma da fuoco. A quel punto, la pazienza di un cuoco esperto e rinomato e il coraggio di un cameriere saranno di prezioso aiuto per quelle anime in cerca di una sopravvivenza.
IL MITO DEL SILENZIO
Ed è così che il regista della pellicola, Anthony Maras, filma il suo contributo in uno dei momenti più bui che l’umanità abbia mai vissuto. La realtà della pellicola viene filmata attraverso accordi musicali che accompagnano le immagini in poche scene della pellicola. Di conseguenza, Maras sceglie con accurata efferatezza di non gestire particolari momenti della pellicola a gioie o dolori musicali. Lascia che sia il silenzio a parlare, mentre la cinepresa gira attorno e dietro gli attori, fingendo una realtà designata egregiamente bene.
Un silenzio doveroso e intimidatorio, carico di emozione e significato che non può che ricordare il primo scontro corpo a corpo dell’ultimo film della trilogia sul Batman di Nolan. Lì, lo scontro era diretto, incontrastabile e, per lo sfortunato eroe di Gotham, segnava la sua sconfitta. E allora anche Maras ci delizia dello stesso tono. Non una volta, come preceduto dal suo collega nel 2012, ma in determinati momenti, caricando come un toro epiche situazioni in cui non si può che pregare dentro se stessi per il destino dei personaggi in scena; attendendo, inoltre, una salvezza dai piani alti che sembra non sopraggiungere mai.
Perciò, come un mito scritto sui libri di storia, il regista di questo prodotto ci riserva il suo stampo odierno: crudo e realista, in totale sintonia con la storia che è stata vissuta. La cinepresa sempre incollata ai suoi protagonisti, la musica che arriva nei pochissimi attimi dell’arco narrativo e lascia ai rumori truci dei mitra di fare tutto il resto. Il silenzio, infine, accompagna o precede la catastrofe di una carneficina.
IL CORAGGIO E LA SOPRAVVIVENZA
Se da un lato il silenzio di tutte quelle anime decedute sotto i colpi di arma da fuoco è ansioso e spaventoso, dall’altro c’è il coraggio di coloro che decidono di combattere per sopravvivere, aiutando molti verso la salvezza.
Per primo il coraggio di un cameriere come Arjun che, tra il dovere di portare quattro spiccioli a casa e la speranza di non essere cacciato dal ristorante per un paio di scarpe dimenticate, si ritrova in mezzo ai corridoi occupati dai terroristi a salvare vite umane.
La sapienza e l’astuzia di uno chef rinomato dal nome di Oberoi, che strappa ogni vittima da quel destino improvviso. Il suo accentuato senso del dovere lavorativo continua nel suo girovagare per le cucine, dando ordini e mostrando freddezza nei confronti di Arjun. Il rapporto tra i due resta distaccato, seppur la preoccupazione del vecchio chef verso il giovane cameriere si evidenzia ad ogni pericolo che incombe nelle sue cucine.
E come a voler dar prova dell’amore di un padre verso un figlio, il finale toccante e misericordioso sottolinea che il muro freddo e scrupoloso dell’uomo era tutt’altro che una barriera invalicabile.
A questi si aggiunge l’amore di una coppia che si ritrova divisa dal cuore del loro neonato. Quest’ultimo in braccio alla babysitter Sally, in fuga da un piano all’altro con una tragica responsabilità per salvare la vita di un bambino e la sua stessa vita.
La volontà di una forza nascosta di un uomo come David, in combutta con il senso del dovere di un padre e la sua irrefrenabile rabbia nei confronti di coloro che gli puntano un fucile contro. Una prova di coraggio che matura sin dai primi istanti dell’attacco e che scatena nell’americano una reazione a catena sull’amore per i suoi cari.
LA DIVERSITÀ
D’altronde, dove l’amore cede all’impotenza della violenza, laddove il significato di terrorismo è colto nelle parole della religione, esiste un ponte che elimina ogni differenza etnica e religiosa, e mette a ridosso di un bivio il tragico destino di un innocente. Per Zahra, il suo amore verso il figlio è quadruplicato soltanto dalla consapevolezza di poter perdere tutto in un attimo. Non solo la sua creatura, ma tutto. Da un momento all’altro.
Zahra, cui fato è segnato dall’imprevedibilità del percorso, si ritrova a dover far ammenda al proprio coraggio, mentre la paura la sconquassa come un terremoto e l’aiuto di un alleato improvviso come Vasili giunge di buon auspicio per la sua famiglia e per se stessa.
In quei momenti di terrore, Zahra capirà che quel ponte invisibile (che aveva collegato la diversità religiosa con un matrimonio) torna a oscillare. Mosso dallo stesso terremoto della paura. E infine, sotto gli attimi del silenzio carichi di incubo, la preghiera giunge dalle labbra della donna, attraversa il muro del silenzio e riempie di speranza la sua eterna follia: pensare che tutto ciò – forse – da un momento all’altro finirà.
Il silenzio che Attacco a Mumbai mostra con le immagini è un oblio che mai dovrebbe essere rappresentato. Perché solo il coraggio, la forza e l’amore tenteranno di piegare l’orribile piaga della diversità. Una diversità che si accentua solo dal volere dell’uomo.
Sempre e in egual misura.