Non si torna dal regno dei morti, ma ogni tanto ci viene concessa un’opportunità. È sulla base di questo concetto che nel maggio del 1994 esce nelle sale cinematografiche Il corvo, diretto da Alex Proyas e basato sul fumetto di James O’Barr. Il film è presto diventato un cult e a oggi, dopo venticinque anni, continua ad affascinare il pubblico con i suoi temi ancora attuali e con le sue scenografie grottesche.
Il film narra la storia di Eric Draven, interpretato da Brandon Lee, un musicista rock che torna in vita per vendicare la propria morte e quella della sua fidanzata. I due infatti sono stati uccisi durante la notte del diavolo, ed esattamente un anno dopo un corvo si posa sulla tomba di Eric, riportandolo così in vita.
Un film che ha un retrogusto di tragedia e romanticismo, amarezza e dolcezza che si abbracciano dando origine a una storia che assume dei ritmi tanto tetri quanto splendidi.
Il corvo porta sullo schermo tutti i sentimenti dell’animo umano: il desiderio di vendetta interpretabile anche come una sorta di giustizia soprannaturale, l’amore totalizzante dei due fidanzati, la contraddizione interiore, l’amicizia.
Ciò si mescola a violenza, dialoghi pieni di ironia, frasi sul senso della vita e rimandi al decadentismo. Si ritrovano infatti tutti gli elementi tipici della corrente letteraria, a partire dalle immagini incupite di una città notturna in degrado, le parole amare, nonché il corvo stesso, che tanto ci ricorda Edgar Allan Poe.
La vendetta è il tema ricorrente, ma in questo caso viene percepita come buona, giustificata, pulita. Proyas ci mostra infatti un personaggio crudo, rabbioso e spietato, che segue però una morale. Ed è così che quest’essere sovrannaturale, diventa la reincarnazione di tutti gli uomini.
In una vita “immortale”, ecco che spunta l’animo umano dei mortali: la vendetta di fronte a un torto subito. Eric Draven si trasforma così in un antieroe, pronto a combattere il male, ripulendo le strade da tutto il marciume di cui sono popolate.
La violenza si tinge di feroce giustizia; tetra all’occorrenza, ma che rappresenta allo stesso tempo un richiamo alla vita, all’amore, alla giustizia. Quella giustizia che, anche se ha il sapore della vendetta, sa essere pulita. È la ricerca di quel sole che non splende mai, di quell’amore che non ha limiti. È la speranza che nessuno dovrebbe mai perdere: dall’oltretomba si può continuare a vivere nel cuore di chi ama!
Il corvo è un insieme di emozioni e di tematiche morali condite da una nota filosofica. Ogni parola detta, ogni dialogo e ogni azione, rappresentano delle vere e proprie perle di vita.
«Non può piovere per sempre».
Questa è la chiave del film. Una frase che sta a significare che alla fine il bene trionfa sempre sul male, che dietro le nuvole c’è sempre il sole e che dopo la notte c’è sempre un’alba.
Il concetto è reso a pieno anche dalle immagini della città che assume la forma di co-protagonista assoluta. Eric Draven infatti è un angelo della morte che si aggira, leggiadro e inarrestabile, dentro una città svuotata di vita, perennemente notturna e assediata dalla pioggia. Svuotata di anime e desolante.
Questa Detroit decadente e squallida, così come ce la dipinge con cura Proyas, è immersa in una notte perenne, priva di vitalità e di qualsiasi raggio di sole. Le uniche luci sono quella malinconica della luna e quella degli incendi rabbiosi appiccati dal Corvo.
Tra strade strette, tetti e guglie, Proyas ci fa respirare l’aria malsana di un inferno cittadino abitato da drogati, stupratori e poche anime pure (come la piccola Sarah e il poliziotto Albrecht). «Non può piovere per sempre». Non ci sono parole migliori per esprimere un pulsante desiderio di libertà da una città simile a un lungo incubo.
Il corvo quindi è un film romantico. Il romanticismo inteso come vera e propria poetica ottocentesca, riletta in chiave contemporanea. È un film romantico perché nasce dal dolore, perché è malinconico, oscuro, delicato e potente allo stesso tempo.
Ma come imposto dalla filosofia romantica, anche Il corvo ha fatto dell’arte uno strumento di sublimazione della pena, con un grande lutto a fungere da fonte di ispirazione.
Se è vero che il dolore è l’arma migliore per affrontare la vita, Il corvo conferma questa legge non scritta del romanticismo, con l’arte che prova a lenire il tutto. È un lamento funebre sfociato in un atto d’amore. Nato dalla morte per beffare la morte.
Ed è proprio sul bilancio vita/amore/morte, che la vecchia signora dotata di falce e vestito nero, ha teso uno scacco matto alla vita, con grande ironia.
Ucciso durante le riprese da un proiettile inesploso rimasto incastrato dentro una pistola caricata a salve, Brandon Lee se ne andava all’età di ventotto anni per colpa di un film dedicato all’immortalità. Un paradosso beffardo che ha reso Il corvo uno dei film più maledetti della storia del cinema.