Nell’epoca delle app, dei turni di lavoro su Whatsapp, dei lavori occasionali nei ritagli di vita, la fabbrica ha rotto gli argini e ha inondato la metropoli. La creazione di ricchezza ha tracimato mura e macchinari, per impregnare strade e persone; uomini-bicicletta in giro a consegnare pizze con un algoritmo come capo, o cartelloni pubblicitari in carne e ossa schiavi delle sponsorizzazioni social. Foucault non immaginava un futuro di instagram e facebook quando parlava di panopticon e di controllo sociale; così come Negri non credeva che la Ferragni potesse incarnare al meglio il concetto di controllo del Bios; ma come sorprendersi se l’eco della tragedia preconizzata da pochi visionari, risuona come farsa nella realtà e nella storia? Se il baffo del grande fratello è rimpiazzato da sorrisi paradisiaci nei salotti tv, e l’inferno sotterraneo di un deposito amazon è una Metropolis in salsa contemporanea?
Due città, una sotto terra e una sopra, speculari come l’inferno e il purgatorio della Divina Commedia; la prima ospita i dannati della metropoli, carne da cannone per fornaci ed altiforni, mentre la seconda è una scala verso il paradiso, riservata ai signori arroccati nella torre.
Metropolis (nell’omonimo film del 1927) è fabbrica e città insieme, impossibile dire dove comincia una e dove finisce l’altra; accettare di essere un operaio-macchina pur di abitare la metropoli, e lavorare nella catena di montaggio pur di vivere tra quelle mura. La Germania industrializzata di inizio Novecento, nelle mani di Lang, diventa uno specchio magico in cui il futuro si riflette nel passato; in cui la Ruhr della rivoluzione industriale diventa la Taranto della macelleria sociale. Buco nero carbone in cui affogare le dicotomie circadiane del proletariato; si diventa cittadini solo in quanto lavoratori, e la vita privata si immola per un ruolo pubblico, garantire la salvaguardia di Metropolis.
MOLOCH! Una parola, che risuona come una profezia sinistra; oracolo della distopia, della nuova venuta di un messia antropofago, sotto forma di ruote e macchinari. Divinità pagana a cui immolare vita e anima, in nome di una ciotola di riso e un tetto sulla testa, da cui trarre quel briciolo di energie per sopravvivere sotto il giogo meccanico. Ma nell’incubo di Freder Fredersen, nel sacrificio di centinaia di operai, non c’è solo il delirio demiurgico di Joh Fredersen, signore di Metropolis. C’è anche la storia di un’epoca: la rappresentazione dell’avvento di una nuova civiltà; l’assimilazione di riti e superstizioni risalenti all’alba dei tempi nella dialettica di nuove divinità, nate per fagocitare un immaginario. L’altoforno, quindi, come signore del fuoco nel Pantheon del capitalismo.
Così ha inizio in Metropolis il viaggio di Freder, dalla cima della montagna del purgatorio; giù a precipizio dal giardino delle anime beate fin nelle profondità dell’inferno. Illuminato dall’apparizione di Maria, madre di una generazione di piccoli bambin Gesù poveri e abbandonati, il giovane borghese decide di abbandonare le illusioni della sua vita per abbracciare il destino dei suoi “fratelli”. Si sostituisce allora ad un operaio per assaporarne il sacrificio; numero di matricola 11811, richiamo numerico al tempio massonico, soglia per intraprendere il viaggio iniziatico verso la conoscenza.
Strappare il velo di Maya della vita agiata per scoprire quel mondo sotterraneo, immergersi nei labirinti in cui il tempo smette di fluire, per essere rimpiazzato da una spirale di turni ai macchinari, in una veglia infinita nel tempio della carne e dell’acciaio.
L’unica consolazione per Freder è la visione di Maria: speranza incarnata che guida il popolo mostrando il petto impavido, come in un quadro di Delacroix. Maria che consola, che si cura dei bambini e delle donne, li tiene stretti nel suo grembo di mater dolorosa; Maria che lotta, che si espone agli occhi del nemico, portavoce della miseria degli schiavi di Metropolis.
Nelle viscere della città è sacerdote della rivolta, mentre racconta agli operai sfiniti da una giornata di lavoro la storia della costruzione della Torre di Babele, metafora della stessa Metropolis. Migliaia di lavoratori tenuti sotto il giogo del delirio di onnipotenza di pochi, costretti a sacrificarsi per innalzare un monumento alla superbia; obelisco di sottomissione e incomunicabilità nelle metropoli di tutto il mondo.
Giocare a diventare divinità, di fronte al crollo delle religioni ai piedi del nuovo dio denaro. Da questa aspirazione prende forma il sogno di Babele di Johann Fredersen: creare una scala che porti dal purgatorio fino al centro del paradiso. Allo stesso gioco appartiene anche la brama di superare la morte del professor Rotwang; un Doctor Frankenstein distopico, diviso a metà tra l’animo romantico, che affronta il sublime della morte con la scienza umana, e lo spirito moderno, che lo rende strumento di propaganda per guidare le masse. L’androide Maria sarà il megafono della discordia messo nelle mani del signore di Metropolis, che vuole spingere le masse ad autodistruggersi; per poi tramutarsi in demone sensuale nella sua danza della follia. Il Baphomet in groppa al mostro che ha dato il via al Ragnarok che tutto distrugge e tutto rinnova, in nome del pentacolo, simbolo di creazione e numero civico dello stesso Rotwang.
La Torre, che sia d’avorio, di Babele o di pellicola 35 millimetri, è l’elemento centrale di Metropolis. Nei tarocchi, il sedicesimo arcano ha le fondamenta che non la sostengono, che si ribellano. E il collasso della costruzione è la liberazione delle energie di questa base che vuole rendersi autonoma, scaricare dalle proprie spalle un peso eccessivo e ingiusto. L’esplosione di questo potenziale inespresso, in maniera inaspettata e improvvisa, porterà alla distruzione della torre, ma al tempo stesso mostrerà la via da seguire. Il crollo getterà le basi per creare un futuro più giusto e più adatto alle necessità di tutti. Nell’idea di Lang, questo sarebbe dovuto essere il finale del film; la proletarizzazione della borghesia, rappresentata da Freder, avrebbe fatto da apripista alla rivoluzione, come teorizzato da Marx.
Le conoscenze e i mezzi a disposizione del capitale fatti proprio dalla classe operaia, come ponte fondamentale per rovesciare l’ordine costituito.
Penso che ogni film serio, che descriva i contemporanei, dovrebbe essere una sorta di documentario del suo tempo. Solo allora, secondo me, si raggiunge un certo grado di verità in un film.
– Fritz Lang su Metropolis
Troppo futuristico come pensiero, o forse troppo fuori dagli schemi per un periodo di transizione come la Germania di Weimar; con l’avanzare dei fascismi nell’Europa a cavallo tra i conflitti mondiali, che sanciranno la tomba per tutte le rivoluzioni piccole o grandi in giro per il mondo, a partire dal biennio rosso. Coincidenze che porteranno alla scelta di un finale conciliatorio, poco in linea con l’afflato che anima le marionette della pellicola, con quello spirito di rivolta che brilla negli occhi della vera e sola Maria, e in aperta contraddizione con le idee del regista stesso, che ne ripudierà la conclusione.
Resta una testimonianza e una profezia sulle condizioni del lavoro e della vita nelle metropoli, che a distanza di quasi un secolo mantengono intatti potere evocativo e suggestivo.
Le leggenda, nella sua definizione, è un racconto che attraverso i simboli rievoca le radici di una comunità e, per mezzo di un processo di riconoscimento a assimilazione, rafforza i legami all’interno di un immaginario umano comune e condiviso.
Come la città che collassa vittima dei mali che l’affliggono, come l’androide che brucia sul rogo per aver sfidato dio, così anche il film – ultima torre iniziatica – collassa su se stesso nel suo finale. Lasciandoci con l’amaro in bocca di una rivoluzione fallita, l’ennesima, ma restituendoci la leggenda di una classe che non riesce ancora a diventare moltitudine, per limitarsi a rimanere massa: rabbiosa e irruenta, ma anonima e indistinta.