Brazil – Gilliam, Orwell e 1984 ½
“Bello il film, ma il libro…”. Una frase che ognuno di noi ha sentito centinaia di volte. L’adattamento su pellicola di un libro è un’operazione tanto frequente quanto rischiosa, che raramente genera un uguale apprezzamento tra le due opere.
Gli adattamenti cinematografici si distinguono, solitamente, in due macrocategorie. La prima è quella dei libri di successo adattati per il grande schermo, con l’obiettivo di sfruttare la fama della controparte cartacea come richiamo per il pubblico in sala. Nella seconda categoria ricadono quei film in cui un autore utilizza il cartaceo come spunto per creare un’opera impregnata della propria poetica, che si distacca dallo scritto originale. Nel primo caso spesso il risultato è buono, ma incapace di spiccare il volo e di assumere una propria identità separata dalla controparte cartacea. Dal secondo invece possono nascere i capolavori.
Terry Gilliam però non è mai stato un regista facilmente inseribile in qualsiasi tipo di categoria. Mettere le mani su un capolavoro come 1984 di George Orwell in un adattamento tradizionale sarebbe stata impresa incredibilmente ardua, come del resto dimostrano i due adattamenti più canonici del romanzo di Orwell, buoni film, ma non capolavori.
L’approccio del regista di Minneapolis alla materia è stato quindi del tutto originale. Se da un lato è evidente come Brazil (1985), in termini di struttura della storia e di ambientazione, prenda a piene mani dal libro da cui è ispirato, dall’altro l’intera opera è totalmente rivoluzionata.
Non è possibile definire il film come un adattamento, ma non si può neanche parlare di soggetto originale. Questa ambiguità è resa evidente dal titolo originariamente voluto dal regista, “1984 ½“. Gilliam, come del resto farà successivamente, viaggia su binari totalmente propri e questo si rivela essere il segreto del suo successo.
Le storie raccontate sono pressoché identiche in Orwell e Gilliam. Entrambe le opere sono ambientate in un futuro distopico caratterizzato da una dittatura totalitaria. Entrambe hanno protagonisti totalmente asserviti al sistema, con impieghi statali di medio-basso livello con scarse prospettive, ma di cui i due si dicono soddisfatti.
Winston Smith e Sam Lowry sono due personaggi del tutto prigionieri delle gabbie costruite dalle società in cui vivono, incapaci di liberarsi. Il primo è attratto da tutto ciò che trasgredisce le fredde regole a cui è sottoposto. Il secondo vive di sogni a occhi aperti, in cui si vede come un intrepido cavaliere che salva una fanciulla indifesa. I desideri di libertà di Sam e Winston sono messi in moto da due donne, ma in entrambi i casi i piani dei protagonisti vanno in fumo per via del tradimento di coloro che consideravano amici.
Questo scheletro comune alle due storie rende impossibile, anche per l’occhio meno attento, non notare quanto Gilliam abbia tratto ispirazione da 1984. L’ex Monty Python è però stato capacissimo di rivestire questa ossatura di una pelle completamente diversa da quella orwelliana. Si tratta di una naturale conseguenza dei quasi quarant’anni passati tra la scrittura del libro e la realizzazione del film.
Una distopia non è altro che una manifestazione, in prospettiva futura, delle paure di un autore legate al tempo in cui vive. Le ansie di Orwell al termine della seconda guerra mondiale non potevano coincidere con le critiche sociali di Gilliam negli anni ’80. Ciò si riflette nella descrizione delle società in cui i protagonisti vivono.
Il mondo di 1984 mescola le caratteristiche dei totalitarismi di estrema destra ed estrema sinistra, che avevano caratterizzato gli anni del secondo conflitto mondiale. Orwell racconta una società in cui c’è un controllo opprimente ed evidente da parte dell’autorità. Il partito è perennemente presente nella vita dei personaggi, che sono costantemente tenuti sotto controllo attraverso il sistema dei teleschermi.
A capo del partito c’è il Grande Fratello, figura forte e riconoscibile, pur se dalla dubbia esistenza, che chiaramente richiama le figure di Hitler e Stalin. Inoltre nel libro questo tipo di assetto politico è figlio di una guerra nucleare, la più grande paura di un uomo di fine anni ’40.
Buona parte di queste ansie non avevano più ragione di essere a quasi quarant’anni di distanza: il nazifascismo appariva ormai lontano. L’Unione Sovietica era ancora presente, ma lo spettro del comunismo diveniva giorno dopo giorno sempre più pallido. Un cittadino occidentale non temeva più di essere controllato con la forza in uno stato di polizia. Per questo le caratteristiche del mondo messo in scena da Terry Gilliam sono completamente diverse.
Brazil è figlio delle ipocrisie di un occidente completamente diverso da quello paventato da Orwell. Ipocrisie su cui Gilliam punta la lente con il suo concreto cinismo.
Il governo rappresentato da Brazil è tanto oppressivo quanto quello di 1984, ma in maniera estremamente più sottile. I cittadini non vivono nel terrore della psicopolizia, ma sono egualmente cancellati nella loro individualità. Ogni possibilità del singolo di deviare dal percorso già tracciato è annientata da fiumi di burocrazia. Si ricorre meno alla soppressione forzata di qualsiasi tentativo di ribellione, perché il sistema riesce, nella maggioranza dei casi, a renderli semplicemente impossibili.
Uno dei temi ricorrenti in 1984 è il controllo del pensiero. Lo stato elimina con tutti i mezzi possibili qualsiasi forma di dissenso. Anche qui il mondo di Brazil risulta essere più subdolo. I cittadini sono infatti solo in apparenza più liberi, ma in realtà sono portati naturalmente dal sistema a comportarsi come automi.
È questo il punto di divergenza più grande tra Orwell e Gilliam; il secondo, a differenza del primo, non ha alcun interesse ad attaccare comunismo e fascismo. La sua è una satira del consumismo che circonda la capitalistica società occidentale. In Brazil la possibilità di scegliere c’è, ma solo all’apparenza ed è questa apparenza a rendere meno necessari i metodi da Gestapo di 1984.
Nessuno mostra interesse per i massimi sistemi, ma tutti si limitano alla cura del proprio orticello, ai problemi quotidiani, sia autentici che inventati. Personaggio esemplare in questo senso è sicuramente la madre di Sam e il suo circolo di amiche. Queste sono infatti ossessionate dall’idea del ringiovanimento e su questo altare sono disposte a sacrificare la propria salute, sottoponendosi ai trattamenti più impensabili.
Sono schiave di problemi artificiosi, impegnate in una lotta impossibile e totalmente assorbite da essa.
Ulteriore cruciale differenza è lo spirito che permea le due opere: nonostante le già citate similitudini strutturali tra le due storie, il sentimento finale è differente. Anche qui è necessario guardare agli autori, perché quando scriveva 1984, Orwell era un uomo disilluso dal mondo in cui viveva, più spaventato che speranzoso. Lo stesso non si può dire per il Terry Gilliam degli anni ’80, una figura in chiara fase ascendente nella sua carriera, che si definiva un ottimista e vedeva attraverso questa lente il suo film. I due diversi finali, pur essendo all’apparenza simili, sono lì a dimostrarlo.
1984 è una storia di dannazione. Winston Smith non è un puro di cuore, ama l’idea della trasgressione e tutte le sue vicende sono mosse da questo desiderio. Ma non ha la forza di resistere alle torture a cui è sottoposto. Cede, tradisce Julia, qualsiasi suo istinto sovversivo viene annientato. Al termine del libro, Winston è un uomo corrotto. Il Grande Fratello ha vinto.
Brazil è invece un racconto di ribellione. Sam Lowry all’inizio del film non è cosciente di quanto il mondo in cui vive lo opprima. L’incontro con Jill gli permette di aprire gli occhi e infonde in lui un desiderio di rivolta, di libertà. Il suo piano fallisce, ma lui, a differenza di Winston, non viene corrotto. Non tradisce la donna, non torna a essere un elemento funzionale di quella distorta società. Rimane perso nei suoi sogni, ma ancora puro. Non può vincere contro il suo governo, ma il governo non può vincere contro di lui.
Oltre trent’anni dopo la sua uscita in sala, Brazil rimane uno degli esempi più lampanti della capacità di un autore di piegare una storia alla propria poetica. Al termine dell’esperienza con i Monty Python, qui Terry Gilliam dimostra per la prima volta la sua autorialità a livello individuale. Si mette a confronto con un’opera importantissima e riesce a lasciare la propria impronta.
Libero dalle imposizioni di un adattamento canonico, egli modella la materia prima a disposizione creando qualcosa di completamente nuovo, impossibile da confrontare con la materia stessa. In questo modo fugge da qualsiasi tipo di paragone, creando un capolavoro senza tempo, in grado di vivere di vita propria.