Tra i capolavori di Charlie Chaplin, Il Grande Dittatore (1940) può essere considerato uno dei più attuali in virtù del messaggio umanitario che comunica agli spettatori. Al di là della parodia satirica del nazismo e della violenza di quel periodo, il merito dell’attore britannico risiede probabilmente nella capacità di bilanciare elementi comici e gravi, dando vita a un’opera ineguagliabile.
Molti sono i momenti iconici del film, ma il monologo finale del barbiere ebreo scambiato per imperatore colpisce sicuramente, e a valorizzarlo contribuisce il fatto che la dialettica tra i due personaggi, interpretati da Chaplin, ben si sposa con il periodo storico durante il quale il film è prodotto, assurgendosi a bandiera di opposizione che fa da monito ai terribili eventi che in quegli anni avrebbero colpito l’Europa.
Il presente articolo vuole riflettere sulla scena del monologo in relazione a un carteggio del 1932 tra Albert Einstein e Sigmund Freud, nel quale i due pensatori si confrontarono sul senso della guerra. A ispirare questo parallelismo non è solo la somiglianza tra i due messaggi, ma anche la dimensione profetica nella quale sono immersi: entrambi sembrano prevedere, sebbene in modi diversi, il Male della Seconda Guerra Mondiale, auspicando un cambiamento nelle relazioni tra gli uomini.
Il Grande Dittatore – Governare: il mestiere del disprezzo

Charlie Chaplin: «Pensiamo troppo e sentiamo poco. Più che macchinari, ci serve umanità, più che abilità, ci serve bontà e gentilezza. Senza queste qualità la vita è violenza, e tutto è perduto».
Ne Il Grande Dittatore difficili sono le condizioni di vita che il grande dittatore Hynkel ha imposto agli ebrei della Tomania, rendendo impossibili lo sviluppo individuale e la prosperità per la comunità; mentre prepara la sua campagna di aggressione al mondo, il ghetto è invaso dai suoi brutali soldati, contro i quali Schultz, Hannah e gli altri abitanti non possono fare nulla.
I temi affrontati sono tanti e complessi, ma se ce n’è uno che il film di Chaplin approfondisce, è proprio la realtà conflittuale dei rapporti tra gli uomini e il legame indissolubile tra dominanti e dominati. Lo stile satirico dell’artista britannico non fa che risaltare le assurdità del mondo paradossale in cui viviamo, dove il progresso e l’inciviltà sono direttamente proporzionali.
Ciò che risulta chiaro alla fine del film è il fatto che, se viene meno un posto nel quale rifugiarsi, sfuggire alla brama di conquista di un uomo e di una massa diventa impossibile: per Chaplin l’umanità che ci serve, dunque, è il servizio che l’umanità può fare a se stessa, donando aiuto piuttosto che violenza.
La vita rappresentata nell’opera viene a creare un’immagine ambivalente: da un lato c’è il grande dittatore nel suo sfarzo, dall’altro il barbiere e gli altri ebrei nella loro miseria, disprezzati da coloro che li governano. Cosa può spezzare l’ingiustizia di tale ordine (in)naturale delle cose?
Il Grande Dittatore – Sentire: il mestiere della vita

Charlie Chaplin: Non voglio governare, né conquistare nessuno, vorrei aiutare tutti se possibile: ebrei, ariani, uomini neri e bianchi. Tutti noi esseri umani dovremmo aiutarci sempre, dovremmo godere soltanto della felicità del prossimo.
L’abilità con cui Charlie Chaplin presenta un’idea antitetica rispetto a quella di Hynkel è disarmante: al di là dei momenti comici, i comportamenti che risaltano dell’ebreo sono quei genuini segnali di altruismo e partecipazione empatica con l’Altro, di cui il grande dittatore non è capace.
Un altro fattore che viene in soccorso del ghetto ebraico è la conoscenza tra il barbiere e l’ufficiale Schultz, compagni durante la prima guerra mondiale e cospiratori nel presente: quando il loro attentato alla vita del dittatore viene vanificato e i due mandati in un campo di concentramento, la fine sembra essere giunta per tutti gli ebrei della Tomania, soppressi definitivamente dalla sete di potere di Hynkel.
Com’è noto la fortuna aiuta gli audaci, e audace è il tentativo di evasione dei due orchestrato da Schultz sfruttando l’incredibile somiglianza tra il barbiere e il grande dittatore. Il momento propizio allo scambio di personalità tra Hynkel e il povero barbiere coincide con l’invasione dell’Ostria, che si conclude con il primo discorso pubblico del dittatore al popolo appena conquistato.
La tensione che sale negli spettatori secondo dopo secondo è la stessa avvertita dal barbiere, che comprende di essere vittima di un malinteso nel quale intrappolato: l’unica via per uscire è fare il discorso pubblico. Ed è allora che avviene la magia.
Dal nulla, Charlie Chaplin sfodera la retorica di un leader nazionale, un manifesto di pace e virtù in nome delle quali liberare gli oppressi dalla loro condizione di vittime; emozionante è non solo la situazione imposta dalla scena (in primo piano davanti ai microfoni), ma anche e soprattutto lo scarto tra questa scena e le precedenti, nelle quali il barbiere era goffo e imbranato.
Il Grande Dittatore – Perché la guerra? Manifesto di una civiltà diversa

Charlie Chaplin: «La
domanda è: c’è un modo per liberare gli uomini dalla fatalità della guerra?
È ormai risaputo che, col progredire della scienza moderna, rispondere a questa domanda è divenuto
una questione di vita o di morte per la civiltà da noi conosciuta, eppure, nonostante tutta la buona volontà,
nessun tentativo di soluzione è purtroppo approdato a qualcosa».
Quando Einstein scrive a Freud il principio di questo carteggio sui temi della guerra e della civiltà siamo nel 1932, e i segnali che anticipano cosa sarebbe accaduto di lì a dieci anni sono già presenti. Sono passati tre anni dalla pubblicazione del saggio di Freud sul Disagio della civiltà, e i temi affrontati dai due intellettuali sono gli stessi che Il Grande Dittatore propone nel monologo di Chaplin.
Partendo dal contrasto tra diritto e violenza, il padre della psicoanalisi cerca di offrire al genio della fisica una parziale risposta alle questioni sollevate: la violenza diventa diritto quando l’unione di una molteplicità la garantisce come soluzione valida.
La comunità appena nata per essere mantenuta deve assicurarsi che norme e vincoli affettivi vengano trasmessi di membro in membro affinché non si producano nuovi conflitti d’interessi e la legge venga rispettata. Per Freud è chiaro che le circostanze reali non coincidono con quelle ideali, motivo per cui la comunione tra gli uomini diventa contrasto quando due forze entrano in disaccordo.
Ricorrendo al dualismo pulsionale tra Eros e Thanatos, frutto dei suoi contributi sulla metapsicologia, Freud cerca di spiegare ad Einstein le ragioni della violenza umana in virtù dell’incontrollabile quota di aggressività inconscia di cui ciascuno è portatore, e giudica naturale che la vita e le attività umane siano alimentate dalla dinamica tra queste due energie.
Ciò che Freud auspica in conclusione del saggio, connettendosi in tal modo con Chaplin, è che a prevalere sia Eros, che unisce i popoli, e non Thanatos, che distrugge la vita.
Freud: «So di dovermi spiegare, altrimenti non sarò capito. Ecco quello che voglio dire. Da tempi immemorabili
l’umanità è soggetta al processo dell’incivilimento (altri, lo so, chiamano più volentieri questo processo:
civilizzazione). Dobbiamo ad esso il meglio di ciò che siamo divenuti e una buona parte di ciò di cui soffriamo. Ora, la guerra contraddice nel mondo più stridente tutto
l’atteggiamento psichico che ci è imposto dal processo civile, così che dobbiamo ribellarci contro di essa:
semplicemente non la sopportiamo più, non è soltanto un rifiuto intellettuale e affettivo, in noi pacifisti è
un’intolleranza costituzionale, per così dire il massimo della idiosincrasia. E mi sembra vero che le
degradazioni estetiche della guerra non hanno nel nostro rifiuto una parte molto minore delle sue crudeltà».
Resistere significa lavorare per un mondo migliore: sia Chaplin che Freud condividono questa idea: solo recuperando il nostro rapporto con la civiltà possiamo limitare i danni causati dall’aggressività umana.