Django Unchained – La saga del Sigfrido foucaultiano

Carmine Esposito

Ottobre 6, 2019

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In statistica, la devianza è un numero. Asettico e sterile, serve a misurare la dispersione dei dati; ovvero, quanto la realtà palpabile si discosti dal mondo perfetto di una media aritmetica, fatto di normalità e ordinamento. Un cifra che serve a scovare gli outlier, quelle osservazioni inspiegabili, fuori da ogni previsione e analisi, che ugualmente esistono. Dati che sfidano leggi e convenzioni, meteore pronte a franare sulla gaussiana di vetro sotto cui il mondo intero si rifugia; pronte a distruggere l’universo del senso comune, sotto i colpi di un’esistenza diversa, effimera ma ugualmente refrattaria. Numeri dietro cui si nasconde un nuovo sentire, un nuovo sognare. Reietti statistici che ci regalano l’illusione o la speranza di un altro futuro; esempi che spalancano le porte dell’immaginario comune con il grimaldello dell’impossibile. Esempi come quello di un contadino nello spazio, o di un Django a cavallo.

DR. SCHULTZ – Django is spelled with a silent “D”, is it not?
DJANGO – Huh?
DR. SCHULTZ – Why not. Yes, that does add a little character.

Django è uno schiavo. Sbattuto da una piantagione all’altra, non ha niente se non il proprio corpo. Ma anche quello, a giudicare dai segni sulla schiena, è a disposizione delle voglie e dei capricci di chiunque. Non conserva nulla per sé, nemmeno il suo nome gli appartiene; glielo hanno affibbiato un giorno, senza neanche spiegargli come scriverlo. In fondo, che senso avrebbe avuto? Uno schiavo non impugnerà mai una penna e, al massimo, nella sua inferiorità, può imparare a tracciare una “X”. Proprio per questo, la domanda del Dr. Schultz lo coglie alla sprovvista. Come dirà un altro ribelle come lui qualche anno dopo, quello non è il suo nome.

Django

Non l’ha scelto lui, né i suoi genitori; non rappresenta la sua famiglia o la sua storia, né il suo retaggio. È solo un nome da schiavo, al pari di un numero identificativo, con un minimo di fantasia in più; è una convenzione verbale, che altri usano al posto suo, per scambiarsi la sua carne e la sua forza. Quel nome, è solo la rappresentazione del suo status di subalternità, per cui non capisce perché quel personaggio curioso gli chieda come scriverlo. Non si rende conto, che aggiungendo una “D” muta con una nota di carattere nel nome, sta compiendo il suo primo atto veramente rivoluzionario; il primo passo per liberarsi dalla schiavitù, mettendo nel nome un morso della propria personalità.

MR. BENNETT – It’s against the law for niggers to ride horses in this territory.
DR. SCHULTZ – This is my valet, and my valet doesn’t walk.
MR. BENNETT – I said niggers…
DR. SCHULTZ – His name is Django, he’s a free man, and he can ride what he pleases.
MR. BENNETT – Not on my property, around my niggers he can’t.

Django non riesce a capire cosa spinge quest’uomo barbuto e immotivatamente cordiale; gli sembra solo un po’ pazzo, in questa sua pretesa di trattarlo da pari a pari. Di regalargli un cavallo, dei vestiti, di liberarlo e proporgli un accordo, quasi come se il colore della pelle non fosse altro se non un particolare trascurabile. Fino ad oggi tutto gli è stato negato proprio per quello; non poteva entrare nelle case dei padroni, non poteva avere dei vestiti decenti, non poteva cavalcare, solo perché nero. Secondo la legge e le convinzioni di tutti, i negri non possono cavalcare; non è per loro, perché geneticamente asserviti. E il cavallo, si sa, ha bisogno di polso fermo e attitudine al comando.

Django

E invece, questo tedesco tutto sale e pepe gli ha prima fatto dono della libertà, e poi gli ha proposto una collaborazione come cacciatore di taglie; mettendolo al suo fianco come sostegno, nella caccia ai fratelli Brittle nascosti nella piantagione di Spencer Bennett. Ha annullato in poche ore un castello di idee ben radicate nella mente di Django, per aprirgli le porte di un mondo diverso. Un mondo di uomini liberi, di sogni liberi, non alla portata dei padroni come Bennett; esseri indegni che si riparano dietro le leggi per affermare un potere meschino. Il padrone di casa non si preoccupa tanto di chi assolda come guardie, non importa che siano ladri o assassini; è molto più impegnato a impedire che i suoi schiavi possano montarsi la testa.

Alla vista di un nero a cavallo, di un nero che uccide un bianco, che viola le leggi dell’uomo e di dio, gli schiavi rischiano di convincersi di essere uguali ai padroni. Django ha smesso di essere un subalterno, per essere deviante nella sua libertà; ora è un outlier, un elemento che cozza con la realtà in maniera distruttiva. È il seme del crollo della civiltà dei Bennett e dei Brittle, la crepa nei pilastri della supremazia bianca. In cima a quella sella non c’è solo un uomo, c’è un immaginario di uguaglianza ed emancipazione, che rimbomba nelle menti di tutti. Si rispecchia nella paura dei padroni, privati di un potere più forte della violenza, il conformismo; si riflette nella curiosità degli schiavi, che danno un nuovo orizzonte ai loro sogni.

Django

Non ha paura di affermare la sua verità Django: Bennett e i suoi amici dovranno accettarla, che lo vogliano o meno; a costo di inculcarglielo a forza nella testa, con un martello o un proiettile, non importa. Il percorso ormai è tracciato, e lo schiavo che una volta nulla chiedeva alla vita se non una minestra calda, ora vuole tutto; vuole godersi la libertà, e riprendersi un presente lontano. Novello Sigfrido foucaultiano, vuole ritrovare Broomhilda nel suo viaggio verso il futuro; sfidando le fiamme delle convenzioni che lo circondano, per poi uccidere il drago borghese che tiene sotto il giogo della pauraa le carni e i sogni di tanti come lui.

MR. CANDIE – Why are niggers man’s contented servant? Why don’t niggers rise up and kill the whites?

L’oggetto del desiderio si trova a Candyland, la tenuta di Calvin J. Candie, uno dei più ricchi proprietari di tutto il Mississippi. Impresa non semplice, quella di catturare l’attenzione di un simile uomo d’affari, con le vicende di uno schiavo liberato e sua moglie; ma il signor Candie ha un punto debole, la passione per i combattimenti tra schiavi. E allora i due killer decidono di mettere in scena un astuto gioco di specchi; fingendosi acquirenti di lottatori, pronti a spendere una cifra ridicola per il negro giusto, muovono i fili per incontrare Calvin e introdursi nella sua immensa tenuta.

Django decide di vestire i panni del negriero. Reietto tra i reietti, odiato dai neri come serpe in seno alle proprie radici, ma anche dai bianchi che mal ne tollerano l’autonomia. Non è un dipendente, è un consigliere; non è un sottoposto di Schultz in questa operazione, ma suo pari, quasi un prolungamento della sua mente. Ha la stessa libertà di cui gode Stephen, il maggiordomo di Calvin J. Candie, il suo negro da giardino; ma l’anziano si guarda bene dal manifestare i suoi giudizi in pubblico. Si mantiene sempre in una posizione di sottomissione rispetto al suo padrone, legato a catene invisibili che lo relegano in una prigione di subalternità e inferiorità introiettata.

La differenza tra i due è l’autonomia, la forza della loro voce. Al tavolo delle trattative, Django è la mente, Schultz il portafogli; il giudizio che conta è quello del nero, il bianco deve solo sganciare il denaro. Dalla parte opposta, Stephen fa il ventriloquo, infilando in bocca a Calvin le sue parole e i suoi pensieri; in un capovolgimento cromatico, è uno Iago nero e mellifluo, che alle spalle di Otello ne fomenta la rabbia e scatena la furia distruttrice. Il domestico ha scoperto il tranello, ha capito che il vero obiettivo è Hildi, non un mandingo, e infrange il gioco di specchi dei due cacciatori di taglie. Hanno osato troppo, come Dedalo e Icaro si sono spinti troppo in alto e troppo lontano, e ne hanno condiviso il triste destino. Il dottor Schultz precipita al suolo senza vita, e Django prigioniero tra le spire del labirinto di Candyland.

STEPHEN – When you get there, they’re gonna take away your name, give you a number and a sledgehammer, and say “Get to work”!

Le tenuta della famiglia Candie è solo l’ultimo avamposto di un’istituzione totale, è il naso rosso di un clown che nasconde in fondo alle proprie viscere le paure ataviche dell’uomo, e le peggiori pene dell’inferno. Django è di nuovo in catene, di nuovo prigioniero; stavolta non più schiavo di un padrone, ma ingranaggio del sistema. Il gran consiglio dei Candie ha sancito la sua fine: inviarlo come lavoratore nelle miniere. Per Stephen è la fine peggiore per un uomo, il lavoro e la miniera come prolungamento del carcere, Panopticon sociale per antonomasia. Una punizione straordinaria, per una crimine straordinario; non va punita solo la morte di Calvin J. Candie, ma va distrutto ciò che Django rappresenta. Un negro che si rifiuta di stare al posto che hanno scelto per lui.

Nel passaggio dalla società medievale, dove la giustizia è potere personale amministrato dal re, alla società moderna, la pena corporale non basta più. Non è abbastanza disporre del corpo dell’essere umano, per esercitare fino in fondo un potere deterrente; non bisogna più sancire la legittimità di un potere umano, ma costruire un immaginario sociale.

Nella migliore tradizione foucaultiana, ciò che è fondamentale per il controllo dell’uomo non è piegarne la schiena, ma l’immaginazione. Il buio di una miniera per inghiottire il corpo e l’anima di Django, e per annullarne anche il nome e il ricordo. Gettarlo in una fabbrica sconosciuta, trasformare il nome in un numero, tramutare l’uomo in macchina alienata, per annullarne l’esempio in un baratro di anonimato.

Per sopravvivere ad una realtà così soverchiante, bisogna abituarsi ad una vita non fascista, per seguire la lezione del filosofo francese. La libertà è una scelta individuale e quotidiana; bisogna uccidere giorno dopo giorno il fascista e il subalterno che vive dentro ognuno di noi. Lo sa bene Django, che ogni giorno si ricorda di cos’era e cosa non vuole più essere; lo ha capito quando ha visto Stephen, quando ne ha incontrata la storia e ne ha assaporato la meschinità. Deve uccidere il negro da giardino che alberga dentro di lui, giorno dopo giorno, ora dopo ora. Quell’anima subalterna e asservita, l’anima di una classe costretta ad essere schiava.

DJANGO – All black folks, take ten steps away from the white folks. Not you Stephen, you’re right where you belong.

Uccidere il maggiordomo è un dovere simbolico, una catarsi. Distruggerne il corpo in mille pezzettini con la dinamite, per spargere all’aria le ceneri di quello che la sua classe ha rappresentato per troppo tempo. Uccidere Stephen, e con lui sotterrare il corpo marcio di leggi e stereotipi che vogliono i neri sottomessi sempre, pur nella loro libertà individuale; per distruggere scienza, giustizia, educazione che hanno sancito il sacrificio di una razza, ad uso e consumo di una borghesia sfruttatrice. L’idra capitalista è agli albori nel vecchio west, le sue infinite manifestazioni sono di là da venire; ma non c’è nulla che questo Sigfrido nero possa temere ormai, reso invincibile dal sangue del drago ucciso ed eterno da un esempio immanente.

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