C’era una volta l’anno 2019.
Lavoro grafico by Monia Marsigli.
365 giorni, 8760 ore, 31 milioni di secondi e tanti, tanti film. Il tempo compreso in un anno diventa sempre facile da identificare nella memoria. Sì, un anno è il periodo compreso tra gennaio e dicembre, ma è composto anche da momenti, storie da raccontare nel futuro, da foto, da fotogrammi, da frammenti dell’oggi. Per un cinefilo degno di tale nome i film usciti nel corso di dodici mesi hanno la stessa funzione. Segnano indelebilmente la mente dello spettatore, legandosi indissolubilmente con i ricordi della sua vita.
Quante volte ci siamo innamorati guardando certe scene, distogliendo lo sguardo dallo schermo per incrociare quello altrui? Quante volte ci siamo baciati, per poi descrivere di nuovo la scena ai nostri amici, con la stessa cura e passione impressa nell’inchiostro di una sceneggiatura?
Certe scene, certe manciate di minuti di pellicola restano impresse nella mente al pari dei ricordi più vividi, e ogni anno porta nuovi film, nuove perle con nuovi ricordi da immortalare.
Per chi osserva la storia e il progresso del cinema in quanto forma d’arte, ogni anno diventa significativo, se ridotto a una singola istantanea; una fotografia da aggiungere a un album in constante espansione. Il 1939 dell’Epoca d’Oro di Hollywood, il 1967 ribelle e anticonvenzionale, il 1994 teatro del dirompente debutto del cinema indipendente che sfocerà nell’esistenzialismo millenario del 1999…
Ogni anno diventa tassello di un mosaico sempre più complesso e variegato, e con la fine del 2019 ne aggiungiamo un altro, tinto di rosso e nero, di nostalgia e di amara consapevolezza.
Se si vuole cercare un fil rouge che lega tematicamente i film più importanti del 2019, emerge un trend: un ritorno al passato guidato da un’atteggiamento cinico, senza compromessi, o scrupoli, ma nostalgico nonostante tutto. Un passato mostrato con occhi disillusi, dove la gloria dei bei vecchi inizia a perdere lustro e si mostra sempre più brutale. L’esempio più lampante è l’ultima fatica di Quentin Tarantino, forse il film più discusso dell’anno, prima, durante e dopo avere fatto capolino nelle sale.
Il 1969 di C’era una volta a Hollywood mostra una città divisa tra luce e ombra, tra glamour e squallore. Le stelle del cinema sono insicure, frivole, carismatiche, ma egocentriche. Rick Dalton, interpretato dal sempre brillante Leonardo DiCaprio, rappresenta tanto le qualità delle stelle della Hollywood degli anni ’60 quanto le debolezze che portarono all’avvento della Nuova Hollywood.
Tutto avviene sotto l’ombra gettata dallo spettro di Charles Manson, dei suoi seguaci e dei loro orribili omicidi.
Tarantino racconta con l’occhio di un cinefilo ormai ben rodato, nostalgico di quell’era, di uomini dalla mascella squadrata e dallo sguardo di ghiaccio, ma consapevole del perché quell’era doveva morire. Anche se, come al suo solito, gioca con l’idea di revisionismo storico, riparando la morte di Sharon Tate, l’evento che segna bruscamente la fine degli anni ’60, da Peace and Love a Drugs and Death. Un ritocco necessario per il regista, per rimediare alla realtà che ha intaccato ciò che più aveva a cuore.
Nostalgia, ma con la consapevolezza che c’è qualcosa di marcio in Danimarca.
Parlando di marcio, pochi film nel 2019 hanno rappresentato i lati più oscuri della società e dell’animo come La Casa di Jack di Lars Von Trier e Joker di Todd Philipps. Da una parte Jack, l’assassino esteta, guidato dalla propria ambizione di un viaggio di stampo dantesco, di violenta esplorazione. Dall’altro Arthur, reietto sociale la cui storia si ispira non alle opere del poeta italiano, ma del Martin Scorsese di Taxi Driver e Re per una Notte.
Ambientati entrambi a cavallo tra gli anni ’70 e ’80, in un’America incurante, cinica e apparentemente senz’anima, dove uomini fortemente disturbati sono lasciati soli nell’anticamera della propria mente, alle prese con le loro paranoie, le loro insicurezze e le loro perversioni.
Jack ripercorre la storia dei suoi “incidenti” con fare riflessivo, cercando di unirli tematicamente come espressione del suo percorso artistico. Arthur, invece, non è l’uomo in controllo della narrativa. L’omicidio di tre arroganti impiegati della Wayne Enterprises fomenta un movimento di protesta, di cui Arthur diventa ingenuo artefice. Gotham City eterna analogia delle ombre di New York City è un barile di polvere da sparo, e Arthur ne è la miccia. La sua psicopatia è inasprita da una società già sull’orlo del crollo, e si sa, la follia è come la gravità: basta solo una spinta.
Jack invece non è influenzato dal suo contesto, poiché la noncuranza dell’ambiente che lo circonda gli consente di farla franca per anni, accumulando uccisioni e cadaveri nel proprio freezer.
Virgilio lo guiderà all’inferno, ma non c’è Beatrice a indirizzarlo sulla retta via, e così l’opera continua.
Anche il già citato Scorsese ha a sua volta contribuito a questa violenta rivisitazione. The Irishman rappresenta forse la somma degli anni che il regista ha speso nella reinvenzione del Gangster Movie, mostrando tutti i brividi lungo la schiena così come il peso che grava sulle vite dei personaggi che ha orchestrato. Robert De Niro, Joe Pesci e i loro partner in questa epopea invecchiano sullo schermo, grazie a un moderno prodigio tecnologico, e invecchiano senza gloria od orgoglio. Il loro passato violento fa sorridere lo spettatore, ma sullo schermo si notano solo le rughe attorno agli angoli della bocca. Nel 2019 non si sorride più con il senno di poi.
Ovviamente cercare di creare una narrativa coerente e inattaccabile da una manciata di film usciti in un anno è un esercizio impossibile tanto quanto infantile. Si gioca come un bambino davanti a un mare di LEGO, cercando di creare un’astronave per volare verso Marte.
L’idea del 2019 come un anno di cupa nostalgia è solo un’idea tra le tante. Perché ci sono altre narrative che permeano i giorni appena trascorsi.
All’infuori di questo fil rouge nostalgico vanno annoverate le altre storie che sono emerse quest’anno. Il successo oltreoceano senza precedenti del cinema sudcoreano, con Parasite come pioniere e culmine di un movimento in costante crescita a livello di popolarità e di valore artistico.
Il genere horror che riparte da nuovi ispirati autori, tramite i lavori di Jordan Peele con Us, di Ari Aster con Midsommar, e di Robert Eggers con The Lighthouse. La fine di un’era narrativa per il blockbuster fumettistico, con Avengers Endgame che chiude la decennale Saga dell’Infinito e Joker che irrompe sulla scena, potenzialmente aprendo le porte all’idea di un Cinefumetto d’autore.
Queste storie hanno dominato i titoli di testa di giornali cinematografici su ampia scala, inclusi i nostri. Perché se il cinema prende forma nel corso di un anno, se diventa umano attraverso le nostre esperienze, la sezione Nuovi arrivati racconta i battiti del suo cuore, e le vibrazioni che si diramano in tutto il corpo di quest’arte.
Avrà anche un numero, la Settima Arte, ma per noi è infinita. Così proviamo a stringere l’infinito tra le nostre dita, a imprimere un anno nella nostra memoria. Insomma, scriviamo di cinema, in quanto impresa futile, infantile, nobile e assolutamente necessaria.