Sorry, we missed you.
As soon as you’re born they make you feel small
By giving you no time instead of it all
Till the pain is so big you feel nothing at all
A working class hero is something to beJohn Lennon (working class hero)
Caro Diario, mi chiamo Ricky, abito a Newcastle e ho diversi anni. Ho smesso di contarli tempo fa, in un momento in cui i compleanni hanno smesso di avere un senso, fagocitati dalle scadenze del mutuo e delle bollette. Lavoro per la PDF, sì, la società di consegne del bigliettino con su scritto Sorry we missed you. È vero, è carino. È tanto dolce quel foglio di carta come è tremendo questo lavoro. Faccio il corriere da poche settimane, anche se sembra passata una vita tanto sono stanco. Mi sembra quasi di esserci nato, dentro quel furgone e di doverci morire, un giorno o l’altro. È il centro del mio mondo, la linea del mio orizzonte.
Ho iniziato questo lavoro armato delle migliori intenzioni. Volevo finalmente diventare imprenditore di me stesso, smetterla di avere un capo col fiato sempre sul collo e organizzarmi cosa fare in autonomia. Ho comprato a posta il furgone più costoso, sicuro che nel giro di poche settimane, giusto il tempo di ingranare, avrei macinato chilometri e sterline come un fiume in piena. Un po’ come si vede anche alla tv. Ormai è pieno di programmi dove dei tizi qualsiasi si inventano lavori e guadagnano cifre assurde. Rigattieri, cercatori d’oro, pescatori di tonno; cos’ho io meno di loro? Col mio furgone metto in comunicazione il mondo, consegno oggetti provenienti dalle fabbriche di tutto il mondo ai bravi cittadini di Newcastle.
All’inizio sembra tutto facile. Lavoro nuovo, furgone nuovo, nessuno che ti dica cosa fare e quando farlo. Più o meno. Perché l’unico strumento del tuo lavoro è come una frusta a distanza. Il lettore ottico non serve solo per scannerizzare i pacchi. Ti dice quanto tempo devi impiegare per consegnare, che strada devi fare, controlla se ti muovi e se ti fermi per pisciare, è un Beep costante, meglio farla nella bottiglia. E il pagamento? Solo a consegna avvenuta. Per ogni biglietto simpatico, con su scritto Sorry We Missed You, a me mancano dei soldi. Sembra di girare in tondo, come in cella.
Credevo di liberarmi della schiavitù del lavoro, del lavoro cieco e sotto padrone. Invece mi trovo più invischiato di prima. Tra le rate del furgone, le multe, le consegne mancate, a stento riesco a guadagnare abbastanza per vivere. Al primo imprevisto, alla prima malattia o al primo infortunio sono fottuto. Rischio di buttare l’intero mese di lavoro nell’immondizia, per recuperare. Non puoi chiedere ferie o prenderti giorni di festa senza pagare una penale o un sostituto. Non puoi scegliere una strada, un percorso, un’organizzazione delle spedizioni senza farti martellare di Beep dal lettore. E in più, danni a merce e mezzi sono a carico tuo. Imprenditore di te stesso un cavolo, questo è un furto bello e buono.
Non sono mai stato veloce di cervello, è vero, ma a questo ci arrivo anch’io. Una volta, chi decideva di avviare un’attività succhiava anche il midollo dalle ossa dei suoi dipendenti, ma almeno si assumeva anche rischi e capitale. Adesso invece, con la scusa della crisi e del lavoro che non c’è, ci catturano per fame come bestie in gabbia. Questi avvoltoi non hanno rinunciato a macellarci di lavoro, a costringerci a orari massacranti e condizioni inumane. Non hanno smesso di decidere a che ora farci dormire, a che ora mangiare o quando possiamo pisciare. Ma in più, ci chiedono di rischiare il culo al posto loro. I tuoi soldi, le loro regole.
Questo mondo non è tagliato per persone come me, per quelli che scelgono la via più difficile. Quella della gentilezza, dell’umanità. Così facendo, però, mi ritrovo come mia moglie Abby, invischiato nelle vite degli altri, nei problemi degli altri. Metto altri ostacoli sulla mia strada, ostacoli che un algoritmo o un computer non possono comprendere. Come la vergogna di fare la pipì in una bottiglia, per strada. L’altro giorno mia figlia me l’ha chiesto: “Papà, se riescono a considerare sempre tutto in questo lettore, perché non prevedono anche il tempo per andare in bagno?“.
Perché non vogliono, è questa la realtà. Perché ci devono togliere tutto, non solo il tempo e la forza, ma anche la dignità e l’orgoglio; devono cambiarci nel profondo, nelle abitudini e nell’istinto. Questo è il mondo dei Maloney, il santo patrono dei luridi bastardi; è la realtà di esseri ciechi e sordi a lamentele e problemi. Cinici e attenti solo alla statistica e al profitto, il magazzino è la loro chiesa, il tempio della nuova santa trinità: prezzo, consegna e articolo. Non c’è posto per quelli come me, che non riescono a essere altrettanto spietati. Sorry We Missed You, io sono come quella scritta su un cartoncino, pieno di speranza e di cura.
There’s room at the top they’re telling you still
But first you must learn how to smile as you kill
If you want to be like the folks on the hill
A working class hero is something to beJohn Lennon – working class hero
Alle volte, quando dormo, faccio sogni assurdi. Nell’unico momento in cui sono davvero solo con me stesso, in cui gli automatismi pavloviani che mi ha inculcato il lavoro non hanno presa su di me, e mi sento davvero libero. Sogno di giorni infiniti a far consegne, a correre da un capo all’altro della città bussando a centinaia, migliaia di citofoni e campanelli. Dietro a ogni porta, però, non trovo degli sconosciuti, ma i miei familiari. C’erano lì mia moglie e i miei figli, ognuno con un bigliettino in mano con su scritto Sorry We Missed You.
Non importava quante porte fossero, quante strade dovessi percorrere o quanto lontano mi spostassi. Immancabilmente, lì ad aspettarmi su ogni uscio c’erano di volta in volta mia moglie Abby o mio figlio Seb o la piccola Liza, con in mano quel pezzettino di carta blu da consegnarmi. “Ci sei mancato, papà”, questo volevano dirmi. Non potevo fare il padre e il marito, troppo impegnato a correre come un criceto nella ruota del consumismo. Una mosca impazzita, fuori controllo, dritta giù da un precipizio di merda.
“Sorry We Missed You”, mi scrive Abby. “Mi sei mancato quando mi spalmo il Vicks sotto alle narici per non sentire la puzza di chiuso delle esistenze abbandonate di cui mi curo. Non c’eri quando ero impegnata a fare da madre ad anziani regrediti allo stadio di lattanti, piuttosto che poter fare da madre per i miei figli. Non c’eri per sostenermi, mentre vagavo da una casa all’altra, una vita intera buttata sui mezzi pubblici. Eri in giro per Newcastle, mentre educavo i nostri figli via cellulare, senza un minimo di calore. E il cuscino era sempre freddo, quando ti aspettavo per avere una carezza tra i capelli, un minimo di amore“.
Il lavoro di mia moglie è una finestra aperta sul futuro. Si occupa di quegli anziani i cui figli sono troppo impegnati per curarsene. Come noi con i nostri figli in fondo. Alla famiglia dedichiamo gli avanzi di noi stessi, quello che non usano gli altri in termini di tempo, forza, pazienza. Ci ritroviamo ad educare degli estranei, di cui non conosciamo nulla, né le passioni né i sogni. Così come loro non ci conoscono, e non ci conosceranno mai. Giusto il tempo di diplomarsi e trovare un lavoro, e verremo ripagati con la stessa moneta. Generazioni intere di solitudini.
“Sorry We Missed You”, mi urla Seb. “Ti cercavo papà, quando avevo bisogno di te, perché mi bullizzavano e dovevo difendermi da solo, anche a rischio di essere cacciato da scuola. Dov’eri quando avrei voluto raccontarti della OBK, della mia passione per il disegno, delle mie avventure con gli amici. Mi giudichi male, perché non rispetto abbastanza il tuo lavoro. Come potrei? Ti voglio bene, e per questo non posso rispettare chi ti ha rubato i sogni, chi ti ha rubato la vita”.
Mi ferisce sapere che Seb non ha stima di me, ma io al posto suo ne avrei? Sono il primo a dire che i miei sacrifici sono necessari, per permettergli una vita migliore. Se potessi scegliere, neanche io farei questa vita. Non lo augurerei al mio peggior nemico, di consegnare pacchi per tutto il giorno, tutti i giorni. Perché mi sorprendo allora, se mio figlio non ha stima di questo lavoro? Lui vorrebbe vedere in me un futuro diverso, la possibilità di vivere della propria passione. Invece sono solo un muro grigio, che gli nasconde alla vista la luce, gli cancella l’orizzonte.
“Sorry We Missed You”, mi sussurra Liza. “Quando la mattina presto devo svegliare Seb e costringerlo ad andare a scuola. Quando di notte bagno il letto, perché ormai a casa si sentono solo urla e litigi. Sono felice quando passiamo il tempo insieme, quelle rare volte che ci ricordiamo di essere una famiglia. Vorrei potermi godere la mia infanzia e la mia adolescenza. Abbiamo bisogno di soldi e lavoro, ma a che prezzo? Anche a costo di rinunciare al nostro presente?”
Hai ragione, piccola mia. Sei sempre stata il genio in famiglia, e quello che mi dici col corpo e con lo sguardo vale più di mille parole. Siamo sempre convinti che il sacrificio sia individuale, che possiamo caricarci tutto sulle spalle e andare avanti, ma non ci rendiamo mai conto veramente di quello che lasciamo indietro. Delle macerie. Quanti prestiti sto chiedendo alla vostra vita? Pur di dare spazio alla mia ambizione, al mio personalissimo sogno americano, sto rubando il tempo migliore della tua vita.
A working class hero is something to be
A working class hero is something to beJohn Lennon – working class hero
Queste non sono le pagine di un diario, questa è una lettera di suicidio. Non credo di poter continuare a lungo così, o almeno, non credo di poterlo fare rimanendo vivo; ma che alternative ho? Alle volte mi sembra di essere un tossico, affetto da dipendenza dal lavoro. Mi ripeto di continuo che è l’ultimo giorno, l’ultimo mese. Ancora un po’ e avrò messo da parte qualcosa che possa farmi sopravvivere. Pochi anni e potrò permettermi dei collaboratori; potrò permettermi di educare una nuova generazione di schiavi, a cui regalare questo lettore ottico e il male che contiene. Il fardello della classe operaia. Morire, forse questa sarebbe l’unica via d’uscita da questo inferno.
Ma no, questo non è un inferno. La dannazione è definitiva, ha almeno il carattere della rassegnazione. Questo è un purgatorio, perché trascorriamo una vita intera sperando di poterci conquistare il paradiso. Ma per salire al piano superiore ci vogliono tante preghiere, e il padreterno si è dimenticato di noi. Nessuno prega per i miserabili come noi, nessuno cura una mano callosa e una schiena rotta. “Proletario” vuol dire possedere solo la prole. Vuol dire possedere un presente, forse un futuro, racchiuso tra le nostre braccia. Per rincorrere un sogno di ricchezza, ci siamo dimenticati di noi stessi.
Abbiamo prestato il fianco a un massacro in piena regola. Di fronte alle crisi, quando si mettono in discussione le radici di una società, c’è sempre l’agnello sacrificale che si assume tutte le responsabilità. Colpevole o meno, è la sua testa a spiccare per permettere agli altri di mondarsi la coscienza. E noi, generazione post ’77, siamo le vittime perfette. Orfani di qualsiasi ideologia e qualsiasi lotta, ci siamo avviati da soli sull’altare sacrificale. Capri espiatori, sul cui sangue si costruirà la nuova era del consumismo post crisi economica.
Ci siamo dimenticati di essere una classe, un corpus unico, con una stessa speranza. Abbiamo abbandonato un sogno di uguaglianza che avrebbe permesso a tutti di vivere, e non sopravvivere. Sempre di corsa, sempre a rincorrere clienti, scadenze, denaro. Abbiamo accettato chinando la testa questa realtà borghese che non ci appartiene, abbiamo scelto la democrazia e la libertà. Ma questa non è libertà, è solo schiavitù. Dovremmo smetterla di nutrirci della carne e dei sogni dei nostri figli, e tornare a camminare sulla testa dei re.