È difficile scindere Honey Boy, film girato da Alma Har’el e presentato al Sundance 2019, da quella che è la sua genesi. Il film è infatti una sorta di autobiografia di Shia LaBeouf, in cui l’attore di Borg McEnroe racconta la sua infanzia e il suo rapporto con il padre, pur creando degli alter ego per i reali protagonisti delle vicende. Honey Boy appare quasi come una sessione di psicoterapia lunga un’ora e mezza, in cui LaBeouf si lascia andare e si mette pienamente a nudo. Questa estrema sincerità è la radice di tutti i pregi e i difetti del film.
Protagonista di Honey Boy è Otis Lort, alter ego di LaBeouf, la cui storia si sviluppa su due piani temporali. L’intero film è infatti costituito da un alternarsi di scene che rappresentano da un lato l’infanzia di Otis e il suo rapporto con il padre, dall’altra l’Otis adulto costretto alla riabilitazione dal tribunale per via dei suoi problemi con l’alcool.
Specie in questo percorso Otis è costretto ad affrontare i traumi della sua infanzia legati alla figura paterna. Ha iniziato da giovanissimo la carriera da attore e all’età di 12 anni aveva già avuto successo in ambito televisivo. Nell’attività da attore si fa accompagnare da suo padre, aiutandolo economicamente. Quest’ultimo, invece, ha difficoltà a trovare lavoro per via dei suoi precedenti penali.
Come detto, si tratta di un film scritto in maniera estremamente sincera da parte di LaBeouf. Non c’è un’eccessiva drammatizzazione degli eventi, questi vengono esposti in maniera realistica e asciutta. Risulta particolarmente interessante il rapporto tra l’Otis bambino (Noah Jupe) e il padre James, interpretato dallo stesso LaBeouf.
Si tratta di una dinamica estremamente interessante per via del parziale ribaltamento dei ruoli tipici della famiglia. Non è infatti James a mettere il pane in tavola, ma suo figlio. Non solo, il figlio è l’unica ragione per cui il padre ha uno stipendio. Risulta quindi molto complesso per lui far valere la propria autorità paterna su un ragazzino che a 12 anni ha già le spalle larghissime, anche per via della sostanziale assenza della madre, che nell’intera pellicola non appare mai.
A rendere il tutto ancora più difficile ci sono poi i problemi di alcolismo e tossicodipendenza del padre, con cui egli combatte da anni. La rappresentazione di James è sicuramente la più interessante di tutto Honey Boy: LaBeouf mette in scena una persona vera, un padre che sicuramente ama suo figlio, ma che pur impegnandosi risulta un costante fallimento nel suo ruolo.
Allo stesso tempo però, come del resto accade in una sessione di terapia, il film può risultare sconnesso. Molto spesso sembra di assistere a un continuo flusso di coscienza da parte di LaBeouf, che ripercorre episodi della propria infanzia senza una vera meta. Il film vuole essere una storia che parla di accettazione e perdono, ma l’impressione che arriva allo spettatore per tutta la sua durata risulta essere di tipo diverso. Honey Boy ci invita a non portare rancore, ma allo stesso tempo la pellicola non esita a far pesare l’influenza che il padre ha avuto sui problemi di alcolismo di Otis/LaBeouf.
Honey Boy è essenzialmente un film di attori. LaBeouf del resto è attore prima che sceneggiatore, e mette in piedi una sceneggiatura pensata per far risaltare le doti recitative dei suoi interpreti. Il film è estremamente dialogato e ricco di sequenze fortemente emotive. Tutti gli attori principali risultano perfettamente in parte.
Spicca LaBeouf stesso, che convince nel ruolo del padre, regalando scene di grande intensità in coppia con Noah Jupe, che si conferma uno dei più promettenti giovani interpreti in circolazione dopo essersi già fatto notare per A Quiet Place. Infine Lucas Hedges nella parte dell’Otis adulto risulta estremamente credibile, portando al ruolo una fisicità che ricorda quella dell’attore di Disturbia. Va menzionata poi la cantante FKA Twigs, al primo ruolo recitativo, e che dimostra di avere talento anche di fronte a una macchina da presa.
La regia di Alma Har’el è adatta ad accompagnare questo tipo di pellicola. Prima di Honey Boy aveva guadagnato un certo rispetto come regista di documentari e porta un approccio simile anche a questa pellicola. Si parla spesso di regia invisibile e questo film ne è sicuramente un esempio. I virtuosismi sono annullati, la macchina da presa è completamente asservita ai suoi personaggi ed esalta le prestazioni recitative e le forti emozioni che gli interpreti cercano di trasmettere. L’impressione non è quella di assistere alla narrazione di una storia, ma di assistere a uno spaccato di vita attraverso un foro nella parete.
Honey Boy, alla luce della sua genesi, risulta in fin dei conti un esperimento estremamente particolare e di sicuro interesse, anche se non pienamente riuscito. Una pellicola sincera, i cui punti di forza finiscono per coincidere con i più chiari difetti. Se infatti la forte emotività di cui il film è pregno da un lato rende impossibile guardarlo rimanendo indifferenti, dall’altro sembra mancare una chiara struttura e sembra spesso passare da una vicenda a un’altra quasi perdendo il filo logico.