Gli anni Sessanta e Settanta
Con Zabriskie Point e Due o tre cose che so di lei siamo a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta. La letteratura americana continua a essere infervorata dal vitalismo della Beat Generation, l’Europa soccombe ai moti del Sessantotto tra un cinema d’essai e un altro, il Vietnam è teatro di uno scempio che provoca indignazione in tutto il mondo. Gli intellettuali si ribellano ai canoni imposti nel passato e sul grande schermo a colori si propongono come novellieri della società dei consumi, della pubblicità, spesso senza un filo conduttore che li guidi in una trama, ma con una modalità di narrazione frammentaria.
Il cinema a colori
Tra i vari registi protagonisti di questa fase della storia del Novecento è difficile non pensare a Jean-Luc Godard – al suo sguardo attento ai cambiamenti della società parigina – e a Michelangelo Antonioni, annoverato come esponente del neonato fenomeno del Cinema d’Autore. In questo caso li si prende come esempi per osservare cosa accade al colore, la cui presenza sullo schermo inizia oramai a diventare in quegli anni un obbligo da adottare da parte del regista, salutando (quasi) per sempre l’era del bianco e nero.
Con l’uso che questi due autori fanno del colore – non è soltanto la poetica del film a cambiare – ci si rende conto di come la novità a cui si assiste in quegli anni prodigiosi per la storia del cinema, sia anche di tipo visivo e figurativo. E a risentirne è certo la plasticità degli oggetti, la resa dei chiaro-scuri, le città divenute luminose perché immortalate negli spazi concessi ai coloratissimi slogan pubblicitari, i beni di consumo dai colori vivacissimi raccontati dagli scaffali dei supermercati.
Zabriskie Point– Le immagini e i colori
In Zabriskie Point (Antonioni, 1970) il colore divora più e più volte la scena, diluendosi sullo schermo con sfacciata prepotenza: è il caso dei colori vivi e accessi dei manifesti pubblicitari sparsi per Los Angeles, o dei colori – a tratti chiari e opachi, a tratti luminosi – degli oggetti di varia natura che negli ultimi minuti si confondono nel cielo dopo l’esplosione dell’edificio.
Il valore del colore bianco
Tuttavia, è forse la scena meno intrisa di colori a risultare la più poetica del film. Siamo a circa metà pellicola, in una visione-allucinazione, in una duna di sabbia bianchissima nel bel mezzo del deserto, in cui innumerevoli donne e uomini consumano il loro amore carnale con una forma di candore fanciullesco che ha tanto da dire. Non ci si ritrova davanti a una frenesia e uno scompiglio barbari e indomabili, ma, al contrario, tutto sembrerebbe simmetrico, pilotato magicamente dall’alto, da un’innocenza giovanile intenta a disegnare con precisione le linee dell’amore. Il caos apparente è solo un pretesto: nulla è in realtà più ordinato di quei corpi intrecciati e insabbiati. E nulla in questo mondo è più bianco, più chiaro e leggero della sabbia e dell’incoscienza degli amanti.
La scena finale e la festa dei colori
Nella scena finale invece, la protagonista Daria immagina che la villa del suo capo prenda fuoco, e lo fa probabilmente a causa dell’odio nutrito verso chi lo gestisce. Oppure il suo è soltanto il colorato risultato di un gran trip – uno di quelli a cui si allude in un dialogo con Mark , secondo protagonista, quanto all’utilizzo di sostanze stupefacenti – ma dirlo con certezza è difficile. Certo è, però, che in una lunga e magnetica sequenza – in sottofondo passano i Pink Floyd con la loro Come in number 51 (Your time is up) – si palesano in cielo numerosissimi oggetti, da libri e giornali, a telefoni e mele verdi, a prodotti commerciali come scatole di cereali, buste di pan carré.
Colori primari ovvero gialli, blu, rossi e colori secondari, nonché arancioni, verdi e viola hanno la meglio sul bianco del deserto, adesso del tutto messo da parte. Altrettanto vive le sfumature del tramonto che chiude romanticamente la pellicola mentre in sordina alla radio passa So young di Roy Orbison. Antonioni è affezionato all’idea del tramonto in chiusura, se si pensa anche a Professione reporter del 1975.
Il richiamo all’arte su tela
La vera valenza estetica della spettacolarizzazione del colore che avviene nella pellicola risiede nel disastro immaginato dalla protagonista che richiama facilmente le creazioni del pittore russo, fondatore dell’arte astratta, Vasilij Vasil’evič Kandinskij. Una di queste certamente Blu di cielo del 1940, in cui sullo sfondo azzurro del cielo si stagliano microorganismi d’ogni colore e forma.
Da ricordare è inoltre che Antonioni dichiarò di sentirsi profondamente legato alla poetica del pittore espressionista astratto Mark Rothko. Questa corrispondenza è ad esempio ravvisabile nel fotogramma del tramonto.
Due o tre cose che so di lei– La critica alla società attraverso i colori
Proponendosi come una spietata critica alla società contemporanea – e quindi alla guerra del Vietnam, al capitalismo – Due o tre cose che so di lei (Godard, 1967) riesce a rivelarsi anche un ottimo esempio quanto all’utilizzo disinibito del colore nel Cinema di quegli anni. Il blu, il bianco e il rosso primeggiano sin dai titoli e durante il corso del film, vengono sistematicamente ripresi.
Si veda ad esempio il trittico composto dal cardigan blu, dal lenzuolo bianco e dai pantaloni rossi di Juliette (interpretata da Marina Vlady). Esso è speculare alla tenda blu, alla porta bianca e alla camicia rossa del figlio. O un rossetto non banalmente rosso abbinato a una maglia blu che – guarda caso – è contornata da una parte bianca. Questi tre colori sono tra i prediletti di Godard. Lo si nota in diverse sue realizzazioni – soprattutto quelle del primo decennio dei Sessanta – come ad esempio accade per gli stessi titoli di Una storia americana (1966).
L’equilibrio dei colori
Considerevole è anche l’attenzione dedicata al colore rosa brillantemente sfoggiato in tante sfumature, nel salone di bellezza al femminile. Ma in primo luogo ai colori più disparati, come si vede dalla sequenza girata in un negozio di abbigliamento in cui maglie, maglioni e camicie ripiegati sfavillano sullo sfondo mentre in primo piano una Juliette indecisa passeggia.
Colori sempre canalizzati verso il formare un senso preciso e ordinato, mai sulla scena si ha l’impressione che domini il caos, al contrario: il movimento creato dall’affresco dei colori è sempre intriso di un eclatante perfezionismo. Perizia e simmetria sono del resto tanto care anche a Godard, e forse la scena in cui queste sue tendenze emergono particolarmente in questa pellicola è, anche qui, quella finale. Scatole coloratissime di detersivi o di carte da cucina, di sigarette o di chewing gum, disposte con ordine su un prato a voler quasi creare una composizione artistica.
I colori e i prodotti di consumo
Dal punto di vista dell’immagine ad accomunare i due film citati, più di ogni altro aspetto, è la forza del colore dei prodotti di consumo. Tutto è ossessivamente colore: gli oggetti, le scritte dei cartelli, le luci delle strade, gli abiti. Trionfa allora il colore eccentrico e vibrante, per niente inibito o nascosto. Nel Cinema, parallelamente a quanto accade nel turbinio sociale di quegli anni, è un grido a farsi sentire, un’arroganza e una vitalità – quella dei colori – che è poi la stessa dei sessantottini che occupavano Valle Giulia, nonché del Maggio Francese, basti pensare al celebre slogan Il est interdit d’interdire: vietato vietare.