Spice Boyz, il lungometraggio d’esordio del regista bielorusso Vladimir Zinkevich, comincia con una didascalia che conosciamo molto bene fin dai tempi di Fargo, capolavoro del 1996 dei fratelli Coen: «this is a true story». Laddove però Fargo immaginava una serie di intrecci chiaramente fittizi e fortemente cinematografici, Spice Boyz sembra limitarsi a una cronaca molto precisa di ciò che è realmente accaduto nel 2014 a Homel’, una città vicina al confine ucraino.
Fin dalla scena d’apertura, Zinkevich esplicita il modello cinematografico di riferimento del suo esordio, attraverso due strumenti: il primo riguarda la colonna sonora del film. Si serve fin da subito di una traccia musicale appartenuta da sempre al war movie americano, Run Through The Jungle dei Creedence Clearwater Revival. Il secondo è legato invece alla sceneggiatura e più nello specifico alla gestione del dialogo. Affida infatti alcune battute decisamente pro “american way of life”, a un militare dall’aria scontrosa e intollerante, che sembra ricalcare movimenti e interpretazioni sul modello di John Wayne.
Tutto comincia dall’epilogo, in una notte come molte altre, in cui una chiamata avverte il militare di un possibile reato (un uomo nudo sta correndo nei pressi di alcune abitazioni), intrecciandolo alla fuga in auto di un potente e noto criminale locale, che per questa ragione non sembra suscitargli alcun timore o urgenza d’agire.
Quello che il militare intraprenderà di lì a poco sarà un viaggio senza ritorno verso una maestosa villa di campagna appena fuori città, precedentemente luogo di un addio al celibato tra un gruppo di giovani amici, minato fin dal principio da piccole liti, incomprensioni e comportamenti ambigui, tra cui un’umiliazione psicologica ai danni di un giovane omosessuale, perpetrata dal futuro sposo, nonché reduce di guerra.
Spice Boyz fa sua l’estetica pulp e pop di molto cinema horror, ma anche stoner movie americano recente, appartenente non soltanto al B-Movie, categoria cui appartiene l’esordio di Zinkevich più che volontariamente, ma anche a quello definito comunemente di “serie A”, che non trova però alcuna credibilità all’interno di questo film.
Il registro predominante è quello del gore e per certi versi del torture porn e dello splatter, nella sua esaltazione e nel divertimento disturbato per una violenza estrema veicolata in chiave black comedy, dunque a metà strada tra il comico e il dramma.
Tutto è talmente esagerato e ridondante da risultare parodico, fortemente umoristico e sopra le righe.
Un gioco al massacro che considerata l’ora e quaranta di durata complessiva del film, impiega più della metà del minutaggio per carburare e prendere avvio, introducendo in maniera fin troppo rilassata e dilatata i vari componenti del gruppo.
Si passa da un giovane disabile che tutti chiamano “storpio”, a un playboy che tutti chiamano “salsiccia”, fino al futuro sposo, dall’aria fin da subito molto poco affidabile, e poi ancora la sposa, vittima di continui nervosismi e crisi isteriche, che oscilla tra la decisione di sposare e non sposare il giovane veterano di guerra, e infine l’unica amica della sposa, probabilmente la figura femminile più razionale e consapevole dell’intero film.
I toni a cui Zinkevich sceglie di affidarsi, nel loro muoversi continuamente tra il delirio e il divertissement, sono in continuo mutamento. Se inizialmente sembrano essere quelli del dramma, divengono poi quelli del teen movie più classico, anche se decisamente adulto, e poi ancora dello stoner movie (il discorso che il film fa intorno alla droga sintetica Spice, troppo hardcore e pericolosa, è molto interessante), trasformandosi infine nello splatter più estremo (basti pensare alla scena degli occhi cavati).
Il limite più evidente del film è dunque quello di aver molto poco da raccontare, per questo diventa necessario diluirlo o limitarlo alla sola parte finale, che rappresenta in qualche modo la catarsi e l’esplosione tanto annunciata e attesa.
Le dinamiche d’amicizia e di coppia (e quindi quelle più razionali e convenzionali), che necessariamente vengono presentate come preambolo, non sembrano funzionare come dovrebbero, poiché abbandonato il registro del B-Movie, il film si perde, nel tentativo di farsi altro, funzionando invece nella messa in scena e nel racconto dell’assurdo, dell’estremo e dell’immorale.
Un teen horror riuscito solo a metà, che fa dei suoi molti richiami al cinema americano un punto di forza, disinteressandosi del lavoro che invece andrebbe fatto non tanto sulle interpretazioni degli attori, quanto sui loro corpi e dunque la questione del body horror, tanto cara a un certo cinema horror, ma anche thriller degli anni ’70 e ’80, che il film di Zankevich peraltro cita apertamente.
La ricerca umoristica e linguistica del film poi, sfrutta una miriade di citazioni cinematografiche e stilistiche molto conosciute come quella dei Coen, di Tarantino, Miike, Raimi e Carpenter, pur mancando di coraggio e iniziativa. Se infatti la citazione diverte e intrattiene come puro quiz cinefilo, è nella povertà di contenuto, scrittura e forma che il film crolla, appesantendo la visione.
Il riferimento al modello americano trova un ulteriore appoggio nella conclusione del film, nella quale Knockin’ On Heavens Door di Bob Dylan, si contrappone a un ennesimo momento di violenza, rendendo la scena ancor più grottesca e delirante, ricalcando l’ormai noto orecchio amputato di Le Iene, memorabile esordio al lungometraggio del 1992 di un allora giovanissimo Quentin Tarantino.