Il racconto della nostalgia di un tempo che è stato e che non sarà più, per un gruppo di amici che si ritrova a distanza di quindici anni.
Sam: «M’ero dimenticato com’era così tra noi. A Los Angeles non so di chi fidarmi. Penso sempre che tutti vogliano qualcosa da me. Lo so sembra tremendo ma è così».
Meg: «Sì non dirlo a me. Il mondo è gelido là fuori. A volte credo di essere diventata anche io un ghiacciolo».
SONO FELICE D’ESSERE QUI, MA STO ANCHE MALE PER IL MOTIVO – IL FUNERALE: INCONTRARSI ANCORA
Sono trascorsi quindici anni dall’ultima volta in cui sette indivisibili compagni di liceo si sono visti, hanno parlato, condiviso tempo, passioni e vita.
Qualcuno ha cambiato città, qualcuno si è sposato, qualcun altro invece è andato in guerra o si è semplicemente allontanato da tutto e da tutti, poiché stanco del caos e dei pericoli della società.
Sette amici che vengono come già detto riuniti a distanza di quindici anni dalla morte, che prematuramente bussa alla porta di uno di loro, conducendolo ad un inaspettato e tragico suicidio.
Il film di Lawrence Kasdan, noto sceneggiatore e regista americano, di blockbuster come L’impero colpisce ancora e I predatori dell’arca perduta, comincia proprio da questa morte, che viene sì annunciata ma mai mostrata.
Il film è un manifesto generazionale, sulla continua ricerca di un’appartenenza, di quei legami che spesso si perdono negli anni, tra musica, sesso e rock ‘n roll.
Noto il fatto che il suicida fosse interpretato da Kevin Costner, un ruolo poi tagliato dal montaggio finale.
Storici i titoli di testa che seguono gli effetti di essa sui volti e sulle emozioni dei sette personaggi che si ritrovano improvvisamente a doversi riunire e dunque confrontare, con il sottofondo musicale ormai cult I Heard It through the Grapevine di Marvin Gaye.
Ed è proprio il confronto il nodo centrale del film.
Un confronto che è destinato a genere scontro e conflitto, poiché i sette amici hanno intrapreso strade opposte, decisamente distanti le une dalle altre, subendo la vita, la politica e gli anni in modo assolutamente differente.
C’è chi ha sofferto, chi è riuscito a realizzarsi, chi si è perso e chi invece vorrebbe tornare a perdersi per poi ritrovarsi nell’amore, nell’amicizia e nella rincorsa di un tempo e più ancora di un ricordo di qualcosa che è stato e che chiaramente non sarà più.
I sette amici che il film riunisce sono coloro che oggi chiameremmo baby boomers, che hanno vissuto il sessantotto, che sono stati ribelli, anticonformisti e che si sono schierati contro le istituzioni, per poi crescere, adeguandosi sempre più a ciò che in un primo momento avevano considerato il male, la noia, il fallimento, ossia quelle stesse istituzioni prese di mira in età giovanile.
La sequenza della cerimonia funebre è fondamentale all’interno di questa riflessione del riunirsi nel ricordo, poiché presenta prima su piani differenti (ognuno arriva alla chiesa separato dall’altro), poi su un unico piano (quello del ricordo), non più i sette amici, ma otto.
Karen va verso l’organo della chiesa di campagna di Beaufort, South Carolina e inizia a suonare You Can’t Always Get What You Want dei Rolling Stones.
Un brano dapprima diegetico e poi extradiegetico, che racconta in pochi minuti, attraverso rapide inquadrature sui volti il rapporto tra questi amici sopravvissuti al tempo, al dolore e alle insoddisfazioni.
I sette si riuniscono nel ricordo di una canzone che li ha accompagnati negli anni, che li ha portati a conoscersi allora: sorridono, seppur partecipi del dolore della scomparsa di uno di loro, Alex, colui che era stato capace di dare forma al gruppo originario.
Ecco dunque che un brano musicale ed alcune espressioni sui volti dei sette interpreti (a quei tempi sconosciuti e divenuti poi celebri), raccontano e consegnano allo spettatore tutto ciò di cui ha bisogno per comprendere e simpatizzare per questi sette individui, senza alcun bisogno di battute di dialogo, spiegazioni, flashback o quant’altro.
Uno dei funerali probabilmente più memorabili, malinconici e vitali della storia del cinema.
Qui ha inizio il grande freddo, che diviene poi grande caldo.
I corpi si parlano e così i sentimenti. Alex è morto, è vero.
È un corpo freddo che non ci viene mai mostrato (fatta eccezione per i polsi appena fuori dalla bara), ma è pur sempre il protagonista della vicenda, è il motore del film.
Si potrebbe dire che in qualche modo questo funerale che Lawrence Kasdan sapientemente scrive e dirige celebra ed allo stesso tempo crea, sia la morte che la vita.
È poi attraverso un dialogo colmo di nostalgia e schiettezza che il film entra nel vivo di una riunione che si protrarrà per un intero weekend nella villa di campagna di Harold e Sarah Cooper, rispettivamente Kevin Kline e Glenn Close:
Sarah: «Sembra d’essere tornati ai vecchi tempi».
Sam: «Sì… io me ne sento molto in colpa. Cioè, sono felice di essere qui, ma sto anche male per il motivo».
TE L’HO MAI DETTO CHE COSA MI È SUCCESSO IN VIETNAM? – NICK E LE OMBRE DELLA PERDIZIONE
Alex si è tolto la vita, soffrendo dell’incapacità di agire al meglio delle sue capacità in una società di squali, violenti, distaccati e gelidi individui.
Ha sofferto del suo allontanamento dal gruppo, anche a causa di un tradimento sentimentale, ma non è stato l’unico a subire una rottura, o meglio, un disfacimento psicologico, e questo Kasdan lo mostra immediatamente, fin dalle prime scene.
Nick infatti, il veterano di guerra interpretato da un allora giovanissimo (e poco conosciuto) William Hurt è un uomo fortemente turbato dai ricordi di una violenza cieca, brutale e per certi versi inutile, causata dallo stesso paese per cui lui stesso si è battuto.
Kasdan così come sceglie di non mostrare la morte di Alex, non mostra nemmeno i ricordi di morte e dolore di Nick, rievocati esclusivamente da una rapida battuta di dialogo (riportata in questo caso dal titolo del paragrafo) che rende consapevoli di un dolore celato e tenuto a bada dalle droghe e da un’assenza, o meglio, presenza silenziosa che perdura per tutto il film, fatta eccezione per la scena finale, in cui si presenta la resurrezione di Nick, nella scelta e nella volontà di cambiamento.
Nick è perduto e William Hurt interpreta il suo ruolo come dovesse vestire i panni di un fantasma.
Il suo è un personaggio che osserva, che ascolta e che si limita a ben poche battute di dialogo, spesso colme di ironia pungente, caustica e per certi versi fastidiosa, quantomeno per il gusto degli altri amici.
Un’ironia che nasce da un cinismo e da una esperienza di vita e di morte che solo Nick ha vissuto.
Lui è diverso da tutti gli altri, sa di esserlo e per questo non può vivere la perdita, non può elaborarla al loro stesso modo.
Per questo la subisce silenziosamente, accettandola quasi nel sollievo di una soluzione eterna a dubbi, problemi e turbe pericolose e destinate alla tragedia.
Quello di William Hurt è il personaggio che genera conflitto nel clima apparentemente mite, nostalgico ma tranquillo di un weekend colmo di riflessioni, ricordi ed elaborazione del lutto attraverso l’amicizia e l’amore.
Nick è colui che prende la cinepresa all’interno della villa di campagna, inquadrando e ascoltando le storie, le confessioni e le parole delle persone che aveva creduto di conoscere a fondo, di amare a fondo, i suoi compagni di college, i suoi migliori amici.
È allo stesso tempo un uomo distrutto e risoluto, colmo di certezze, esperienze e soluzione.
Un’anima dannata e salvifica, che può portare sollievo laddove c’è stata morte, laddove c’è stato dolore: ecco dunque la sua improvvisa ma non inaspettata vicinanza a Chloe (Meg Tilly), la fidanzata di Alex, con cui Nick comincia a stringere un legame apparentemente viscerale e potente.
Un legame che nasce nel passato.
Nick e Chloe si sono infatti già parlati e incontrati, seppur a distanza, al telefono, quando ancora Nick dirigeva una rubrica radio notturna di soluzione ai problemi sentimentali ed emozionali dei più giovani.
Forse Chloe ritrova in Nick ciò che Alex si è lasciato alle spalle. D’altronde come molti degli amici si confessano reciprocamente nel corso del film, ognuno di loro ha un pezzetto di Alex, chi più, chi meno.
DA QUANDO TE NE INTENDI TANTO CON I POLIZIOTTI? – LA PARTITA DI FOOTBALL E I RICORDI DI SARAH
Il momento probabilmente più intenso del film è riscontrabile nella celebra sequenza della partita di football nel giardino della villa di Harold e Sarah.
Le amicizie tornano quelle di una volta, gli adulti si annullano e tornano quei ragazzini del college divertiti, sorridenti e spensierati, finché a tornare è ancora una volta il conflitto, lo scontro generazionale in qualche modo, segnato dalle vicissitudini del tempo, subite da Nick e da Sarah.
Sarah dalla sua si confessa a Meg (Mary Kay Place), raccontandole di un tradimento la cui ombra sembra seguirla a distanza di tempo.
Il tradimento di un’amicizia, di un sentimento e di un legame che da allora è mutato, quello con l’attuale marito e amico dai tempi del college, Harold.
Torna il dolore del ricordo e l’accettazione dei sensi di colpa e le trasformazioni psicologiche di queste donne e questi uomini che hanno vissuto legati, amandosi e facendosi del male, per poi perdersi negli anni nella speranza e probabilmente nel dubbio di non rivedersi mai più.
Poco dopo si aggiunge il conflitto causato dal personaggio di Nick, che scambiato per un corriere della droga sulle strade desolate e apparentemente infinite tipiche di alcuni stati dell’America di provincia, viene condotto alla villa di Harold da un poliziotto locale.
Ecco che qui nasce il confronto tra Harold e Nick.
Tra l’uomo che c’è l’ha fatto, che è arrivato come si suole dire e l’uomo irrisolto, a pezzi, perso tra droga, solitudine e dolore per ciò che ha visto e vissuto a differenza di tutti gli altri, che come Nick stesso sottolinea, sono stati in qualche modo protetti, isolati dai pericoli della società di quel periodo.
NON PARTE NESSUNO, NON PARTIREMO MAI – L’ULTIMA COLAZIONE, LETTERA D’AMORE ALL’AMICIZIA CHE RESISTE AGLI ANNI E AI CONFLITTI
Nonostante il conflitto, il litigio e le dure parole di verità sulla conoscenza, il dolore, l’amicizia e i legami apparenti che scaturiscono dalla sequenza probabilmente più tesa e drammatica del film.
Quella sull’ultimo dialogo della serata conclusiva tutti insieme alla villa di campagna, Kasdan conclude il suo dramma corale ormai cult, nella maniera più dolce, pacificatoria e divertita possibile.
L’ultima colazione, colma di risate, sguardi complici e brillanti battute di dialogo rende consapevole tanto lo spettatore, quanto i sette protagonisti del film, che l’ordine si è ristabilito, l’amicizia è salva e così i nuovi e vecchi amori che hanno trovato finalmente la loro più adeguata soluzione.
Proprio nell’ultima colazione, scena conclusiva del film, Kasdan risolve due nodi centrali: Nick e Alex.
Nick non sarà più nomade. Ha trovato una base, una donna e forse una speranza di salvezza per il futuro.
Alex non ha mai dimenticato nessuno di loro.
Ha conservato tutto, ogni ricordo di una grande e indimenticabile amicizia, a partire da un vecchio articolo di giornale, scritto dall’allora giovanissimo Michael (Jeff Goldblum).
Harold: «Allora, qual è il programma di volo qui? C’è modo di coordinare i trasporti di questo aeroporto?».
Michael: «Non sarà necessario, vedete Sarah e Harold abbiamo votato in segreto. Non partiamo nessuno, non partiremo mai».