The Green Knight – diretto da David Lowery (A Ghost Story) e prodotto dall’ormai acclamata A24 – si basa sull’omonima leggenda, nota anche con il titolo più esteso di Sir Gawain and the Green Knight. Il racconto esplora e approfondisce la mitologia che circonda Re Artù e i Cavalieri della Tavola Rotonda.
Tra questi figura Gawain, introdotto nel film come nipote di Artù ed erede al trono, anche se ancora non ufficialmente insignito del rango. Il giorno di Natale un misterioso essere, un cavaliere verde dalle sembianze d’albero, fa la sua comparsa alla corte di Artù.
Quello che propone, nello stupore generale dei presenti, è una piccola sfida. Permetterà a uno dei cavalieri di colpirlo, a patto che, a un anno di distanza, colui che lo ha colpito si recherà da lui per ricevere lo stesso colpo. Una sfida assurda che genera la più totale astensione da parte di tutti. A eccezion fatta, ovviamente, per Gawain.
The Green Knight: è tutto un sogno?
È solo un gioco, ricorda Artù a suo nipote. Certo, un gioco che quasi certamente costerà la vita al giovane. Ma pur sempre un gioco.
La prima cosa che colpisce in The Green Knight è quest’attitudine.
L’atmosfera di una celebrazione continua. La solennità di un rito che si protrae inevitabilmente lungo tutta la durata dell’opera. A rendere memorabile gli eventi a schermo è senz’altro l’estetica studiata da David Lowery.
Un’estetica ipnotica, votata alla più totale abnegazione di ogni forma di realismo. Composizioni ermetiche da toni e colori contrastanti. Luci innaturali che illuminano corpi e ambienti. Campi lunghi talmente dettagliati che non bastano i secondi a disposizione per coglierne ogni sfumatura.
The Green Knight è un’opera composta da molte riflessioni, ma la più importante tra queste è quella sulla forma. David Lowery tenta di ridefinire l’estetica del fantasy, in particolare, di quello più folkloristico, legato magari a un preciso territorio e periodo storico. L’impressione è quella di un mosaico che racconta una leggenda antica, una tela su cui sono dipinti dei concetti in forma allegorica. Il tutto senza preoccuparsi affatto della logica delle singole azioni compiute dai personaggi, poiché ciò che è più importante è il quadro d’insieme.
Come tutti i racconti folkloristici, si è sospesi in un “luogo altro”. Un ambiente che indefinibile che non si riesce a cogliere del tutto. Anche il casting è inteso per alimentare questa sensazione. Alicia Vikander, per esempio, interpreta ben due personaggi, specularmente opposti in alcuni tratti, destinati a interagire con il giovane e smarrito Gawain.
Lo stesso smarrimento si ripercuote nella mente dello spettatore, costantemente tenuto in sospeso sul filo della confusione mista all’ammaliamento. Fin dal bizzarro prologo, in cui si assiste a una carrellata verso il protagonista che, immobile, prende fuoco seduto sul trono, si è sommersi di domande. È tutto solo un sogno? Una strana visione che non vuole cessare di colpire gli occhi? Oppure una realtà parallela, dove ogni cosa visibile è accettata senza problemi?
Onore, tempo e morte
L’estetica di questo film, tuttavia, non è fine a se stessa. Se è vero che l’esasperazione visiva serve principalmente per delineare un contesto ben preciso, non è da sottovalutare anche la semantica che risiede dietro alla storia. La leggenda originale è un trattato sulla crescita personale e sull’onore. Gawain ha il dovere di recarsi dal cavaliere verde per ricevere lo stesso colpo che ha inferto. Deve farlo a ogni costo. Pur sapendo che la sua vita è in pericolo. Tuttavia, in un lampo di astuzia e paura, decide di presentarsi dal suo boia con una fascia magica, che lo protegge da qualsiasi colpo, venendo dunque meno alla parola data.
Se la storia del romanzo si concentra parecchio sulla tematica dell’onore, nel film si evidenzia maggiormente altre tematiche che sono implicitamente presenti nella leggenda. Quella del tempo che scorre e della morte che, nonostante gli sforzi per aggirarla, sopraggiunge inevitabilmente.
Questi temi, qui così accentuati, vengono esplicati attraverso diverse visioni e situazioni. Gawain, all’inizio del suo viaggio incontra lo spettro di una dama decapitata. E la decapitazione è la sorte che, forse, dovrà affrontare a sua volta. In un’altra situazione, Gawain, legato da dei bracconieri, ha la visione della propria morte nel caso in cui non riuscisse a liberarsi.
E a giocare un ruolo fondamentale in tutto ciò che coinvolge la morte è il tempo. Il tempo è ciò che separa colui che è vivo da colui che un tempo lo era. È quell’elemento eterno di per sé, ma con una scadenza dal punto di vista dei mortali. Gawain, giovane, ambizioso e alquanto arrogante, effettua per la prima volta nella sua vita queste considerazioni.
A ogni passo che riduce la distanza dal luogo della sua esecuzione, questi suoi pensieri si acuiscono. Lo confondono. Lo portano in zone inesplorate del suo stesso spirito. Ricorda la sua amata, abbandonata in una disperata rincorsa verso l’onore. Pensa a come sarebbe stata la sua vita, destinata alla grandezza per diritto di sangue, se non avesse sfidato il misterioso essere alberato.
Nel pieno di questa turbine esistenziale, Gawain scopre la più terribile delle verità del mondo. Tutto ha una fine. Il tempo scorre inevitabilmente verso questa fine. La morte arriverà in ogni caso. Una verità ovvia, facile da dare per scontata, ma a cui nessuno davvero si permette di affiancare alcuna considerazione. Concetti simili spaventano, soprattutto se si è giovani e con mille prospettive davanti. Gawain, invece, realizza che, anche se avesse seguito strade meno insidiose, la sua sorte non sarebbe affatto cambiata.
Tutta questa impalcatura tematica si riflette nella forma di David Lowery. Piani sequenza interminabili, dissolvenze tra le inquadrature, lenti movimenti di macchina che gradualmente mettono a fuoco elementi importanti. Tutti strumenti tecnici usati a profusione, anche in modo inaspettato, legati al concetto del tempo.
Invece, il topos della morte è rintracciabile nei colori, che, seppur sgargianti, molto spesso virano su tonalità scure. Il verde, dominante nella pellicola, è frequentemente associato alla vita, ma qui assume il significato diametralmente opposto. Il verde è il colore della morte, simboleggiante la natura e di conseguenza il cavaliere verde, che si è riappropriata degli spazi una volta occupati dai vivi, ora vissuti.
In fondo, cosa c’è di più naturale della morte?
The Green Knight è un’esperienza sicuramente indimenticabile, nel bene e nel male. È ovvio che un film del genere, così rigoroso nel seguire la propria idea di cinema, abbia generato pareri contrastanti. David Lowery, a differenza di Sir Gawain, non pecca mai di codardia e sceglie consciamente una strada irta di pericoli registici, senza preoccuparsi delle reazioni che possono generare la strana natura dell’opera.
L’estetica del tempo, della morte e del folklore sono reinterpretate sotto una nuova ottica, ispirata da classici del cinema fantasy, come Excalibur di John Boorman e Willow di Ron Howard. Lowery sperimenta nuove forme d’anarchia visiva per rielaborare ossessioni mai sopite. The Green Knight è un film valoroso, che brilla della stessa nobiltà dei Cavalieri della Tavola Rotonda, ai quali Gawain spera un giorno di unirsi.