The Bear e l’incessante sinfonia jazz

Giulia Pilon

Novembre 9, 2022

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Chicago, esterno notte. Un giovane – soprannominato the Bear, appunto – con indosso un grembiule blu incontra un orso. L’animale è in gabbia, il ragazzo la apre e con estrema cautela indietreggia, con lo sguardo sempre vigile. L’orso è visibilmente agitato e, dopo qualche passo, non esita ad attaccarlo.

Ecco che the Bear si risveglia dal suo sonno, è dentro una cucina, sono le sei del pomeriggio, era soltanto un sogno. O forse no?

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Carmen Bercatto (Jeremy Allen White) in uno still da The Bear (2022, FX)

Dal formato peculiare – i venticinque minuti per otto episodi – che non può che ricordare l‘Atlanta di Childish Gambino, the Bear è disponibile in streaming su Disney+ dallo scorso ottobre. L’acclamatissima serie è il racconto agitato di un ristorante di famiglia in guai finanziari. È da poco venuto a mancare il proprietario, Michael Berzatto, morto suicida lasciando attonita la sua famiglia, la sorella Sugar e il fratello Carmine. Carmy, capo cuoco e vincitore di prestigiosi premi, tenta allora di rimettere in sesto il sandwich shop di Mikey con l’aiuto di una squadra pittoresca.

Il personaggio di Mikey, in questo senso, acquisisce un ruolo centrale. È presenza costante nella sua assenza. Motore d’accensione dell’intera narrazione, ma anche spinta propulsiva che la fa avanzare. È il nodo attorno a cui si intrecciano le questioni irrisolte, prima tra tutte il rapporto conflittuale e in qualche modo sospeso con il fratello Carmy. Quest’ultimo bloccato in una condizione di repressione interiore che viaggia in due direzioni, da una parte si trasforma in rabbia per il passato, dall’altra profonda disperazione per la perdita.

Mikey è l’anima del ristorante di famiglia – o quel che ne resta – ricordo perpetuo e indelebile. Punto di sutura tra lo staff e la famiglia Berzatto.

Michael Berzatto (John Bernthal)

Esemplificativo, allora, il cugino Richie.

Profondamente legato alla tradizione familiare – e inevitabilmente a Mikey, sua rosa dei venti – Richie non riesce ad accettare il cambiamento. È ostile verso una potenziale riforma del ristorante, che deve restare così com’è, deve continuare a vendere sandwich al manzo, altrimenti la sua vera identità svanisce. E con essa anche Mikey. Richie combatte quotidianamente, e non troppo inconsciamente, il suo conflitto interiore. A metà tra una mascolinità tossica e un animo fragile, Richie è, in realtà, nel profondo, una nostalgica persona di cuore.

Syd: «Tutto bene Richie?».

Richie: «Sento che qualcosa è strano là fuori. Il bar ha chiuso. […] Il proprietario ed io non andavamo molto d’accordo, ma era bello sapere che c’era. Era come un’istituzione».

Syd: «Proprio come altri locali, come Logan… […]».

Richie: «Sì, fanno tutti schifo ora».

Syd: «Sono diversi».

Richie: «Sì, sono diversi. Per questo motivo continuo a dirvi di smetterla di mandare a puttane questo posto. Ti lasci andare un po’ troppo, tutto cambia. Non capite che questo è un ecosistema delicato che continua ad andare avanti grazie a una storia condivisa, amore e rispetto».

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Da sinistra, Sydney (Ayo Edebiri) e Richie (Ebon Moss-Bachrach)

Di massiccia importanza nell’operazione di alfabetizzazione condotta da Carmy, è Sydney. Giovane cuoca di talento, un po’ ribelle ma talentosa, tenta l’impossibile e aiuta come può la restaurazione spirituale del ristorante e dello staff. Sydney è un altro animale in gabbia che prova quotidianamente a spezzare le rigide catene della gerarchia culinaria. Un cavallo che non vuole padri né padroni, ma capace di connettersi all’altro, insegnando e imparando tanto.

The Bear è un’incessante sinfonia jazz, una lunga e sincopata improvvisazione, puntellata di una backstory latente e storylines che si intrecciano continuamente.

Con uno sguardo quasi documentaristico e senza filtri, la serie pedina pedissequamente chi la abita e sceglie di mostrare la realtà reale. L’unico artificio al quale si appella è il montaggio, evidenziato come l’unico – vero – modo per rappresentare quel tipo di racconto. Così veloce, fuggevole, ma comunque penetrante, il montaggio è una forza bruta che talvolta tinge la realtà di sprazzi onirici con una scansione ritmica singhiozzante.

Grazie a questo prestigioso gioco di maestranze, la cucina viene elevata a dimensione altra.

Essa non è più soltanto spazio per preparare le comande, ma diventa luogo di morte e rinascita, di crescita, innesto tra emozioni. Regno di ansie, angosce e stress, è un ambiente a sé stante, un meccanismo che esige ritmo e precisione per funzionare correttamente.

Da sinistra, Syd e Carmy in uno still da The Bear

La cucina dà e la cucina toglie, mescolando la scansione oraria giornaliera, amalgamando identità, speranze, successi e delusioni.

Lo sa bene Carmy, che da prestigioso chef – «il miglior capo di cucina del miglior ristorante d’America», dice Sidney – si ritrova a fare sandwich. Il passato latente torna spesso a fargli visita, toccando corde che irrimediabilmente avranno conseguenze sul presente. Carmy è sempre sull’orlo di una crisi di nervi, in costante equilibrio precario impiega tutte le sue forze nella riuscita della sua missione: salvare il ristorante. Salvare Mikey.

Carmy: «Ho dato fuoco alla friggitrice la notte in cui ho vinto il premio per il nuovo miglior Chef di Food&Wine. Il posto è stato quasi raso al suolo. Succede anche questa cosa strana… un minuto in cui sei lì che guardi il fuoco e pensi: “Se non faccio niente questo posto verrà incendiato e tutte le mie ansie andranno via con esso”».

Marcus: «E poi spegni il fuoco».

Carmy: «E poi spegni il fuoco».

The Bear ama giocare con la forza prorompente del ritmo, della frenesia soffocante.

Un’energia che passa attraverso un montaggio galoppante e che non può che ricordare quella di Aaron Sorkin, in The Newsroom, o Succession. I dialoghi incessanti, la cadenza serrata della narrazione, sono tutti sinonimo di tormento e ossessione, perfettamente in linea con l’anima di Carmy. Un orso ingabbiato che scalpita, desideroso di fuggire e di librarsi in tutta la sua potenza.

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Carmy in uno still di The Bear

Ma Carmine Berzatto è un puzzle, così come l’intera serie.

Un grande puzzle che si costruisce lentamente, con l’avanzare veloce degli episodi che mettono insieme i pezzi e (ri)costruiscono i personaggi nella loro interezza. Con una melodia incessante, la serie implode e, insieme, esplode con i suoi protagonisti che, turbati e turbanti, accompagnano lo spettatore nella profondità degli abissi. Nello stesso modo in cui Carmy viaggia dentro di sé trovandosi faccia a faccia con le sue paure e la sua vera essenza, così anche The Bear ci conduce verso i meandri più reconditi della psiche di chi la abita.

Carmy: «Io non sapevo che mio fratello si drogasse… col passare del tempo ho realizzato che in realtà io non sapevo niente di lui. Due anni fa mi ha completamente tagliato fuori dal ristorante, e questo mi fece molto male. E credo fu questo ad accendere quel meccanismo che “ok, vaffanculo, guarda che faccio”. E grazie a questa connessione attraverso il cibo, e per avermi fatto sentire così rifiutato e stupido, ho architettato questo piano dove sarei andato a lavorare in tutti i ristoranti migliori del mondo, nelle VERE cucine».

Le piccole climax all’interno di ogni episodio si sommano piano piano, e raggiungono insieme l’apice nel finale. Una lunga esplosione riduce in brandelli le fondamenta assemblate fino a quel punto. Carmy, accecato dalla rabbia, si lascia divorare dai suoi demoni interiori, dal suo orso, ferendo tutto ciò che lo circonda.

Ma è proprio lui a ricostruirsi dalle ceneri, the Bear si guarda finalmente allo specchio e ritrova finalmente uno scopo: la famiglia, e la sua ricetta segreta del sugo al pomodoro.

Uno still finale da The Bear

Carmy: «E così ho fatto, mi sono fatto il culo. Ho separato erbe, pulito ostriche e aragoste. Mi sono tagliato, aglio e cipolla sempre tra le mie unghie e negli occhi, e la mia pelle era secca e unta nello stesso momento. Avevo calli sulle dita per i coltelli, e il mio stomaco sottosopra… ed era tutto. […] Due anni dopo mi ero ritrovato, mi piaceva quello che stavo facendo ed ero pure bravo, volevo soltanto che lui lo riconoscesse. E più non lo faceva, più io diventavo bravo. Più persone tagliavo fuori dalla mia vita, più io mi sentivo tranquillo. La routine della cucina era così persistente, impegnativa, difficile ma viva, ho perso la concezione del tempo e lui è morto. […] Il mio tentativo di aggiustare questo locale era in realtà un mio tentativo di aggiustare le cose con mio fratello».

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