Herzog: la verità estatica come traccia svelata nell’immagine

Lorenza Sacco

Dicembre 29, 2024

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Corpi di uomini che strisciano come serpenti sulla superficie di un lago ghiacciato della Siberia per cercare di sentire l’eco delle campane di una città sommersa: l’intreccio di elementi discordanti mostra la verità estatica.
Si apre con questa immagine pluristratificata e anacronistica Rintocchi dal profondo, film diretto dal regista tedesco Werner Herzog nel 1993. Il concetto di anacronismo non è casuale: per Herzog, infatti, il regista deve agire come un archeologo e andare alla ricerca di resti del passato che possano caricarsi di un nuovo significato nel presente.

Rintocchi dal profondo (1993)

L’immagine si fa, dunque, traccia di qualcosa che sopravvive. Qualcosa che attraversa i tempi e gli spazi poiché è visceralmente umano.

La verità estatica nella polarità dell’immagine

Nel 1985, Werner Herzog spiega all’amico e collega Wim Wenders che il cinema ha bisogno di immagini nuove che riescano a veicolare il sentire dell’uomo contemporaneo.
Il dialogo tra due dei massimi esponenti del Nuovo Cinema Tedesco è una delle sequenze cardine del film Tokyo Ga, documentario dedicato al maestro del cinema giapponese Ozu, realizzato da Wenders durante una pausa dalle riprese del lungometraggio Palma d’oro a Cannes nel 1984 Paris, Texas.
Il sentire dell’uomo contemporaneo travalica la linearità delle immagini e trova sfogo, al contrario, nella polarità di esse, nelle tensioni contrastanti che le innervano e che le rendono interpretabili su molteplici livelli.


Tokyo Ga (1985)

L’elemento che sopravvive è ciò che Herzog chiama «verità estatica». Si tratta di una verità che già esiste, ma che deve essere svelata.
Il significato che il visionario regista attribuisce alla verità trae le sue radici dall’etimologia del termine greco alètheia, proveniente a sua volta dal verbo λανθάνω preceduto da α privativo, ovvero “non nascondere” e quindi “svelare, mostrare”.
La stratificazione e la pluralità di significati che permeano ogni immagine herzoghiana traducono, dunque, un’indicibilità sostanziale del vero, che è di per sé ineffabile.

«Io posso vedere il mondo sotto forma di immagini e posso elaborare un pensiero del mondo attraverso di esse».
(Werner Herzog)

Tornando all’immagine iniziale, dunque, i corpi umani si trasformano in corpi regrediti ad uno stato animalesco alla ricerca costante di qualcosa che non si può raggiungere, l’eco delle campane della città ormai sommersa, ma che è, tuttavia, presente e che viene rivelato dalla tensione dell’immagine stessa.
Roland Barthes sostiene che l’immagine sia dotata di un senso ovvio e di un senso ottuso. Il primo significato è legato a ciò che l’immagine mostra e al suo possibile referente reale; il secondo significato, invece, sfocia nella significanza, in quanto, scrive Barthes, «esso non è situato strutturalmente».

Il senso ottuso e, quindi, ciò che va oltre una definizione univoca, non è altro che la verità estatica di cui parla Herzog.

È la mamma che guarda in camera tenendo tra le braccia il figlio diventato muto dopo aver assistito alla morte violenta del padre in Apocalisse nel deserto del 1992. È il pollo che suona il pianoforte ne La ballata di Stroszeck del 1977. È il pinguino che si allontana dal gruppo e va nella direzione opposta, verso il nulla, in Incontri ai confini del mondo del 2007. È la scimmia che fuma in Echi da un regno oscuro del 1990.

Nella filmografia di Herzog, gli esempi sono innumerevoli ed evidenziano la criticità della natura umana, non a caso molto spesso associata a figure animali che agiscono seguendo logiche inconsce e imprevedibili.

La ballata di Stroszeck (1977)

Il cortocircuito tra uomo e animale, tra immensità della natura inconoscibile e indifferente e il fallire umano, tra afasia e musica perfora l’immagine, generando un fascino estatico in chi la guarda.

La musica come polarità magica: indizio per la verità estatica

Il contrasto tra il silenzio che si impone nelle immagini e la musica che si insinua in esse è un elemento particolarmente rilevante. La musica in Fata Morgana (1971), ne La grande estasi dell’intagliatore Steiner (1974), per citare qualche esempio, non è una forma di accompagnamento, bensì un elemento costitutivo del montaggio.

Un montaggio verticale, asincronico, ancora una volta conflittuale e, per questo, capace di avvicinare lo spettatore a quella indicibile verità estatica.

La parola si spezza, si ripete, perde significato e rimane suono indistinto e incomprensibile.
È il caso di film come How much wood would a woodchuck chuck del 1976, dal titolo emblematico, o ancora Ultime parole del 1967 in cui il piano della significanza viene raggiunto dalla ripetizione estenuante delle parole stesse.

Cortometraggio Ultime parole (1967)

La stessa polarità ravvisabile in Herzog si può cogliere nell’attenzione che il regista David Lynch riserva all’essenza dell’immagine.
Non è un caso che nel 2009 Lynch decida di produrre My son, My son, What have you done, diretto proprio da Herzog.
La traiettoria profondamente umana che permea i film dei due registi citati vira verso una assurdità capace di svelare il mistero dell’uomo contemporaneo.
È l’immagine del vecchio Alvin in viaggio sul suo tosaerba per raggiungere il fratello Lyle, è la carcassa del cervo investito da una giovane donna in ritardo per il lavoro, è la balbuzie della figlia Rose dopo la separazione dai suoi bambini, è il paesaggio vasto e indifferente in cui l’uomo si muove in Una storia vera di Lynch (1999).
“Film-anomalia” nella parabola del regista statunitense, esso mette in luce più di altri il confine labile tra immagine che spiazza e immagine che genera un pensiero sull’uomo e ciò che lo circonda.
E così, sono le note musicali che irrompono sui paesaggi sconfinati dell’Iowa e sulle strade lynchane che il vecchio protagonista sembra percorrere con una leggerezza solo in apparenza inconsapevole.

La verità estatica svelata come traccia nell’immagine
Una storia vera (1999)

Lo stesso vale per i viaggi dei personaggi herzoghiani, titani nella loro volontà di andare oltre il limite e sempre più umani nel loro fallire.
D’altra parte, tutto è un peregrinare, tutto è un mostrare un movimento in costante tensione che innerva e rivivifica tanto l’immagine quanto l’esistenza.

«I film di Herzog compariranno come parti di un percorso dalle molte facce, come forme che in modi diversi affrontano le stesse questioni, le stesse ossessioni e in particolare una, quella della quest per eccellenza: la ricerca delle immagini necessarie, le sole in grado di dire la contemporaneità»

(Daniele Dottorini)

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