«Vuoi conoscere la storia di Fitzcarraldo? È una strana storia, un po’ simile alla storia di Sisifo. La storia di una sfida impossibile».
(Werner Herzog)
Con queste parole, nel 1979 il regista tedesco si riferisce alla narrazione dell’avventura di Brian Sweeny Fitzgerald, e al suo tentativo di costruire un teatro d’opera nella giungla. Tuttavia, l’allora inconsapevole Herzog non sapeva che quelle medesime parole avrebbero rappresentato lui stesso e la realizzazione del film Fitzcarraldo (1982): una storia impossibile.
È possibile compiere un’analogia tra il percorso narrativo ed esistenziale del personaggio Fitzcarraldo e del regista Herzog. Entrambi visionari, con lo sguardo rivolto verso l’orizzonte, propendono verso un’utopia quantomeno possibile, tentando di realizzare il proprio sogno: chi costruire un teatro d’opera in mezzo a Iquitos e chi girare un film nell’Amazzonia.
«Avrei interpretato io il ruolo di Fitzcarraldo solo se non ci fossero state alternative. Comunque, sarei stato un buon Fitzcarraldo per il semplice fatto che il personaggio deve fare nel film le stesse cose che mi sono trovato ad affrontare anch’io da regista».
(Werner Herzog)
L’assoluto sussiste come un’entità utopica alla quale tendere, di per sé irraggiungibile, ma eternamente percorribile. Eppure, Fitzcarraldo e Herzog, che da sempre hanno cercato di vivere all’altezza dei propri ideali, non sembrano essere consapevoli di tale istanza e, accecati dalla luce del proprio sogno, si fanno strada in un mare di affanno, certi della possibilità di realizzare il loro progetto di vita. In direzione verso l’assoluto, che si rivolge solo a chi è disposto ad ascoltare.
Fitzcarraldo: «Io sono un idealista».
Così parlò Fitzcarraldo, e così parlò Herzog. Due personaggi che, incarnando una folgorante volontà poetica e poietica, capace di trascendere persino loro stessi, è come se fossero condannati dal e al proprio sogno, sentendosi giustificati a esistere solo in funzione di esso. In questo senso, Herzog e Fitzcarraldo sono la concretizzazione dell’astratto, la tangibilità dell’etereo, la materialità dell’illusione.

Werner Herzog, Claudia Cardinale (Molly) e Klaus Kinski (Fitzcarraldo)
I due idealisti sono impossessati dallo stesso assoluto che, esplicandosi nella forma dell’opera lirica e del cinema, trova la sua manifestazione concreta nelle loro pratiche di vita. Realizzare i propri sogni significa, per i due visionari, realizzare se stessi. E solo in questo atto etopoietico, direbbe Foucault, Fitzcarraldo e Herzog potranno divenire ciò che sono, direbbe Nietzsche.
Fitzcarraldo: «Mi guardi bene negli occhi. Io porterò un teatro qui a Iquitos. Io sono l’astratto. Sono i miliardi. Io sono l’incanto della foresta. Sono lo scopritore del caucciù, attraverso di me il caucciù diventa la realtà. Caro signore, la realtà del suo mondo è soltanto la caricatura di ciò che lei può vedere nei grandi spettacoli d’opera».
Se Fitzcarraldo concepisce l’opera lirica come l’espressione artistica che, trascendendo la vita mondana, è in grado di elevarsi e svelare le strutture più primigenie e autentiche della realtà, Herzog vede il cinema, quell’arte apparentemente fittizia, ma essenzialmente realistica, con il medesimo sguardo.
«Sono sempre stato interessato alla differenza tra “fatto” e “verità”. E ho sempre sentito che esiste qualcosa come una verità più profonda. Esiste nel cinema, e la chiamerei “verità estatica”. È più o meno come in poesia. Quando leggi una grande poesia, senti immediatamente, nel tuo cuore, nelle tue budella, che c’è una profonda, inerente verità, una verità estatica».
(W. Herzog)
Seguendo le orme del prigioniero liberato dalla caverna platonica, Fitzcarraldo e Herzog, attraverso le loro espressioni poetiche realizzate, entrano in contatto con l’essenza del mondo. Assumendo le responsabilità di tale consapevolezza, i due visionari dedicheranno il loro progetto di vita alla realizzazione del proprio sogno, cosicché ogni azione che apparirà stravagante, assurda e irrazionale agli occhi del mondo, sarà semplicemente finalizzata a tale scopo.
«E coloro che furono visti danzare vennero giudicati pazzi da quelli che non potevano sentire la musica».
(Friedrich Nietzsche)
Urlare sul campanile di una chiesa pretendendo la costruzione di un teatro nella giunga, e remare per 1200 miglia solo per vedere l’opera di Caruso potrà sembrare folle allo sguardo dei molti; eppure, è solo qualcuno che tenta di realizzare il proprio sogno.
Impiegare circa un anno per trovare una zona adatta per le riprese dopo esser stato cacciato da una tribù indigena, e dover rigirare quasi la metà della pellicola poiché il protagonista si ammala gravemente, potrà apparire un atteggiamento scriteriato; eppure, è solo qualcuno che tenta di realizzare il proprio sogno.

Fitzcarraldo
Nel film di Herzog, Fitzcarraldo è un affarista sui generis che, per ottenere abbastanza denaro per la costruzione del suo teatro, decide di diventare un proprietario terriero per impossessarsi del ricco caucciù. Tuttavia, per raggiungere quella zona nel cuore dell’Amazzonia dovrà compiere qualcosa di impossibile, sfatando metaforicamente la tragica condanna che Sisifo ricevette dagli dei.
Il protagonista, infatti, è colpito da un’idea apparentemente illuminante, un’idea che condurrà i destini di Fitzcarraldo e di Herzog a incrociarsi, intraprendendo la strada che conduce all’obiettivo eternamente fallito da Sisifo: trasportare una nave oltre la montagna.
Seppur con finalità diverse, chi per realizzare un film e chi per costruire un teatro d’opera, il percorso si rivela essere il medesimo.
Ed è così che il mondo vero finì per diventare favola e la favola finì per diventare mondo vero.
Ed è così che Fitzcarraldo è Herzog e Herzog è Fitzcarraldo.
In questo modo, il parallelismo tra i due idealisti emerge sempre più chiaramente: come Fitzcarraldo dovrà trovare una nave e un equipaggio, così Herzog dovette organizzare la sua troupe; come il viaggio del protagonista è realizzato grazie all’amata e ricca Molly, così quello del regista è attuabile attraverso il suo fratellastro produttore.
Per realizzare il proprio sogno, Fitzcarraldo e Herzog, che ormai rappresentano la medesima espressione poetica, devono affrontare la giungla, «un luogo dove la natura non è ancora completa… un luogo che Dio, se esiste, ha creato con rabbia… in cui anche le stelle nel cielo appaiono in confusione».
L’Amazzonia, quella terra in cui si dice che Dio non portò a termine la creazione, rappresenta lo spazio perfetto per la manifestazione libera di un ideale, nel quale l’infinito proprio della giungla e dell’animo di Fitzcarraldo possono danzare, avvicinandosi e allontanandosi, riflesso dialettico l’uno dell’altro.

Amazzonia
Per Herzog, la cui concezione della natura è tinteggiata da sfumature del sublime di kantiana memoria, un autentico paesaggio non è la mera rappresentazione di un luogo, ma si erge a specchio dello spirito dei suoi personaggi, come fossero dei veri e propri paesaggi interiori. O, nelle parole del regista, «è l’animo umano a essere presente nei paesaggi dei miei film».
«La natura non è dunque chiamata sublime se non perché eleva l’immaginazione a rappresentare quei casi in cui l’animo può sentire la sublimità della propria destinazione, anche al di sopra della natura».
(Immanuel Kant- “Critica del Giudizio”)
L’avventura di Fitzcarraldo, così come la realizzazione del film di Herzog, procede attraversando ostacoli tortuosi e minacciosi, capaci di spaventare persino il più temerario degli uomini. Ma loro non sono uomini, sono sognatori, l’incarnazione di idee profondamente tangibili.
«Se io abbandonassi questo progetto sarei un uomo senza sogni, e non voglio vivere in quel modo. Vivo o muoio con questo progetto».
Chi lo dice? Herzog o Fitzcarraldo? È favola o realtà? La verità è che ormai non c’è alcuna differenza.

Fitzcarraldo
«Sto facendo tutto questo perché continuo a vivere un sogno: l’opera. Un grande teatro nella giungla», disse Fitzcarraldo in una scena del film che, tradotto in linguaggio metacinematografico, nelle parole di Herzog suona più o meno così: «Sto facendo tutto questo perché continuo a vivere un sogno: il cinema. Un grande film nella giungla».
Se nella mitologia greca Sisifo era condannato dagli dei a trasportare un enorme macigno sopra una montagna, Fitzcarraldo e Herzog sono costretti dal loro spirito idealista a realizzare i propri sogni. Tuttavia, per farlo, entrambi dovettero trascinare una nave sopra una montagna nel pieno cuore della giungla. E così fecero.
Molly: «Chi sogna può muovere le montagne».
Herzog
Herzog avrebbe potuto rappresentare la scena attraverso un modellino, ma la metafora centrale del film è trasportare in maniera impossibile una nave su per una collina. Non avrebbe quindi potuto tradire la “verità estatica”, l’assoluto manifestato nell’arte cinematografica, e non avrebbe potuto lasciare da solo il proprio compagno di viaggio e di sogni, colui che ormai non è null’altro che una proiezione di sé.
Fitzcarraldo e Herzog vennero aiutati da circa mille indios: il primo perché ritenuto secondo un antico mito una divinità che li avrebbe condotti in un mondo privo di sofferenza, e il secondo perché li pagava il doppio della norma.
L’ingegnere sudamericano che ideò il piano per sollevare la nave sopra la collina si rese conto dell’impossibilità e della pericolosità del progetto; secondo lui ci sarebbero state diverse morti e solo il 30% di possibilità di riuscita.
Eppure, semplicemente credendo nel proprio sogno, semplicemente conducendo una vita votata all’assoluto, Herzog, e così Fitzcarraldo, riuscì compiere una missione impossibile, sconfessando Sisifo, e portando la nave sopra una montagna.
L’obiettivo che conduce alla realizzazione del loro sogno si è dunque realizzato, ma è qui che il destino dei due idealisti prende strade diverse. Una volta oltrepassata la montagna, gli indios fanno precipitare la nave nelle rapide del fiume, infrangendo l’utopia di Fitzcarraldo che sopravvive per miracolo insieme all’equipaggio.
La chimera di costruire un teatro d’opera nella giungla, cosicché gli abitanti di Iquitos potessero esperire l’opera lirica e cogliere l’essenza della realtà, svanisce nel nulla, come lacrime nella pioggia.
Herzog, che ha sempre condotto al fallimento i propri sognatori folli – quali Aguirre o Bruno Stroszek -, è come se non avesse la forza di narrare lo stesso destino al suo compagno di viaggio. Per questo Fitzcarraldo ottiene una vittoria parziale, realizza un sogno minoritario, ma pur sempre reale: il protagonista organizza sulla barca l’esecuzione dell’opera di Caruso, donando al mondo dell’Amazzonia quell’esperienza estatica che necessitava intimamente di condividere.
Ciò accade perché il sogno di Herzog si realizzò, dopo quattro anni di lavorazione finalmente terminò il proprio film, e non poteva che far vivere la stessa sensazione al suo compagno di viaggio con un finale che, per quanto surreale, era possibile, poiché era accaduto.
«Non sono solo i miei sogni. Credo che questi sogni appartengano a tutti. E la sola differenza tra me e gli altri è che io riesco a esprimerli. Ed è quello che fa la poesia o la pittura o la letteratura o il cinema. Semplicemente questo. (…) Dobbiamo esprimere noi stessi, altrimenti saremmo come vacche in mezzo a un campo».
(W. Herzog)
Herzog confessa l’angosciante e universale necessità di realizzare i propri sogni, quelle utopie che gli permettono di divenire ciò che è, anche a costo di rischiare la vita, anche a costo di apparire pazzo agli occhi del mondo.
«Dovrei smettere di fare film. Dovrei andare dritto in manicomio».
(W. Herzog)
Molly: «Oh Fitz, sei proprio matto!».
Fitzcarraldo e Herzog, a loro modo, realizzano il proprio sogno. Non sono quindi, come per Sisifo, da immaginare felici, poiché, attraverso lo sguardo finale di Fitz, diviene chiaro come loro, purtroppo o per fortuna, siano felici.