Una carezza e una lama: un film alimentato dal contrasto
Una carezza e una lama. Si presenta così Vermiglio, film Leone d’argento alla 81ͣ Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia eppure scartato dai Premi Oscar 2025 nella sezione Miglior film internazionale.
Secondo lungometraggio della regista bolzanina Maura Delpero, dopo Maternal scritto e diretto nel 2019, Vermiglio colpisce per il contrasto che lo attraversa e che lo alimenta, rendendolo un film penetrante e magnetico.

La dolcezza dell’amore e il dolore dell’esistenza
La dolce carezza si scontra con il reale crudele
Da una parte, la dolce poesia visiva che contraddistingue l’opera e che incanta lo spettatore, immerso poco alla volta nell’angusta Vermiglio nel corso dell’ultimo anno di guerra: una fotografia limpida, inquadrature che alternano campi lunghi e invadenti primi piani, paesaggi montuosi e solenni che sembrano fare da scudo in una natura sospesa e a volte troppo silenziosa.
Dall’altra, l’asprezza tagliente della vicenda, a tratti non lontana dal dramma verghiano, fatta di tradimento, di gelosia e di morte. Insieme a tutto questo, l’irruzione di una realtà inevitabile, la guerra e le sue pene.
È, dunque, in questa forte opposizione tra ingenua delicatezza da un lato e crudele sofferenza dall’altro che si inserisce la vicenda della famiglia Graziadei: una microstoria quotidiana dentro la grande Storia alla fine della guerra.

«Una storia di bambini e adulti, tra morti e nascite, delusioni e rinascite. Racconto il loro tenersi stretti nelle curve della vita, passando da collettività a individui».
(Maura Delpero)
Figure femminili delicate e taglienti: in loro si esplicita il contrasto più profondo
Sono i personaggi femminili ad essere delineati con semplicità e nitidezza nei loro tratti conflittuali e ad essere collocati in un tempo ostile: Lucia, resa sposa e madre da un giovane soldato siciliano disertore, conosce la passione d’amore e, con essa, l’abbandono, il tradimento e la vendetta; Ada, giovane donna angosciata dalla noia ripetitiva delle giornate di montagna e dai piaceri da cui tenta invano di liberarsi, è costretta a celare la sua natura più intima; Flavia, ragazza attenta e sensibile, è l’unica a cui viene data la possibilità di continuare a studiare in condizioni di grande povertà.

Le dinamiche conflittuali che plasmano queste figure femminili emergono in modo evidente già in Maternal, primo lungometraggio della regista e Menzione Speciale al Locarno Film Festival nel 2019. Come suggerisce il titolo, infatti, la maternità diventa strumento di indagine della natura femminile ed elemento di riflessione della sua complessità quotidiana, tra senso di pudore e desiderio carnale. Sono queste le principali traiettorie che la Delpero approfondisce e che le consentono di dare forma a donne sfaccettate, fragili e allo stesso tempo estremamente consapevoli della loro essenza: dal menarca di Flavia, al parto di Lucia e della madre, fino al ritiro in convento da parte di Ada in Vermiglio, dall’amore materno provato da suor Paola verso la piccola Nina, alla fuga di Luciana e l’abbandono della figlia in Maternal.

Maternal (2019)
Un contrasto anche nei toni musicali
I tanti ritratti umani che popolano Vermiglio vivono in una temporalità che scorre ciclica e rituale, scandita dalle gravidanze, dalle nascite, dalle morti e dal passare inesorabile della stagioni. Non è un caso, infatti, che numerose sequenze siano accompagnate dalle note tratte da Le quattro stagioni di Vivaldi, con una vivida alternanza di toni armoniosi e trasognati e altri inaspettatamente accesi e violenti.
L’attenzione alla componente musicale, generata spesso da un grammofono in scena, esplicita sia la rilevanza semantica che la musica acquisisce, sia la ritmicità naturale a cui la narrazione tende, una ritmicità a tratti lenta.
La lentezza che può scaturire dall’andamento diegetico sospeso, tuttavia, non rappresenta un limite, al contrario dà luce a due componenti imprescindibili del film: il silenzio e il segreto.

Ancora un contrasto: la parola si fa muta, il silenzio fa rumore
Vermiglio gioca con la reticenza: la quiete del paesaggio, le frasi interrotte, i dialoghi frammentati o soltanto sussurrati dei personaggi.
La parola muta è frutto di un’evidente difficoltà linguistica-espressiva che genera a sua volta, nonostante i legami emotivi, una distanza inevitabile tra i personaggi: è un non volersi capire fino in fondo, di cui a volte, se si pensa al rapporto tra il padre e il figlio maggiore, si ha piena consapevolezza. Oppure è un non potersi capire, anche se si cerca invano di farlo: il soldato Pietro lascia a Lucia un biglietto in cui la parola scritta viene sostituita dal disegno di un cuore, espressione silenziosa di un sentimento provato, ma destinato a morire.
Accanto al silenzio si colloca il segreto, inteso come ciò che non viene detto. Ogni personaggio nasconde dentro di sé il suo segreto, un segreto individuale che si trasforma in un segreto collettivo e condiviso, riuscendo a fare rumore: il dolore e l’amore come cardini dell’esistenza.
Grazie a tutto questo, Vermiglio si carica di una potenza significativa estremamente attuale, in cui le dinamiche profonde di una famiglia numerosa, vissuta in una realtà che assume toni arcaici e lontani, si rispecchiano nella complessità dell’oggi e nelle sfaccettature dell’io contemporaneo, in un contrasto inguaribile tra carezze e tagli nascosti.
E così, nel silenzio della stanza buia, dopo che la madre ha chiuso sola tutte le tende, si chiude anche il film: il sipario familiare cala, ma la storia umana continua.




