C’è ancora domani, per chiunque.

Paolino Santaniello

Novembre 28, 2023

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Un titolo, una storia, un urlo: C’è ancora domani per il cinema italiano.

Quel domani è già qui e ce lo narra Paola Cortellesi al suo spettacolare esordio alla regia, narrando la storia di Delia: una donna del secondo dopoguerra alle prese con tanti mestieri, figli e un marito violento reduce da due guerre, magistralmente interpretato da un inedito Mastandrea.

«Date alle donne occasioni adeguate ed esse saranno capaci di tutto»

(Oscar Wilde)

La pellicola della Cortellesi ci proietta in una Roma in cui la cioccolata era una novità portata dai soldati americani. È una Capitale che riesuma mestieri estinti, come il ripara-ombrelli. Una metropoli fatta di piccole realtà, in cui la solidarietà si diffonde con la condivisione di sigarette statunitensi e vasetti di marmellata donati. In cui non manca l’ironia, vero sale della quotidianità romana. È l’Italia contesa tra Monarchia e Repubblica, sorvegliata dagli americani, ritratta in tanti capolavori, non solo cinematografici, come il libro di Elsa Morante La Storia.

È una società anche vittima di sé stessa quella del dopoguerra, perché l’istruzione non era accessibile a chiunque, specialmente alle donne. Quanti di noi hanno avuto nonne che hanno potuto frequentare solo fino alla quinta elementare? Quante volte abbiamo visto le nostre nonne scrivere lentamente su un foglio di carta con quella grafia tipica dei bambini delle scuole primarie?

La prima scena si svolge nella camera da letto di un seminterrato sito in un quartiere popolare romano. Un luogo non meramente scenografico, ma dotato di molteplici chiavi di lettura.

È la caverna di Platone in cui la nostra protagonista è incatenata. Rappresenta il suo animo sommerso dalla polvere di una vita coniugale violenta che l’ha spenta, giorno dopo giorno.

“Stai zitta”, “Se pò sapè che c’hai in quella testa vuota?” risuonano come in un eterno eco.

Frasi feroci contro cui, ancora oggi, si ergono grandi intellettuali, come Michela Murgia, e che ora trovano in Paola Cortellesi l’ennesima instancabile avversaria.

La routine di Delia è micidiale. Sveglia, prendere uno schiaffo dal marito con contorno di insulti, aprire le finestre, respirare le esalazioni della polvere e della minzione dei cani, preparare la colazione e dritti in città. Prima di uscire, ci sono anche gli ossequi e i doveri di assistenza al suocero convivente, Ottorino, il vero Pater familias della storia. Un personaggio che non perde occasione per rimarcare la validità dei suoi metodi educativi, appena edulcorati dalla bravura di Giorgio Colangeli.

«Non c’è nel petto dell’uomo passione più forte del desiderio di far pensare gli altri come lui»

(Virginia Woolf)

C’é ancora domani, ritratto di una famiglia del dopoguerra

Ottorino: «Nun je puoi menà sempre sennò s’abitua. Una, ma forte»

Già solo questa semplice battuta fornisce un concetto chiave per comprendere il fenomeno della violenza di genere: è un problema di educazione.

Delia sopporta vagonate di umiliazioni. Nonostante abbia la forza di fare ben cinque lavori al giorno, dalle siringhe a domicilio alla riparazione di ombrelli, non le è riconosciuto nemmeno il diritto a ricevere un salario pari a quello di un uomo. Nemmeno di usare i soldi per comprarsi una camicetta colorata, in quanto il marito la sera siede a tavola e batte cassa, lei deve rendere il conto, oltre a preparare la cena.

Un’ altra battuta di forte impatto è quella con cui Delia confessa ad una sua amica di “rubare” i soldi guadagnati col proprio lavoro. Equipara la gestione in autonomia del proprio salario a un furto, perché quei soldi “appartengono” al marito.

Il film nei suoi primi minuti descrive le dinamiche ambientali che condizionano la vita di Delia senza ricorrere ad artifici retorici, con una “‘cinquina” di immagini molto espressive. Il pregio di questo film è la sua chiarezza. Non dà spazio a equivoci di alcun tipo e fornisce, con pragmatismo, le risposte alle domande che spesso vengono ignorate.

“Cos’è la famiglia patriarcale?
Cos’è il patriarcato?”
“Che cos’è la disparità di genere?”.
È il sedersi per ultima a tavola e mangiare freddo quando hai cucinato.
È la mancanza dei “grazie” ad ogni servizio domestico.
È l’insulto che svilisce la capacità di pensiero.
È il lavoro sottopagato solo perché sei donna.
È lo schiaffo imprevedibile.
È il consegnare tutti i soldi al proprio marito.
È La gelosia immotivata
È  violenza.
Paola Cortellesi e Valerio Mastandrea in una scena del film

«Il cuore di una donna combatte a lungo, ma non muore, è fedele a se stesso»

(Kahlil Gibran)

Il film ritrae la violenza contro le donne nella sua quotidianità. Si tratta di comportamenti routinari come gli impulsi del marito e i pregiudizi di una società maschilista. Sono queste le ombre che popolano la caverna in cui Delia è imprigionata. Delia di fronte ai figli e ai vicini giustifica il consorte, mostrando anche tenerezza, ormai completamente fagocitata dal suo carnefice. Come sopravvivere altrimenti? Dove trovare aiuto in un mondo completamente assuefatto da dogmi maschilisti che legittimano nel maschio una posizione di supremazia?

Se nessuno si erge a dire che la donna non è oggetto di un diritto potestativo maschile, le botte non saranno fermate. Le percosse diventeranno normali e quindi invisibili, indifferenti a tutti, anche a chi le subisce. Quotidiane.

La potentissima scena in cui Delia, rea di aver accettato un po’ di cioccolata da un soldato americano riconoscente, viene pestata dal marito geloso è una delle scene più forti del film. Inscenando un grottesco balletto che mima una serie di percosse, chi osserva testimonia quel fugace rivolo di sangue pronto e di quel livido intorno al collo pronti a scomparire sotto l’ombra della potestà patriarcale e della cecità sociale.

In quella scena, Paola Cortellesi rappresentata l’invisibilità del dolore che ha massacrato le donne.

Perché far sparire i segni del pestaggio di questa scena?

Paola Cortellesi e Valerio Mastandrea in una delle scene più intense

Perché a subire quotidianamente botte accade che la violenza penetri nell’animo fino a espandersi come petrolio sull’acqua, erodendo la vittima nel profondo. Il terrore spinge a identificarsi con il carnefice, con i suoi bisogni fino a dimenticare perfino te stesso.

“Basta che finisca in fretta. Basta che si sfoghi”. Quante donne sono state costrette ad aggrapparsi a questo pensiero, alla speranza della celerità del pestaggio, per non soccombere alla disperazione più totale?

Non sarà facile per chi osserva togliersi dalla mente la tensione che si crea in scena prima dell’ennesima sfuriata di Ivano. Il suo silenzio terrorizza anche i figli, fino a infettare la figlia più grande, Marcella. Un plauso va alla sua interprete Romana Maggiora Vergano, che con la sua espressività interpreta un “grillo parlante” dai commenti sferzanti verso la madre, che però nascondono tutto il dolore di vivere sotto la tirannia di un padre violento.


Delia: «Te però sei in tempo»
Marcella: «Pure te, Mà»

Nella prima parte della storia, Marcella ci viene presentata come una ragazza sveglia, a cui è proibito studiare, perché deve lavorare e trovare marito. Il matrimonio con un uomo in grado di dare una cospicua dote nuziale è il compito primario di questa figlia. Una figlia amorevole, ma dura, che cerca di fare anche da “madre” a Delia, spronandola alla ribellione, a sfidare quel marito violento.

Finché il film non ci dà il suo ennesimo schiaffo, consegnandoci un altro elemento cui forse non diamo tanto peso: la pervasività della violenza. La violenza è un morbo infettivo che può condannare i bambini a diventare persone violente o vittime. La violenza macchia anche chi ne è spettatore fino al punto di assuefarlo e renderlo cieco a quella che subisce in prima persona. Non c’è niente di più facile da introiettare rispetto alla violenza, purtroppo.

Marcella, promessa in sposa ad un ragazzo benestante, è così segnata nel profondo dalla violenza paterna da non riconoscere nel futuro sposo i segnali della prevaricazione.

Basta un po’ di rossetto per far scattare a tenaglia le mani del fidanzato sul volto della fidanzata con un sibilante “tu sei mia“. Quella ragazza così sveglia è, in realtà, cieca di fronte a quella prospettiva di giogo che le proietta il promesso sposo. Ed è qui che Delia, nel sentire i discorsi possessivi del futuro genero, ha lo sguardo più ferito e dilaniato di tutta la pellicola: quello della solitudine. Delia sa benissimo che se ostacolasse il matrimonio della figlia con quel ragazzo di “buona famiglia” sarebbe messa a tacere in un istante, o con gli insulti o con gli schiaffi.

Questo sarà il punto in cui Delia uscirà da quel seminterrato, dalla sua caverna, pronta a far sentire la sua presenza, a dire la sua, ancorché con gesti (non proprio silenziosi). 

Un percorso in salita, non privo di colpi di scena, in cui si scoprirà che l’arma più potente contro la violenza è costituita dalla parola. O meglio, dalla forza di dare un significato concreto alla propria parola, e quindi al proprio pensiero. Rendendo tangibile la propria voce, dandole una consistenza empirica.

«Non giudicare una donna in ginocchio: non sai mai quanto è alta quando si alza»

(Mie Hansson)

Paola Cortellesi, un debutto da record

Il film di Paola Cortellesi parla a tutti mostrandoci un quotidiano di tanti anni fa, ma che è stata la normalità del nostro paese per tanto tempo. Si pensi che fino agli anni ’80, almeno, vigeva l’attenuante del delitto d’onore, che riduceva la pena per l’omicidio della consorte in stato d’ira per un’offesa alla propria immagine. Attenuante non prevista per la controparte femminile, la quale rischiava l’ergastolo.

Lo ius corrigendi che il marito vantava verso moglie, in vigore fino al 1963, le disparità salariali, la voce della donna resa muta da violenze istituzionalizzate da distorsioni culturali e anche giuridiche. Nel 1968 l’adulterio femminile era reato e fino al 1975 l’uomo era titolare della patria potestà.

Questi dati non sono fittizi: sono storia. La violenza di questo sistema sociale, però, non può essere colta appieno se limitata ad una visione astratta, senza che vi sia un esempio concreto in cui è facile immedesimarsi.

Si rischierebbe di liquidare il problema con la proverbiale frase “mal comune, mezzo gaudio“.

Forse è per questo che C’é ancora domani è così potente. Ha il pregio di Illuminare la vita di una singola donna per guardare alla violenza di genere come un fenomeno che, ancora oggi, fa male.

«La violenza contro le donne è una delle più vergognose violazioni dei diritti umani»

(Kofi Annan)

Il film ci offre scorci sulle donne attorno a Delia senza tralasciare una visione sfaccettata sugli uomini.

Non di rado compaiono figure maschili positive, come il soldato americano, il meccanico, il marito dell’amica Marisa, per poi soffermarsi su vari uomini che, invece, sono consumati dalla logica della prepotenza e della reificazione della donna.

La bravura della regista sta nell’essersi riuscita a immunizzare il film da qualsiasi censura di “generalizzazione”, offrendo uno sguardo empatico (non per forza compassionevole) verso l’ uomo patriarca.

Per tutta la durata assistiamo a uomini pronti a mordaci giudizi e a schiaffi gratuiti, ma lenti nel comprendere cosa si celi nello sguardo e nel cuore della donna. In alcune scene è stata catturata una componente della violenza maschile che spesso viene dimenticata di fronte al timore che essa infonde: l’infantilismo.

In molte scene, Ivano sembra davvero un bambino baffuto rimasto incastrato a quella fase di formazione della personalità in cui si conoscono soltanto tre parole: Mamma, Papà e mio.

Non sono rare le volte in cui Ivano è sbeffeggiato dal padre allettato che non riconosce al figlio appieno il ruolo di padre di un nuovo nucleo familiare. Anzi, se non fosse per la dignità di Delia, Ottorino sarebbe capace di opporre al figlio uno jus prime noctis verso la nuora.

In più scene, invece, possiamo scorgere la scarsa autostima di Ivano che traspare dall’uso eccessivo di colonia e brillantina per mere partite a briscola al bar; dal perfezionismo che impone alla moglie e la cui violazione comporta una valanga di botte. Anche solo per il rovesciamento di una guantiera di maritozzi è occasione di botte.

Un pranzo con il ritmo di una marcia.

Assistiamo alle scenate di un uomo brutale incapace di riconoscersi negli sguardi dei figli e della moglie, incapace di mantener fede alla parola “scusa”, di crescere e assumersi le proprie responsabilità. Un uomo incapace perfino di rendersi conto che la moglie non gode nello stare con lui, perché anche la sessualità è ormai un dovere.

In un altro ciak, Paola Cortellesi spezza il cuore con una singola frase pronunciata dopo un apatico amplesso: “Lo vedi che ti voglio ancora bene?”.

7 parole che spingono chi osserva a “fare la buca” sulla poltrona, nascondersi sotto terra e sentire quella vergogna che un uomo possessivo e violento è incapace di provare. Chiunque è chiamata/o a farsi carico di un dispiacere che ammutolisce: quello di vedere gli uomini come prigioni, come strade lastricate di spine.

È su questa strada che Delia si muove e su cui si sono mosse tantissime donne. E ancora sono costrette a farlo.

«In piedi signori, davanti a una donna»

(Chisciotte, William Jean Bertozzo)

Il film della Cortellesi è una pellicola in bianco e nero dall’anima profondamente Rock, pronta ad accendere i colori della memoria di un’Italia pesantemente ingrigita dalla cronaca giudiziaria. Dimostra che C’è ancora domani per il cinema italiano. Quello dei grandi maestri in grado di ritrarre l’animo umano nelle sue pieghe. Quel cinema in cui i grandi personaggi sono persone qualunque. Un autentico colpo di genio, da godere al cinema per un’esperienza davvero unica. Un film intelligente che ci chiede “non siete stanchi di sentire ancora attuali, nel 2023, questi episodi di volenza? Non siete stanchi di sentire notizie di maltrattamenti e stalking? Di assistere ancora ai femminicidi senza fare nulla?

L’immedesimazione nella storia e in Delia è naturale, fluida. Non consente allo spettatore uomo di bloccare il processo immedesimativo dicendo: “Ma io non tratto così la mia compagna”.

L’intento della regista non è muovere un atto di accusa agli uomini, non intende incolpare e punire.

Parla al senso di responsabilità di ciascuno di noi, perché è innegabile che da un sistema che privilegiava l’istruzione e il guadagno maschile gli unici ad averci guadagnato, sono gli uomini.

Ci dimostra quanto la nostra mentalità sia ancora condizionata da dogmi patriarcali e lo fa sfruttando la più dolce delle sue favole: quella del principe azzurro (interpretato da Vinicio Marchioni).

Fino alla fine, chiunque leggerà la trama attraverso il mito del cavaliere che salverà la dama, interpretando alcune scene alla luce della suddetta fiaba. Sulle note de’ La sera dei miracoli del maestro Lucio Dalla, Paola Cortellesi compie un gioco di prestigio che nel finale farà a pezzi questo mito con eleganza, sfruttando i preconcetti dello spettatore.

«In fondo al tuo cuore, dunque, il ritmo mantiene il suo eterno battito»

(Virginia Woolf)

Il tempismo con cui questo film è uscito nelle sale ne amplifica la potenza e ci impone di guardare cosa significhi la violenza di genere.

Non si parla di una storia passata. Il peso dell’attualità, delle tristissime vicende che siamo costretti ad ascoltare ogni giorno, spinge chi osserva a scendere nel suo personale seminterrato e guardare in faccia alla realtà. Gli unici a dover uscire dalla caverna di Platone siamo noi uomini, per combattere una realtà di frequenti episodi di maltrattamenti familiari e di violenze. Per ergerci al fianco delle donne, ovunque esse vogliano, pur di fermare questo ciclo di possesso e dolore, schiaffi e morte, di sfruttamento e umiliazione. Un film che ci chiede da che parte vogliamo stare, e il pensiero non può che andare a quei nomi di donne uccise e vittime di prevaricazioni quotidiane che hanno come teatro le case, i mezzi pubblici, i luoghi di lavoro, gli studi televisivi e le discoteche.

È un film che pone una domanda scomoda:

“Tu vuoi essere ancora parte di questo?”
“Tu vuoi essere indifferente?”

Come restare muti a queste domande? È una storia, quella delle donne, fatta di costanza e tenacia, di forza e pazienza, di cui ogni uomo dovrebbe desiderare di farne parte, come scudieri di queste fantastiche forze della natura. Essere attori pronti a restituire alle donne quello spazio vitale a lungo schiacciato.

La libertà femminile non nasce da un riconoscimento legislativo o sociale: esiste ed ha una vitalità capace di cambiare le cose in modo concreto e in modi di cui gli uomini non sono capaci. La storia italiana lo dimostra.

Non è un film che  fornisce una soluzione al problema della disparità di genere e al sopruso maschile, non pecca di retorica o di presunzione. Non ripartisce colpe ma attribuisce le responsabilità a chi di dovere: a tutti noi. Essere violenti, verbalmente e fisicamente, non è da macho, non assicura autorevolezza e serietà: fa male e basta.

Causa dolore e nulla più.

Emanuela Fanelli e Paola Cortellesi in una scena del film

Intelligente, ritmato, forte, con quel tocco di ironia utile a farci digerire i bocconi amari che serve, senza una parola in eccesso o in meno.

La prova attoriale di Cortellesi e Mastandrea è l’apice di due artisti poliedrici in grado di sostenere due personaggi e un contesto emotivo veramente duro. Una complicità tra i due che squarcia lo schermo, senza il ricorso a battute memorabili o monologhi. Bastano i loro sguardi e i loro gesti per dare spessore ad ogni scena.

Un duo pronto che ci consegna un messaggio concreto: la violenza si combatte guardandola in faccia, riconoscendola, schierandoci al fianco di chi la subisce.

L’iter del film parte da un seminterrato per culminare su un coro che si erge a baluardo contro l’ennesima scenata di violenza. Ciascuno di noi è invitato su quel coro contro la violenza.

Serve coesione al nostro Paese, per completare la rivoluzione culturale in atto, iniziata e combattuta dalle donne. C’è ancora domani può essere uno stendardo rappresentativo di tutte quelle donne che nel loro piccolo lottano e resistono, da sempre. Alla luce di questo film e del contesto sociale in cui è uscito nelle sale, qualcosa di importante è iniziato.

Meglio non dire cosa, perché C’è ancora domani per scoprirlo.

Sarà qualcosa che, però, si farà strada con un passo costante e instancabile, come hanno fatto le donne fino ad ora, che hanno lottato e lottano con tenacia e senza posa al proprio inesorabile ritmo, come un orologio nella tempesta.

C’è ancora domani, per chiunque.

Leggi anche: Céline Sciamma – Per una voce queer nel cinema francese

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