Persona (1966) di Ernst I. Bergman è uno di quei classici senza tempo capaci di testimoniare perché il cinema può dare un contributo significativo alla cultura umana: esplorando le pieghe più sottili della mente di una donna, quest’opera mette a nudo l’erotico, superbo realismo dei desideri inconsci di una femminilità costitutivamente “scandalosa”.
Le due protagoniste del film, Elisabeth e Alma (Liv Ullmann e Bibi Andersson) creano un legame reciproco attraverso un accordo comunicativo fatto di ombre cinesi, non-detti e attrazioni squisitamente eteree.
L’effetto della loro relazione è un’asettica rappresentazione dell’incomunicabilità umana, che si appoggia senza soluzione di continuità sull’opera silenziosa e invisibile dell’inconscio individuale, meschino bagaglio dei drammi inespressi legati al passato.
Come due dramatis personae al centro della scena, le donne ingaggiano un intersoggettivo gioco di sguardi e parole, al tempo stesso straziante e sublime. Bergman è bravissimo a fare dell’una lo specchio dell’altra, mostrando l’evoluzione del rapporto in maniera così graduale da rendere impossibile allo spettatore quando nasce il dramma.
Le sfumature psicoanalitiche dell’opera non sono espresse solo dalle scene più surrealiste e psichedeliche (come l’incipit), ma anche e soprattutto dai dialoghi a senso unico tra la loquace infermiera e la muta attrice, apparentemente incapace di uscire dal suo blocco dopo l’attacco di risa isteriche che l’aveva colta nel bel mezzo della recitazione.
L’esclusiva femminilità di Persona

Persona
Che la condizione femminile rappresenti per molti un’enigma, è una realtà nota allo stesso Sigmund Freud; nella sua esperienza clinica con donne isteriche, il medico viennese si trovò spesso a contatto con le esperienze nevrotiche più svariate delle rappresentanti della società austriaca.
«Una domanda alla quale non sono riuscito a rispondere, nonostante trent’anni di ricerche sull’animo femminile, è: “cosa vuole una donna?”
(S. Freud)
La scoperta di Freud fu che le repressioni pulsionali imposte dalla cultura asburgica di fine Ottocento erano intollerabili per la psiche umana: il risultato era che inconsci desideri rimossi trovavano nei sintomi isterici un canale di scarica alternativo.
Barcamenandosi tra esperienza clinica e speculazione teorica, il padre della talking cure psicoanalitica giunse a svelare che fantasie sessuali represse inaccettabili influenzavano i racconti di vita delle sue pazienti.
La tematica principale di Persona non è tanto l’esperienza sessuale, quanto i vissuti a essa collegati: seduzione, disinibizione, erotizzazione e soprattutto gravidanza.
Il gioco delle parti tra Elisabeth e Alma assume tutte le caratteristiche di un platonico dramma erotico fatto da attrazioni, rifiuti e non-detti letali. Al di là del mutismo di Elisabeth, infatti, l’infermiera si confida quasi subito con lei, cercando approvazione e riconoscimento per i suoi puramente femminili desideri sessuali.
Alla cura ospedaliera operata da Alma, dunque, si riflette la cura spirituale offerto dall’ascolto silenzioso di Elisabeth: come in un’atipica stanza d’analisi, l’intera narrazione di Persona costituisce il setting psicoanalitico che accoglie le passioni, le paure e le tempeste soggettive dell’infermiera.
Questa relazione diventa gradualmente più intensa finché Alma non arriva a confidare addirittura l’orgia avuta con uno sconosciuto e il successivo aborto.
«Molti mi hanno detto che sono una buona ascoltatrice. Divertente, eh? Nessuno si è mai preoccupato di ascoltarmi. Come stai facendo tu adesso. Tu mi ascolti.»
(Alma)
Tra identificazione e investimento libidico

Persona
La poetica del film di Bergman è fortemente subliminale, nevrotica e surreale; per questi motivi, la psicoanalisi si offre come valida chiave interpretativa del legame tra le due donne.
Lo studio del continente nero della femminilità ha rappresentato per Freud un enigma particolarmente complesso: mentre individuare nella sessualità maschile la spinta pulsionale generale dell’evoluzione umana, più complicato è stato riconoscere le medesime dinamiche inconsce nelle donne.
Il celebre complesso d’Edipo, caratterizzato da un investimento del bambino maschio verso la figura materna e una contemporanea identificazione con il padre, diventa un organizzatore della psiche nella misura in cui consente al soggetto di liquidare tendenze sessuali inconsce nei confronti della figura d’attaccamento femminile che costitutivamente non possono essere soddisfatte.
Nel caso della femmina, quello che conta nel complesso d’Elettra è un Edipo negativo, al quale la bambina accede in virtù del riconoscimento della mancanza del fallo, caratteristica che la renderà per sempre inferiore e manchevole rispetto al maschio.
Quello del primato del fallo è uno dei punti più controversi della teoria freudiana: se il film di Bergman ha a che fare con questo studio della femminilità, è perché per il padre della psicoanalisi il vero compimento di quest’ultima corrispondeva con la maternità, perché solo partorire un bambino poteva rappresentare per la donna un vissuto simbolicamente paragonabile alla percezione di possedere un pene.
Ovviamente, si tratta di una teoria retrograda, sessista e parziale, che faceva luce sui misteri psicosessuali umani in una fase primordiale, quando la psicoanalisi era ai suoi albori. Con il tempo, lo stato di cose è cambiato.
Persona: essere madre o essere donna?

Persona
«Tu difendi te stessa. Tu difendi te stessa nella disperazione»
(Alma)
I rapporti tra Alma ed Elisabeth diventano più complessi quando più intensi diventano i vissuti che le due donne arrivano a condividere: dai desideri sessuali sopiti alle esperienze del passato, passando per il modo meschino e sottile con cui l’attrice sembra manipolare l’infermiera, una condizione sempre più drammatica sembra gravare sulla qualità del loro legame.
Il lavoro di civiltà di Bergman, poetico e pragmatico, sta nella sua capacità di rendere questo film un manifesto di quelle caratteristiche che rendono i rapporti umani radicalmente insopportabili: da un lato il desiderio di approvazione sociale spinge ciascuno di noi ad aprirsi, dall’altro l’immancabile vergogna ci allontana sempre di più da un Altro responsivo e accogliente, portandoci sospetti che ci fanno chiudere in noi stessi.
La bellezza sospesa di questo film sta nel fatto che le due facce di questa medaglia dialettica sono racchiuse nel leggero e intollerabile mutismo di Elisabeth: alla base della sua condizione, così come della sua risata, c’è un segreto che alla fine Alma riesce a sviscerare, riscattando il momento in cui l’attrice l’aveva umiliata con le lettere che denunciavano le sue confessioni.
Con un momento di consapevolezza che mette a nudo il trauma più profondo dell’attrice, Alma vede in una semplice foto tutto ciò che la psicoanalisi post-freudiana ha teorizzato sul femminile, correggendo le posizioni del fondatore della talking cure.
Persona – The Boy in the Picture Scene
Perché la verità è che dietro la risata isterica di Elisabeth, dietro il suo mutismo, si cela il vissuto mai accettabile di aver voluto essere madre per un attimo, di aver anche solo lontanamente pensato per un istante di poterlo essere.
Lei, attrice realizzata e prestigiosa, non può concedersi il lusso della maternità, perché è realizzata come donna: confutando Freud, Melanie Klein e altre autrici, tra cui anche due psicoanaliste italiane, sono andate a riconoscere e valorizzare una specificità dello sviluppo sessuale femminile, superando la riduttiva equazione tra desiderio del pene e desiderio di un bambino.
Il travaglio va avanti, Elisabeth partorirà un figlio che odia, non accettando mai l’amore che egli le indirizza.
Lei, prima donna e poi madre, è disgustata dal conflitto tra i due ruoli, quello della madre e quello dell’attrice, e il mutismo è solo il sintomo di questo vissuto inconscio intollerabile.
Se esso ha la possibilità di emergere, è perché Bergman mette Alma dall’altro lato, figura speculare ma opposta rispetto ad Elisabeth, dura quanto lei, donna quanto lei.