Robert Eggers e la poetica del colore

Camilla Maggi

Febbraio 1, 2025

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“Wouldst thou like to live deliciously?” chiede Black Phillip a Thomasin in The Witch. In Italiano, la domanda viene tradotta come “vivere nel lusso”. Ma questa scelta non riesce ad esprimere lo stesso contenuto semantico della parola “deliciously”, che invece vibra di tonalità diverse, evocando sia il piacere sensoriale del gusto, sia un’idea di piacere proibito, quasi carnale. La dimensione percettiva viene coinvolta completamente da un linguaggio cinematografico che, attraverso una tecnica meticolosamente pensata, crea atmosfere che si riescono quasi a toccare. Potremmo dunque dire così: i film di Robert Eggers sono deliziosi.

In questa retrospettiva vedremo come la dimensione percettiva ricopra un ruolo di primo piano nella sua filmografia. Questa attenzione ossessiva per i particolari emerge già dalle sue sceneggiature, che Jarin Blaschke, direttore della fotografia di tutti i suoi film, descrive come qualcosa che non aveva mai letto prima: dense di dettagli e ricche non solo di immagini ma anche di suoni ed odori. Osserveremo come il regista manipoli la sfera percettiva, e in particolare come l’uso del colore contribuisca a creare una continuità nella sua concezione estetica e narrativa.

Sebbene lo stesso Eggers abbia recentemente affermato di non poter più sopportare di guardare il suo primo film, The Witch rimane una testimonianza essenziale della sua cifra stilistica e noi, da lì, partiremo.

È il 27 gennaio 2015, esattamente 10 anni fa, quando al Sundance Film Festival viene proiettato il primo lungometraggio di Robert Eggers. La trama racconta di una famiglia di puritani inglesi, esiliata dalla propria comunità e costretta a vivere ai margini di una foresta inospitale ed inquietante nel New England del 1630. Fin da subito, la foresta diventa il teatro mortifero in cui si celano streghe e creature demoniache e in cui scomparirà misteriosamente il fratellino più piccolo. Da quel momento, Thomasin, la sorella maggiore che stava giocando con lui prima della tragedia, finirà gradualmente al centro dei sospetti di tutta la famiglia.

Nelle note di apertura della sceneggiatura, Eggers afferma che, per rappresentare in modo credibile un mondo in cui gli eventi soprannaturali erano percepiti come una componente normale della vita quotidiana, era indispensabile che ogni elemento del film fosse trattato con il massimo realismo. L’approccio estetico segue esattamente questo proposito. Tutto è desaturato: è così che i personaggi vedono il mondo. I dogmi del puritanesimo dominano la loro visione della vita religiosa, “purificata” dal piacere di ogni tipo, dalla vanità, dallo sfarzo della Chiesa anglicana. La famiglia conduce la propria quotidianità seguendo i valori della modestia, della rinuncia, della privazione e del lavoro: è una vita ridotta all’osso, vissuta nella paura del peccato e dell’insidiosa presenza del diavolo.

L’austerità visiva quindi sostiene l’intento dichiarato nella sceneggiatura di rappresentare un mondo in cui il soprannaturale è parte integrante della realtà, onnipresente nella mente di chi ne è terrorizzato. Utilizzando una palette dominata da colori sobri, illuminazione naturale e forti contrasti tra luce ed ombra, Eggers rende autentico il mondo rappresentato, precisamente intagliato nello spazio emotivo del suo periodo storico.

The Witch

Questa opacità permea anche le ombre della notte. Il buio della foresta, ad esempio, non viene mai rappresentato con neri assoluti. Siamo abituati a concepire il male come qualcosa di esterno, estraneo, che minaccia lo spazio sicuro e protetto della casa o della comunità, provenendo da luoghi ignoti e pericolosi. Nella nostra immaginazione, il male dovrebbe arrivare dalla foresta inesplorata, dalla notte profonda, manifestandosi proprio quando la luce si ritira e lascia spazio alle streghe e alle entità malvagie. Nell’universo di The Witch il male fa un movimento opposto: le ombre prendono forma negli spazi domestici, evocate dalla flebile luce giallo-ocra di candele e lanterne. Una luce che non rinfranca, che non illumina se non per intensificare il contrasto, privando gli spazi di profondità: lo sfondo scompare, completamente invaso da ombre che sottraggono la funzione purificatrice della luce.

È nel momento in cui la foresta si accende di fuoco e le streghe fluttuano nell’aria che essa si rivela realmente buia, diventando un luogo inquietante in cui ogni punto di riferimento svanisce, oppresso dall’oscurità. Il giallo incandescente della fiamma ribolle, ma il suo calore non scalda, non consola: consuma. È un calore seducente, che attira, ma soffoca, brucia l’ossigeno, toglie il respiro. Quello che presenta Eggers è un mondo ambiguo, il familiare e il rassicurante possono improvvisamente trasformarsi in qualcosa di inquietante. È la coscienza dei personaggi che è intollerabile a se stessa, e allora devono trovare il modo di proiettare le loro angosce e paure verso l’esterno: “che succede in questa fattoria? Non è una cosa naturale”. Il loro mondo è irrimediabilmente fuori equilibrio. Il razionale e l’irrazionale condividono la scena, danzando insieme in una relazione impossibile da sciogliere. La fiamma gialla diventa allora il simbolo di questo contrasto: essa, come la loro fede, è allo stesso tempo fonte di luce e di oscurità.

The Witch - Fire

Il colore viene invece sottratto dalla pellicola successiva, The Lighthouse, girato interamente in bianco e nero, con uno stile che prende ispirazione dalla fotografia del diciannovesimo secolo. La storia tormentata di Wake e Howard è narrata attraverso una lente da 35 mm che quasi intrappola le scene, costringendo lo spettatore in uno spazio visivo limitante, che offre una prospettiva soltanto parziale.

Il faro è il fulcro della storia, il punto di equilibrio che sostiene la narrazione: è il motivo per cui Wake e Howard si trovano lì, ma anche il simbolo del loro conflitto e della loro autodistruzione. Il bianco e nero qui è usato per costruire tutto un universo dicotomico che disorienta lo spettatore, dislocato in uno spazio liminale tra paranoia, assurdità, pazzia. Vediamo forze opposte in costante tensione, prime fra tutte la realtà e la sua negazione, la sua trasmutazione in sogno delirante. La dicotomia si traduce in una vera e propria in-tensione visiva e narrativa, dove il bianco e il nero non si contrappongono mai in modo netto, ma agiscono come grandezze intensive: variano per grado, per potenza, generando una continua oscillazione senza mai raggiungere una divisione definitiva.

Ad un certo punto del film, vediamo Howard osservare Wake nudo, in piedi davanti alla luce del faro. In quella scena, Wake si rivela come un oggetto duale: simbolo di desiderio e disgusto, incarnazione delle pulsioni conflittuali che tormentano Howard. Il corpo di Wake, completamente esposto, risveglia in Howard un’attrazione primitiva e inconfessabile, che viene però immediatamente rifiutata e negata per evitare di perdere il controllo di sé e della propria identità. La dicotomia del conflitto sessuale rimane irrisolta, senza possibilità di riconciliazione. Infatti, le fantasie di Howard si fanno sempre più inquietanti: tentacoli che lo avvolgono e il corpo di Wake che domina i suoi pensieri.

The Lighthouse - Wake

Allora Howard tenta di appropriarsi della luce, di trasgredire la sua condizione e raggiungere una conoscenza proibita. Ma quando finalmente riesce a fissarla, quando “conosce” ciò che aveva sempre cercato, il suo tentativo di possederla culmina in un tormento prometeico. Anche in questo caso, la luce non illumina né redime: acceca, lacera e distrugge chiunque osi guardarla direttamente. È una luce quasi corporea, densa e tangibile, che attraversa il corpo di Howard, lo consuma dall’interno e infine lo annienta. Quando Howard finalmente raggiunge la luce, il suo corpo e la sua mente sono consumati da una rivelazione che lo riduce al nulla. A questo punto il film si trasforma in una sorta di ultra-noir, quasi un negativo fotografico, come a significare che la realtà di Howard è ormai ribaltata. La luce non lo accoglie né lo illumina, ma lo respinge, e la conoscenza non lo libera, lo condanna: ora sa, e non può più dimenticare ciò che ha visto.

Ancora una volta, la luce si rivela ambivalente: proprio come il fuoco in The Witch, che generava ombre inquietanti e invadenti, la luce in The Lighthouse non affranca né guida, ma distrugge.

The Lighthouse - inside

La palette cromatica di The Witch torna nel terzo film di Eggers, The Northman. Così come ritorna un tema che ci stiamo accorgendo essere quasi costante: la confusione tra ciò che è reale e ciò che non lo è. Potremmo dire che c’è una continuità tematica – questo continuo confronto tra realtà e sovrannaturale – riflessa in una continuità cromatica.

Innanzitutto, la razionalità in The Northman si mostra nella simmetria delle scene, nella lentezza dello zoom che ritaglia la scena perfettamente e argina il contenuto semantico che invece è estremamente caotico. L’eccesso di violenza viene inserito all’interno di un sistema razionale costruito attraverso il solito gioco di tinte bluastre e verdastre desaturate, alle quali si aggiunge un vibrante giallo-ocra che spicca nell’insieme.

La scena della battaglia contro il Draugr, ad esempio, è quasi monocromatica: i toni desaturati spogliano l’immagine di quasi tutto il colore, lasciando emergere solo una tinta blu opaca. In questo contesto, la violenza appare controllata, appiattita, come se quella battaglia non appartenesse al tempo e allo spazio della narrazione, ma a una dimensione mitologica. È un momento che si situa al di fuori della realtà immediata, che la trascende come parte integrante di un sistema di simboli e archetipi propri della mitologia nordica.

The Northman - Draugr

Al contrario, nella battaglia finale sono le tonalità infuocate di arancione e giallo a dominare lo schermo, creando un netto contrasto con la scena precedente. I colori vividi e incandescenti riempiono la scena, rendendola monocromatica nel suo bagliore infuocato. Tuttavia, i protagonisti della battaglia appaiono come ombre, i loro corpi sono sottratti a quella luce travolgente e sembrano quasi sagome. È come se fossero parte integrante della distruzione che li circonda, mentre il fuoco si rivela al tempo stesso distruttivo e purificatore, simbolo della culminazione del viaggio di Amleth. Sembra, in un certo senso, che la violenza assuma i tratti di un rituale, diventando una componente essenziale dell’equilibrio naturale dell’universo. È come se il caos dell’irrazionale fosse contenuto e sorretto da un sistema razionale sottostante che ne stabilisce i confini, come accadeva in The Witch.

The Northman - Final battle

In Nosferatu, infine, la palette cromatica trova una sintesi rispetto ai film precedenti. Blaschke ha utilizzato gli stessi filtri personalizzati impiegati in The Lighthouse, ma questa volta su pellicola a colori. In particolare, le scene notturne sono dominate da tonalità bluastre, anche in questo caso estremamente desaturate, che creano un effetto visivo simile al bianco e nero. Tuttavia, questa estetica monocromatica viene spezzata da esplosioni di colori vividi, spesso evocati dal bagliore del fuoco, che si stagliano in modo drammatico contro il resto delle immagini. Questo senso di immobilità cromatica è necessario all’esplosione improvvisa dello scintillio rosso-arancio del fuoco, che quindi acquista ancora più intensità. Il film si trova in costante tensione romantica: la luce ha bisogno dell’ombra per manifestarsi. Lo stesso Blaschke afferma di aver tratto ispirazione dai paesaggi di Friedrich, sotto consiglio di Eggers stesso: “Rob è stato molto chiaro sul fatto che si dovesse puntare sul romanticismo. Conosco meglio il mondo della fotografia rispetto a quello del cinema, quindi tendo a partire sempre da lì. Tuttavia, essendo il 1838, era necessario ispirarsi alla pittura. Non si tratta di una trasposizione letterale, si tratta di catturare una sensazione: dai dipinti romantici emerge qualcosa di unico nella luce, qualcosa che sembra quasi ‘altro’”.

Goethe e i romantici avevano già approfondito questa idea: la luce si rivela e acquisisce significato solo nel contrasto con il suo opposto. Senza l’opacità e la densità dell’ombra, la luce perderebbe la sua concretezza, rimanendo qualcosa di astratto e inafferrabile. Eggers e Blaschke trasformano questa intuizione in un principio strutturale e narrativo in cui la contrapposizione non si configura come un dualismo nel senso tradizionale, perché non c’è alcuna unità finale verso cui tendere, né una sintesi dialettica che risolva il conflitto. Si tratta piuttosto di una condizione di opposizione infinita, un equilibrio instabile e precario, in cui luce e ombra coesistono in tensione perpetua, alimentandosi a vicenda senza mai trovare una vera conciliazione.

Nosferatu 2024 - Moonlight

Stando alla teoria dei colori di Goethe, i colori nascono dalla relazione tra luce e oscurità, che ne determina il valore, l’intensità. Prendiamo come riferimento quelli che abbiamo visto essere i colori utilizzati da Eggers: il blu e il giallo. Il blu, ad esempio, non è altro che un nero schiarito, quindi un colore essenzialmente scuro, che tuttavia lascia filtrare un po’ di luce. Il giallo, al contrario, sarebbe un bianco offuscato, in cui il movimento è opposto: è l’oscurità che infiltra la luce. Questi due colori, pur rappresentando movimenti opposti, non si contrappongono del tutto, ma si intrecciano in una relazione di interdipendenza. È un incontro, si potrebbe dire, che resta sempre in potenza, mai in atto. In Nosferatu il rosso, che sarebbe il punto di equilibrio tra blu e giallo, è presente solo nel sangue che, sebbene sia un elemento centrale in un film di questo genere, non si espande mai. Rimane confinato, trattenuto dal blu desaturato, oppure viene infuocato dalla rifulgenza del giallo caldo, ma senza mai essere protagonista.

Eggers dunque riesce, ancora una volta, nel suo intento di mettere in equilibrio la razionalità e il suo contrario. Ogni film è un tentativo di rivelare la struttura nascosta di ciò che pensiamo sia irrazionale – la violenza, le paure più profonde – attraverso una raffinatezza ed una precisione tecnica che conferisce alle scene una particolare consistenza: le rende lisce, quasi scivolose. La costante tensione tra invisibile e visibile, tra caos e ordine sono come increspature sulla superficie di una distesa oleosa. Il contenuto caotico viene ristretto, ridimensionato dalla macchina da presa, che invita a rilassare lo sguardo, aprendo uno squarcio su un mondo che sembra contenere l’infinito e allo stesso tempo ha un effetto claustrofobico, che soffoca per la densità.
La peculiarità della sua estetica risiede nel suo modo di giocare con la percezione e con i sensi degli spettatori, costruendo mondi che sembrano al tempo stesso vicini e irraggiungibili, impenetrabili. Così, come afferma lo stesso Eggers, il suo cinema ricerca il sublime, obbligandoci a sostituire la paura con la comprensione. Attraverso l’uso dei colori, egli riesce a costruire luoghi in cui l’essere umano, come dice Pindaro, è davvero “sogno di un’ombra”.

Leggi anche: The Lighthouse – Esistenza e mitologia tra Prometeo e Platone

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