Due luoghi sperduti e lontani dalla civiltà, una fattoria situata negli oscuri boschi del New England e un faro decadente su un’isola circondata da acque inquiete. Zone geografiche che si fanno eco delle aree più remote della mente, e che costringono tutti coloro che vi giungono a confrontarsi con i demoni che attendono nei frammenti di fragili identità. Questi sono i luoghi di The Witch e The Lighthouse, i primi due lungometraggi di Robert Eggers. Due lungometraggi che da subito hanno destato scalpore, assumendo quasi immediatamente lo status di cult, generando fazioni di numerosi ammiratori e detrattori.
Le ragioni del successo di questi titoli sono senza dubbio molteplici: l’estetica ricercata, il linguaggio antico, le sensazioni ataviche provocate. A tutto ciò è possibile aggiungere un ulteriore concetto, che in qualche modo ha contribuito al dirompente impatto che questi film hanno avuto. Un aspetto abbastanza secondario, per non dire invisibile a una lettura superficiale, ma che, a pensarci bene, è il nucleo attorno al quale gravita tutto il resto: il ruolo sociale e filosofico della sessualità di ciascun personaggio.
Questo aspetto non solo fornisce una chiave di lettura per poter decodificare comportamenti e situazioni che caratterizzano i film, ma addirittura permette di costruire un ponte concettuale tra le due opere, rendendole, di fatto, simili a un’unica, grande, indagine antropologica ed esistenziale.
I luoghi, come già accennato, svolgono un ruolo fondamentale. Non è un caso che Robert Eggers fosse uno scenografo prima di diventare regista. Gli spazi in cui le vicende si svolgono non sono da intendere solamente nella loro valenza geografica. Sono luoghi che riflettono lo stato psicologico dei loro abitanti, contribuiscono essi stessi a plasmare le estreme perversioni nelle menti dei personaggi, e sono, infine, i personaggi che proiettano le loro pericolose instabilità sull’ambiente circostante.
Partendo da questo assunto, appare chiaro fin da subito che la mente ha un ruolo centrale in questo grande disegno. Ma se assumiamo l’importanza della mente umana, non è possibile in alcun modo esimersi dal discutere del sesso e della sessualità, e della loro influenza sulle psicologie di ciascun personaggio.
To live deliciously – La liberazione sessuale della donna in The Witch di Robert Eggers
XVII secolo, New England. Una comunità di puritani condanna una famiglia all’esilio. Quest’ultima si rifugia nelle prossimità di un bosco, lontano da tutte quelle distrazioni peccaminose avallate dalla civiltà. I componenti di questa famiglia sono il padre William, la madre Katherine e i loro figli Thomasin, Caleb, Mercy, Jonas e Samuel. A un primo periodo di quasi idilliaca sopravvivenza a contatto con la natura seguirà una rapida degenerazione, che porterà alla completa distruzione della famiglia.
In che modo la componente sessuale assume un ruolo centrale in questa storia? Partendo dalla superficie, ci troviamo in un contesto storico in cui la donna non gode degli stessi diritti dell’uomo. In più, il “microcosmo sociale” in cui la vicenda si svolge è una famiglia esiliata per essere troppo estrema nell’applicare la parola di Dio. E tra i numerosi concetti espressi nelle Sacre Scritture vi è un’indubbia percezione della donna come “naturalmente” sottomessa all’uomo, soprattutto nell’Antico Testamento.
Dio ha creato l’uomo a sua immagine e somiglianza, non la donna. I principali profeti sono uomini. Tra i comandamenti vi è «non desiderare la donna d’altri», in cui si attribuisce alla donna uno status di proprietà, non dissimile da altri beni dell’uomo, come una terra, un oggetto o un animale.
Robert Eggers si riferisce a tutti questi aspetti quando presenta la famiglia al centro della vicenda. William è il capofamiglia. Il padre dei suoi figli, marito di sua moglie, predicatore, figura spirituale e, quindi, anello di congiunzione tra la fallibile finitezza umana e l’irraggiungibile infinitezza divina. Essendo dotato di questo potere, ogni parola pronunciata da questo personaggio è indiscutibile. Non sono solo la forza dell’uomo, il ruolo sociale del padre e del marito a legittimare ciò, ma è soprattutto la sua funzione di guida spirituale a inondare di timorosa obbedienza i membri della famiglia. E William, in perfetta coerenza con quanto asserito finora, è un uomo.
Katherine, sua moglie, è la perfetta moglie cristiana. Sottomessa all’unico ruolo di procreatrice, completamente soggiogata spiritualmente e psicologicamente dal marito e, aspetto fondamentale, ben contenta di questa sua posizione. Questo perché anche lei, come molte altre donne di epoche passate, è convinta della “giustezza” di questo disegno.
Ci si chiede com’è possibile che nel corso della storia la società patriarcale sia stata così predominante? Esiste una ragione filosofica per cui questo è avvenuto? A provare a fornire una risposta a questo quesito fu Simone de Beauvoir, e le sue argomentazioni sono senza dubbio illuminanti anche ai fini di questa analisi. La filosofa francese, infatti, provò a definire il ruolo filosofico della donna all’interno della società maschile e coniò il famoso termine “Il secondo sesso”.
La donna è sempre stata considerata dall’uomo come seconda. Da un punto di vista religioso, l’uomo è creato prima della donna. Da un punto di vista sociale, le donne, eccezion fatta per regine e altre figure di sangue nobile, non potevano ambire a posizioni di potere. E, infine, da un punto di vista psicologico, basti pensare a Freud, che considerava la donna come un maschio castrato.
Questa doverosa digressione è fondamentale se si vuole analizzare un’opera da questo punto di vista sessuale. Alla luce di tutto ciò, Katherine è dunque una donna ridotta nella sua dimensione di puro oggetto. E lei, essendo cresciuta all’interno di questo contesto culturale, non crede che ci sia nulla di male. Per di più, lei è tra le più critiche della figlia Thomasine che, per via della sua giovane età, non è ancora stata soggiogata dal modo di pensare dell’epoca.
Proprio Thomasine è il personaggio più interessante dell’opera. Lei è una giovane ragazza nella piena età dello sviluppo, uno dei periodi più delicati della vita di una donna. In questo momento non è solamente il carattere o la mente a processare in maniera differente gli avvenimenti esterni, ma cambia anche il corpo.
Arrivano le prime mestruazioni (memoria del peccato originale che riaffiora secondo le Scritture), con tutto ciò che ne consegue, e in più i lineamenti e le forme della figura cominciano ad assumere tratti più distinti e definiti. Thomasine sperimenta tutti questi cambiamenti e le conseguenze del suo semplice essere donna saranno gravi.
È l’unica figura femminile, oltre a Katherine, con cui i componenti maschili della famiglia hanno contatti. Questo, intuibilmente, comporta l’instaurarsi di strani rapporti. Innanzitutto, un senso di competizione con l’austera madre, che cerca in tutti i modi di sminuirla, accusandola perfino delle più piccole stranezze che accadono lì intorno. Poi, un rapporto simil-incestuoso con suo fratello Caleb, il quale scruta il petto della sorella, ammaliato dai primi accenni di seni. A tutto questo si aggiunge la figura del padre William il quale, già in precedenza dominatore di sua moglie, non aspetta altro che fare lo stesso con sua figlia.
La repressione sessuale della donna è infatti un atto fondamentale per far sì che l’uomo continui a sovrastare. L’essere umano vive, secondo Simone de Beauvoir, in un costante stato di ambiguità, subendo la tensione di essere sia soggetto che oggetto.
Il dominio dell’uomo sulla donna nel corso della storia è stato ottenuto attraverso la privazione di questa ambiguità. Alla femmina veniva privato l’essere soggetto, venendo declassata a stato di puro oggetto. La donna non può desiderare, ma deve essere solamente desiderata. Non può considerare il proprio piacere fisico, in quanto ella è solamente il mezzo attraverso cui soddisfare il piacere dell’uomo.
William, da formidabile incarnazione di uomo del suo tempo, è consapevole dell’importanza di questi concetti. Thomasine è nel pieno del suo sviluppo fisico e sessuale e, quindi, si trova nel momento decisivo per alimentare questa definitiva forma di controllo. La repressione, nel caso di Thomasine, avrà le sembianze mostruose del senso di colpa che la attanaglierà per buona parte del film.
La giovane, infatti, viene ritenuta responsabile della scomparsa del suo fratellino Samuel, disperso proprio mentre era sotto la sua custodia. Da questo momento in poi, nessuno dei componenti della famiglia la guarderà con gli stessi occhi. Lei subirà costantemente delle forme di umiliazione da parte di tutti, a partire dalle accuse esplicite di sua madre, a cui si contrappongono i silenzi non meno dolorosi del padre, fino alle crudeli asserzioni dei gemellini, che la paragoneranno alla malvagia strega del bosco.
Proprio la strega, non a caso, ha le sembianze di una donna bellissima dalle forme promiscue e seduce Caleb. La strega viene dipinta così non solo per rimarcare il concetto di tentazione secondo i cristiani (i piaceri della carne), ma anche per sottolineare come sia percepita pericolosamente la sessualità femminile e, quindi, per estensione, quella soggettività esistenziale un tempo negata e ora riacquisita.
Questo concetto, così abilmente espresso da Robert Eggers, ritornerà nel finale, esattamente dopo il massacro di tutti i componenti della famiglia, di cui ora Thomasine è l’unica superstite. Nell’ultima sequenza, Thomasine verrà approcciata da una misteriosa presenza, simboleggiata dal caprone Black Philip, che le propone di scardinare le catene della sua sessualità.
Black Philip: «Wouldst thou like to live deliciously?».
Ciò che Black Philip propone è la liberazione sessuale, la perdita di ogni forma di controllo. In altre parole, il raggiungimento dello spettro opposto alla condizione attuale in cui versa il secondo sesso. La perdita dell’oggettività esistenziale, la trasformazione in puro soggetto. Thomasine, nuda e finalmente libera da ogni tensione spirituale, si libra nell’aria, facendo esplodere tutto ciò un tempo represso, riempiendo il suo primo piano di una risata bellissima e terribile.
Caduta di un falso Prometeo – L’elogio del narcisismo maschile in The Lighthouse di Robert Eggers
Cosa succede se un essere umano diventa puro soggetto? Anche in questo caso, secondo Simone de Beauvoir, ci si ritroverebbe in situazioni pericolose, in quanto verrebbe ancora una volta meno quell’ambiguità che ci caratterizza come esseri umani. The Witch si presenta come una straordinaria analisi che porta un persona oggettificata (la donna) a divenire puro soggetto. Ma quali sono le estreme conseguenze di questa nuova condizione? Robert Eggers, in uno slancio di coraggiosa arroganza, prova a fornire un’opera gemella al suo primo lungometraggio con l’obiettivo di focalizzarsi su una situazione speculare e opposta a quella presentata nel primo film. L’opera in questione è ovviamente The Lighthouse.
Due uomini sono completamente isolati dal resto del mondo su un’isola. Nucleo fisico e narrativo di questo luogo è il faro, il cui ultimo piano, il luogo dove viene conservata la luce, è accessibile solamente da uno dei due guardiani. Questo provoca gelosie e invidie reciproche, che daranno vita a un rapporto ai limiti del malsano.
Come già asserito, The Lighthouse è per tanti versi un’opera diametralmente opposta a The Witch. A cominciare dal fatto che, in questo caso, il focus si sia spostato interamente su due personaggi maschili. Per di più, entrambi i personaggi si chiamano Thomas, corrispettivo maschile di Thomasine.
Il periodo storico e sociale in cui si snoda la vicenda è ancora quello in cui predomina una visione patriarcale dei rapporti umani. Quel che però Robert Eggers compie in questo caso è la sottrazione totale della presenza femminile, andando dunque a privare il maschio del dominio sul secondo sesso. Se non esiste l’oggetto o la persona da dominare, il dominatore non può essere più definito tale.
La furia sprigionata dal rapporto tra i due inquilini del faro non è altro che la perdita di questa natura dominante, e il disperato tentativo di affermarsi sull’altra persona. Se ci affidiamo alla terminologia coniata da Simone de Beauvoir, per far sì che uno dei due domini l’altro, bisogna che la personalità dominata venga vista come un “secondo sesso”, in pratica come una donna.
Thomas Wake: «Look at ye, handsome lad with eyes bright as a lady».
Paragonando l’altro alla donna, non si sta facendo altro che un tentativo di oggettificazione. Entrambi i personaggi sono coinvolti in questo perverso gioco, ed entrambi, per poter vincere, fanno leva sul loro essere soggetto, conducendo questa identificazione ben oltre i limiti consentiti dalla sopportazione umana. Il tutto si può riassumere in un’egocentrica battaglia che fa dell’elogio del narcisismo maschile il suo perno.
Perché un film come The Lighthouse risulta essere un elogio più che una condanna di questa condizione? Semplicemente perché il film stesso, così come il suo creatore Robert Eggers, indugia piacevolmente in quel narcisismo ritratto sullo schermo.
La messa in scena è oltre i limiti del manierismo, con l’uso del formato, del sonoro e dei punti macchina particolari, a cui si aggiungono i riferimenti ai movimenti artistici ispiratori, sbattuti violentemente in faccia allo spettatore.
Così facendo Robert Eggers crea una cornice perfetta in cui incastrare questo racconto di dominazione psicologica e sessuale. Le inquadrature sono piene di riferimenti che spostano la lettura su un campo psicoanalitico, come il faro, che lo stesso Eggers, forse non così casualmente, paragonò a un fallo.
Il formato scelto, un 1.19:1, simile a un 4:3, comprende grandi barre laterali nere che non solo aiutano a settare un’atmosfera claustrofobica, ma conferiscono “verticalità” all’immagine. Essendo una lotta tra due persone per raggiungere uno stato superiore, il trovarsi più in alto rispetto all’altro è fondamentale.
I due maschi del film, battagliando su chi dei due sia “più soggetto dell’altro”, finiranno con un’inevitabile quanto prevedibile autodistruzione reciproca. Infatti in che cosa consiste l’essere puro soggetto? Nel fare leva quasi unicamente sui propri istinti, senza porvi alcun freno. In altre parole, per usare un’istanza prodotta dal padre della psicoanalisi, i puri soggetti sono tutti coloro che sprigionano senza limiti il proprio Es.
Non è un caso che, in questo film, ci siano molti riferimenti a Freud. Come affermato in precedenza, la visione che Freud ha della mente umana è stata soggetta, e lo è tutt’ora, ad aspre critiche che etichettavano le sue teorie come “maschiliste”. The Lighthouse è infatti un film sull’uomo (inteso come maschio e non nella sua accezione generale) e, in un’intervista, Robert Eggers dichiarò che Freud mangerebbe compulsivamente popcorn nel guardare un film come questo.
I due uomini, dunque, persi nello sfoggiare il loro Es, sconfinano sempre di più in zone comportamentali estreme e danno vita a rapporti di variegata natura. Vi è una dinamica padre-figlio tra i due, per via dell’età, in cui il figlio vuole uccidere il padre e viceversa. E, poiché stiamo discutendo dell’Es, alla pulsione della morte si accompagna necessariamente quella erotico-amorosa, che dà vita a momenti di strana e inquietante tenerezza tra i due.
Tra le numerose citazioni esplicite di cui il film si fa fiero portatore, vi è anche quella relativa al mito di Prometeo. Il personaggio di Robert Pattinson, Ephraim Winslow/Thomas Howard, viene condannato a un “Promethean fate”. E, infatti, sarà esattamente questa la sua sorte. Lui accede alla luce del faro, dopo aver sconfitto il suo rivale e, dopo un momento di inebriante felicità, come se avesse avuto l’ultimo e definitivo orgasmo della sua vita, precipita nell’abisso della scalinata e il suo fegato viene mangiato da uno stormo di gabbiani.
Queste immagini, che di certo si riferiscono al ben noto mito di Prometeo, presentano però un’incongruenza più che evidente. Il personaggio mitologico di Prometeo sfida gli dei e accetta il suo destino per rubare il fuoco. Questo fuoco, però, non è stato rubato per compiacere i propri istinti e il proprio narcisismo. Prometeo rubò il fuoco per farne dono all’umanità intera. Per altruismo, per generosità e compassione.
Ephraim/Thomas, invece, lo fa come ultima azione di un processo che aveva come unico fine l’esaltazione di se stesso. Non esiste, in The Lighthouse, un mondo esterno a cui tornare. Non esiste un dopo a seguito di quell’azione. È l’autodistruzione figlia di quel narcisismo maschile di cui è impregnato il film. È l’unica, atroce, conseguenza di un’esistenza perpetrata dal puro soggetto.
Non è chiaro perché Robert Eggers abbia scelto di citare Prometeo in questa situazione. Assecondando questa teoria del narcisismo, si potrebbe pensare che sia stato un orgoglioso tentativo di apparire colti, pur ignorando che la differenza delle motivazioni del personaggio filmico e di quello mitologico renda completamente errato il paragone. In questo senso, il film si riveste proprio di quell’autocompiacimento al centro di ogni cosa, rendendo il tutto ancora più criptico e interessante da analizzare.
Probabilmente è vero che Frued avrebbe apprezzato questi due lungometraggi. Allo stesso modo, forse, avrebbe apprezzato anche Simone de Beauvoir, che in questi film avrebbe trovato conferma del proprio pensiero. E non è forse così illogico pensare che parte del successo di queste due opere sia proprio da ricondurre a queste indagini antropologiche, che lo spettatore, anche il più distratto, in qualche modo subisce pur non rendendosene conto.
Ciò dimostra quanto sia importante un cineasta come Robert Eggers nel nostro contesto storico e culturale, e di quanto sia indispensabile il suo cinema. Un cinema che non ha paura di osare e di inimicarsi parte del pubblico e che sfida lo spettatore nei modi più interessanti, riportando in auge il pensiero di grandi menti del passato e mettendo al centro di ogni cosa l’essere umano, in tutte le sue contraddizioni.