Testa o croce?: o come decostruire e ricreare il cinema western

Francesco Malgeri

Agosto 14, 2025

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Al Film Festival di Locarno abbiamo visto Testa o croce?, la seconda opera di Alessio Rigo De Righi e Matteo Zoppis già presentata all’ultimo Festival di Cannes. Autori giovani, fedeli a loro stessi sin dal primo mediometraggio, Belva nera, del 2013, che con questo film alzano notevolmente l’asticella, sia a livello di produzione sia di evoluzione della loro cifra stilistica. Ma andiamo con ordine.

La cinepresa di Alessio Rigo De Righi e Matteo Zoppis è un pennello, che agisce sulla tela della materia cinematografica ripensandone colori, suoni, recuperandone modalità, stili, e infine ricollocando il tutto in un preciso universo, non incasellabile poiché libero e contaminato.

E ciò che più mi interessa del loro cinema, dai tempi della folle prima visione di Re Granchio nel 2021, è proprio il modo in cui concepiscono e trattano le loro storie; più esperimenti narrativi, alle volte, decostruzioni di generi e modelli ricomposte in nuove visioni.

Per tracciare una linea di demarcazione tra i loro due lungometraggi, la storia di Luciano in Re Granchio viene generata dai racconti di anziani cantastorie paesani, che raccolgono immagini e versioni tramandate oralmente per generazioni, fino a giungere a noi posteri nella forma finale di De Righi e Zoppis, incorniciata e musicata dalle composizioni di Vittorio Giampietro.

Testa o croce?, invece, è ripescaggio di un mito realmente esistito ed esaltato, quello di Buffalo Bill, interpretato da John C. Reilly. Un americano a Roma a inizi ‘900, la cui teatralità è quasi marchio di un mondo che all’epoca esisteva solo in immaginari neanche troppo condivisi. A lui De Righi e Zoppis affidano la narrrazione, a lui consegnano la storia di Rosa e Santino, che si dispiega all’interno del film stesso.

Una storia nella storia, inventata, supposta, che ha l’unico compito di esistere, di vivere di vita propria, di poter essere tramandata.

E che non sia vera, che non rispecchi gli eventi come sono realmente andati, non ha importanza. Non sono racconti lineari, sono favole zoppe, sporche, vissute: gli archetipi che i due registi pure utilizzano (il cowboy sregolato e la nobildonna in pericolo) sono semplici chiavi di volta per giungere a un’umanità sgangherata che non esige credibilità, bensì fiaba e poesia.

Da fugaci interviste e incontri – anche durante lo stesso Festival di Locarno – traspare chiaramente la loro sete di cinema libero, laddove il mezzo è semplice veicolo verso un impianto estetico già ormai riconoscibile da lontano, nel modo in cui sono ritratti i personaggi, è utilizzata la luce, concepiti i costumi, impostato il ritmo.

L’immagine libera, vivida e crespa di una testa mozzata, di un dente d’oro, di rane che saltellano in sterpaglie fangose, è cinema restituito al cinema.

I capitoli narrati dalla voce di Buffalo Bill non rispecchiano lo svolgimento dei fatti che ci scorrono davanti, così come il genere western, evidente nelle premesse, viene riletto e rielaborato.

Un universo cinematografico nel quale lo spettatore è invitato a entrare, per abbandonarsi alla voce di due cantastorie – o cercatori di storie – che appaiono quasi alieni rispetto alle svilenti dinamiche di un certo cinema italiano contemporaneo, come atterrati da terre lontane per consegnarci un cinema puro nelle sue fondamentali e meravigliose impurità.

E che tale purezza venga protetta, in primis dai suoi due autori.

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