Re Granchio – Realismo allegorico e cinema di genere al TFF
Si è aperta da una manciata di giorni la trentanovesima edizione del Torino Film Festival. Storica rassegna dedicata alle opere prime e seconde provenienti (perlopiù) da produzioni indipendenti, che quest’anno ha visto la sua offerta di fuori concorso riempirsi di pellicole già passate – e in alcuni casi premiate – per Toronto, per il Sundance, il SSIFF e la Quinzaine des Réalisateurs, sezione parallela del Festival di Cannes.
Quest’ultima in particolare ha ospitato il primo lungometraggio di finzione degli esordienti Alessio Rigo de Righi e Matteo Zoppis, ultimo tassello di una trilogia ideale (e graduale) dedicata ai racconti popolari e alle leggende di tradizione contadina. Prima due documentari: nel 2013 un corto, Belva Nera; nel 2015 un lungo, Il Solengo. Oggi, Re Granchio si propone come un punto di connessione fra Italia e America, inserendosi nel solco cinematografico di Alice Rohrwacher, ma arrischiandosi poi in un variegato cinema di genere.
Re Granchio – Dalla Terra
Dovremmo trovarci nella Tuscia di fine ‘800, lungo un tratto di selciato. Eppure a percorrerlo non è un carretto, quanto un Pandino Fiat immatricolato 1980. Siamo in ritardo di un secolo, quasi l’età anagrafica dei primi volti su schermo, i nostri (inaffidabili) narratori: campagnoli e cacciatori, gente del posto figlia della ruralità e del folklore locali. Sorbiscono vino, intonano canti popolari, raccontandosi e correggendosi l’un l’altro vecchie leggende.
Su tutte, quella di Luciano (Gabriele Silli): ubriacone, esiliato, nobile, rivoluzionario, sovversivo, genio, matto? Nessuno lo sa. Ma tutti sono a conoscenza del Fattaccio di Sant’Orsio – primo dei due capitoli del film – di cui quest’orco barbuto si sarebbe macchiato, per proteggere la donna amata nella Tuscia di fine ‘800. Emarginato dai suoi compaesani per l’atteggiamento rissoso e ribelle nei confronti del dispotico principato locale, Luciano si innamorerà e sarà ricambiato da Emma (Maria Alexandra Lungu), figlia di un contadino locale.
Luciano: «Al nostro Principe! Ai nostri diritti! Alla Repubblica!».
Quando però il Principe tenterà di strappargli anche l’amata – dopo il diritto di transito per le pecore – Luciano reagirà con furia e fiamme per salvarla dalle grinfie delle guardie. Ma l’atto eroico si trasforma in tragedia, per una di quelle disgraziate coincidenze che si verificano solo nei più terribili drammi alla William Shakespeare. Così il mostro, più per vergogna che sotto costrizione, finisce esiliato nella Terra del Fuoco, approdo aspro e insidioso dall’altra parte dell’Emisfero Boreale. Letteralmente, come titola il secondo capitolo: “In culo al mondo”.
Re Granchio – Alla Luna
Fin qui, Re Granchio veste perfettamente i panni di una nuova, particolarissima fetta di cinema italiano che abbiamo voluto circoscrivere con un vero e proprio manifesto del realismo allegorico. Un modesto tentativo di raggruppare e dare un nome a questa corrente che affonda le proprie radici nel realismo magico di memoria latinoamericana e raccoglie alcuni dei vanti del cinema nostrano. Su tutti l’Alice Rohrwacher di Lazzaro Felice, premiato a Cannes con la Palma d’Oro e che più si avvicina al film del TFF.
Per questa sua fotografia patinata, la pellicola granulosa e il rapporto d’aspetto, ricorda però un cinema decisamente d’altri tempi. Qualcosa di molto simile, vuoi l’aura ottocentesca, vuoi il racconto folklorico, a L’enigma di Kaspar Hauser (1974) di Werner Herzog, almeno a sensazioni. Almeno fino a metà film, fino all’esilio. Qui il racconto ai giorni nostri si interrompe, i vecchi non ne conoscono il continuo. Conoscono bene, invece, il meccanismo tipico della diceria di paese, ogni volta che viene tramandata di generazione in generazione.
Narratore: «Lo sai che succede no? Che dieci parole diventano quindici».
Così riprendono la storia, stavolta a braccio, cambiando completamente registro e lasciandosi guidare dalla fantasia alla scoperta del Nuovo Mondo e dei personaggi che ne popolano il variegatissimo cinema di genere, dal film in costume, al romanzo storico, al western. Luciano, vestito di poncho alla Clint Eastwood, si trova ora imbarcato assieme a una ciurma di manigoldi e topi di fogna alla ricerca di un tesoro leggendario, di cui un prete gli ha rivelato l’ubicazione in punto di morte, come ne Il buono, il brutto e il cattivo (1966) di Sergio Leone. Avventuriero, conquistador, pirata, pistolero, prete: Come un mutaforma che interpreta mille ruoli e ripercorre mezzo secolo di generi d’oltreoceano.
E ritorno
Come per la nazionalità dei due autori (guarda caso) italo-americani, Re Granchio si configura come un viaggio coast-to-coast che, trasvolando l’Atlantico, fa convivere due film in uno – anche se poi, come detto, la seconda metà conta almeno tre o quattro diversi registri. Due atti che potrebbero apparire effettivamente scollati, se non fosse per un finale dal sapore ciclico, che ci riporta indietro agli inizi della leggenda e ci ricorda come il vero tesoro sia dentro di noi, che rechiamo il ricordo delle persone perdute.
Un film decisamente impegnativo, che potrebbe non arrivare al grande pubblico e sarebbe potuto durare – questo sì – meno delle due ore di girato. Forse tagliando su qualche scena troppo diluita, ma di cui si accettano comunque i tempi (volutamente) dilatati, come per la lunga sparatoria da Far West. Una bobina di un’ora e mezza non avrebbe fatto un soldo di danno e anzi avrebbe fatto qualche soldo in più, staccando biglietti per un pubblico meno elitario.