Sia chiaro, nessuno di coloro che verranno citati nel seguente manifesto si è svegliato una mattina proclamando “è tempo che io compia il realismo allegorico”. Tale definizione rappresenta solamente un nostro personale tentativo di dare ordine e avvicinare film nati nello stesso tempo e sotto il segno della medesima generazione di registi, remanti verso simili direzioni stilistiche, estetiche e poetiche. E seppur la narrazione di una corrente cinematografica si esprima solitamente a posteriori, cautamente ci addentreremo nella sua esplorazione nonostante sia ancora nel mentre del suo srotolarsi.
Per farlo, necessario è innanzitutto partire con ordine.
Dunque:
A che punto è il cinema italiano? Questo controverso inizio degli anni ’20, radicalmente cambiante modi e sguardi con i quali la maniera cinematografica – e più in generale audiovisiva – si approccia alla modernità, ci ha già mostrato, e continua a mostrarci, sprazzi di un qualcosa di nuovo, seppur ancora difficilmente raggruppabile o considerabile in un’ottica ordinata e collettiva.
Salta all’occhio la riscoperta, o altresì il recupero, di codici di genere per lungo tempo assentatisi da ogni produzione italiana, con tutti o la maggior parte dei meriti riconducibili all’immenso lavoro portato avanti dalla Groenlandia Film, casa di produzione fondata nel 2014. Al suo comando, due figure che più di altre, in questo momento, reggono in mano le sorti del nostro cinema: Sydney Sibilia, autore della trilogia Smetto quando voglio e de L’incredibile storia dell’Isola delle Rose, e Matteo Rovere, regista de Il primo re e da anni figura cardine del panorama produttivo del nostro cinema.
Lo sforzo innovativo e coraggioso attuato dalla Groenlandia meriterebbe tuttavia un discorso a parte, così come tutto quel filone del nuovo cinema di genere italiano, riconducibile, oltre ai sopracitati Sibilia e Rovere, al lavoro di Andrea Paris e dello stesso Rovere nell’Ascent Film, altra giovane casa di produzione a cui si deve la realizzazione di film come il western Il mio corpo vi seppellirà di Giovanni La Pàrola, l’horror Shadows di Carlo Lavagna e l’appena uscito Mondocane di Alessandro Celli, quest’ultima coadiuvata dalla stessa Groenlandia.
Tuttavia, poniamo il focus lontano da tale rivoluzione produttiva e concentriamoci nuovamente sugli sprazzi, su quelle isole sparse e caoticamente lontane che senza rendersene conto provengono dallo stesso luogo e mirano a una simil meta.
Luoghi
I fratelli D’Innocenzo, Alice Rohrwacher, Pietro Castellitto, Fulvio Risuleo, Edoardo De Angelis, Laura Bispuri, Bonifacio Angius. Autori che nel loro tracciarsi in forme individuali, in approcci profondamente personali, raccontano storie di realtà controverse, marginali, spesso invisibili; e lo fanno servendosi inizialmente di codici iperrealisti, nella costruzione scenica, nel dialogare tra i personaggi, nelle ambientazioni regionalizzate. Che sia una Roma immediatamente riconoscibile o che si tratti di scenari periferici, quasi non-luoghi all’interno dei luoghi, la messa in scena iniziale propone realtà senza sbocchi, nelle quali i protagonisti annaspano senza prospettive d’evasione.
Microcosmi costruiti minuziosamente, la cui cornice paesaggistica assume rilevanze narrative a livello dei personaggi stessi. La contaminazione di colui che più di tutti ha incarnato la figura dell’autore da bottega, artigiano solitario che si serve di camera a mano e suono in presa diretta, è evidente: e altrettanto evidentemente stiamo parlando di Matteo Garrone.
Difficilmente i nuovi registi sopracitati non menzioneranno Garrone tra le loro ispirazioni e guide, nel caso venisse loro posta la questione. L’autore romano, in un ventennio povero dal punto di vista dell’estro e delle idee, si è fatto faro, insieme a pochi altri, di una generazione di cineasti che in questo momento sta provando a emergere, seppur ognuno seguendo la propria personale strada.
Non serve eccessiva immaginazione per trovare similitudini tra gli scenari nei quali i film del realismo allegorico trovano i loro incipit: marginalità, sospensione, spesso primordialità.
Nidi distanti tra loro, ma in qualche modo vicini, che siano i microcosmi circensi di una Napoli selvaggia costruiti da Edoardo De Angelis o i desolanti confini sardi tracciati da Bonifacio Angius. Nidi dai quali emergono volti di protagonisti estremamente caratterizzati, a sostegno di una riscoperta della scrittura dei personaggi della quale il realismo allegorico si fa baluardo – e i numerosi e meravigliosamente tratteggiati componenti degli affreschi corali di Favolacce (2020) dei D’Innocenzo e I predatori (2020) di Castellitto ne sono l’esempio principale.
Volti
Di fatto, attraverso la dilatazione dei tratti fisionomici e caratteriali dei personaggi, tale filone di film consegna al pubblico una galleria di archetipi contemporanei stilizzati nei loro affreschi, ma non per questo meno riconoscibili. Che si tratti di procedimenti quasi episodici – alla maniera in cui Dino Risi diede lo slancio decisivo alla Commedia all’italiana agli inizi degli anni ’60 -, come nel caso dei D’Innocenzo e di Castellitto, o che si tratti di un singolo protagonista sul quale brilla la luce della narrazione, come per Rohrwacher e Risuleo, tali personaggi emergono in tutta la loro insoddisfazione e malcelata frustrazione, con volti incorniciati in espressioni che vanno dall’aggressivo al grottesco, dal sognante al profondamente infelice.
Ognuna delle fisionomie che calca le scene di tale filone di film rimane profondamente impressa, quasi fosse stata disegnata a tavolino sul viso degli attori – altra lezione imprescindibilmente garroniana.
L’esempio principale è senza dubbio il personaggio scritto su sé stesso da Pietro Castellitto ne I predatori: un concentrato di ansia, insoddisfazione, estro mal indirizzato, che nella parabola meravigliosamente tracciata dal figlio d’arte romano ci si mostra come individuo fortemente condizionato da problematiche e disagi caratterizzanti la gioventù contemporanea.
Simil discorso per i personaggi scritti da Fulvio Risuleo in Guarda in alto (2017) e Il colpo del cane (2019): da un lato Giacomo Ferrara, giovane pizzaiolo annoiato e sognante che finisce per diventare guida e salvatore di un gruppo di bimbi smarriti tra i tetti di Roma; un Peter Pan contemporaneo proiettato in una dimensione che da urbana e avvilente si trasforma in immaginifica, metafora e chimera di un’irraggiungibile libertà.
Dall’altro lato, un Edoardo Pesce trasformista, quasi burattinesco nel suo cambiar d’aspetto e passare da studente universitario fuoricorso, frustrato e solo, a carismatico ed elegante truffatore: interessantissimo il lavoro corporale che Fulvio Risuleo svolge su Edoardo Pesce, a cambiarne non solo capelli e vestiti, ma anche portamento, postura, sguardo. Due individui totalmente differenti, entrambi trainati dall’inesorabile necessità di sopravvivere, nello scenario di una Roma anonima e scolorita.
Scrittura dei personaggi che va dunque a braccetto con quella delle ambientazioni: tale legame è evidente e imprescindibile, e ogni grottesca espressione o volto emergente dai contesti raccontati ne è parte irremovibile.
Di fatto, la narrazione di tali film poggia prevalentemente sullo stagnante lasciarsi vivere dei protagonisti nei loro microcosmi, illusi dalla menzognera chimera della fuga.
Emblematici in tal senso i personaggi di Favolacce e I predatori.
Si tratta di un discorso applicabile agli stessi lavori di Alice Rohrwacher ed Edoardo De Angelis, accomunati quest’ultimi da quella matrice garroniana ricollegabile alla dimensione circense, nomade e saltimbanca nella quale navigano a vista i personaggi. Rispettivamente Lazzaro felice (2018) e Indivisibili (2016), rappresentano spaccati umani dispersi, vaganti, anch’essi alla mercé della mera sopravvivenza.
Costretti quasi a fenomeni da baraccone – che sia nei non-luoghi della simil Ciociaria di Alice Rohrwacher, che sia nei contorni oscuri e selvatici della Campania di De Angelis -, i protagonisti di queste due opere sono innocenti, vergini dallo sguardo supplicante, totalmente inconsapevoli di cosa si celi al di là della loro condizione. Da una parte il candido bracciante Lazzaro, il cui volto è già emblema del cinema di Rohrwacher, dall’altra le intonate gemelle siamesi Viola e Daisy, interpretate da Angela e Marianna Fontana.
Derive
Ed è durante il racconto del quotidiano dei personaggi di tali affreschi che si ha il rovesciamento del realismo inizialmente alla base della narrazione: pur non perdendosi tuttavia il riconoscibile, viene meno la componente realistica, ovvero la verosimiglianza degli eventi che accadono e che nutrono lo svolgimento. La cornice ambientale sospesa, al cui interno tempo e spazio seguono logiche totalmente incatenate alla realtà interna dei microcosmi stessi, favorisce la contaminazione dell’assurdo e dell’irrealistico senza che tuttavia venga meno il senso stesso del reale.
Ed è tale libertà di movimento – legata imprescindibilmente alle dinamiche dei nuclei raccontati, che perderebbe totalmente di senso se traslata in qualunque altro contesto – a permettere le derive dei personaggi verso l’erranza, sia essa mentale, spirituale o prettamente fisica.
I personaggi divengono archetipi, allegorie, così come il realismo da mezzo d’indagine diviene metafora del reale stesso.
Il vagare dei personaggi rimane tuttavia senza sbocchi, circolare: tutti i finali dei film del realismo allegorico condividono elementi riconducibili all’impossibilità di giungere alla libertà, alla vita e a un idealizzato e inesistente star bene. Morte, fallimento, ritorno al punto di partenza: parabole che sfociano nel tragico, nel grottesco, accomunano nel medesimo destino archetipi umani che da contemporanei si fanno universali.
Un cinema di bimbi sperduti che affianca ai bambini le madri, i padri, i giovani e i vecchi adulti smarriti tra le pieghe della nostra generazione, in un unicum di volti impotenti, dimenticati, emarginati. Non rimane che la sopravvivenza, alla quale ci si aggrappa o ci si accontenta, sfiorata dallo spettro della morte e preclusa a ogni scorcio possibile verso il futuro.
Il realismo allegorico si erge a narrazione del nostro tempo, fiaba oscura di un’umanità caotica, smarrita, disillusa, che nell’allegoria, nell’archetipo e nell’iperbole riflette il disagio e il disadattamento di una società reale, trascinata da un susseguirsi di generazioni segnate dalla fondamentale morte di ogni morale, sempre più abbandonate a loro stesse.
E la giovane età di tutti i registi sopracitati legittima il loro essere in prima linea nel voler fare, inconsapevolmente o consapevolmente, questo tipo di cinema, come nel cinema indipendente degli anni ’90 americani fecero i vari Linklater, Korine, Larry Clark e Kevin Smith – corrente anch’essa velatamente presente nel filone del realismo allegorico. All’oscuro di ciò che l’evoluzione del nostro cinema ci porterà negli anni a venire.