Foresta amazzonica, 1560. Seguiamo la spedizione di alcuni Conquistadores spagnoli alla ricerca di El Dorado, tra questi Don Lope de Aguirre. Avvengono molte cose durante il cammino, tra le quali il tentativo di dominare la natura da parte dell’uomo che si rivela totalmente fallimentare. La foresta inghiotte i viaggiatori, li ammala, li confonde, li stordisce con i versi dei suoi abitanti e li colpisce con misteriose frecce.
Aguirre è quello che più si adatta a un ambiente selvaggio. Aguirre è il predatore, è la natura stessa nel suo essere iniqua, dura e spregevole. Ma non c’è nessuna metafora da cogliere, nessuna immagine figurata, la natura è la foresta e l’uomo è l’uomo.
Scuola tedesca, Werner Herzog si distingue da tutto e da tutti per uno stile molto semplice, naturale e poco costruito. È insomma l’opposto, registicamente parlando, di uno come Wes Anderson, ma non è un gara.
Se vogliamo fare un parallelo con la pittura, Anderson lavora in studio, circondato da modelli e raffigurazioni da cui trarre spunto per la tela. Lavora con calma e impiega tempo e precisione su ogni dettaglio della raffigurazione. Herzog decide invece di voler dipingere la foresta: va nel cuore più nascosto del Perù, si siede su una roccia piena di muschio, poggia la tela sul ginocchio e inizia a schizzare la pittura sulla carta.
Egli coglie l’istinto dei suoi attori, letteralmente li muove e li usa per fare quello che vuole. Ma quello che vuole non lo prepara, non fa storyboard per Aguirre, va nella foresta con il cast e crea scena per scena.
È completamente diverso da quello che fa Anderson. Se non l’aveste capito la cosa che più mi fa amare questo film è proprio il metodo di lavoro di Herzog, perché nel mio modo di vederla l’arte è espressività pura. Meno questa espressività è mediata e maggiore è la forza delle immagini.
Quindi vi racconto come è andata.
Una troupe composta da solo otto persone (Werner compreso) inghiottita dalla mortifera foresta amazzonica peruviana, prova a girare una sceneggiatura abbozzata e priva di qualunque tipo di storyboard. Il film Herzog lo ha scritto in due giorni, principalmente sui sedili posteriori del pullman su cui viaggiava con la sua squadra di calcio. Un compagno gli ha persino vomitato su alcune parti, e lui si è limitato a buttare i fogli rovinati dal finestrino e ripartire da dove era rimasto perché «troppo ubriaco per ricordarmi cosa avevo scritto».
Dopo aver completato il testo lo invia a Klaus Kinski, un attore fuori di testa che aveva conosciuto anni prima a casa della madre, e il cui solo ricordo ancora lo turbava. Questo lo chiama nel cuore della notte urlando, la sceneggiatura gli è piaciuta e vuole il ruolo di Aguirre.
È l’inizio di un lungo sodalizio artistico, una collaborazione che andrà avanti per i successivi quindici anni, rendendo Kinski la pura rappresentazione delle inquietudini di Herzog, il protagonista essenziale, l’attore per antonomasia.
«Si va in Perù con una telecamera 35mm rubata all’accademia del cinema di Monaco, giriamo tutto in ordine cronologico, così la recitazione cresce con il crescere dei personaggi, evitiamo problemi di continuità e se qualcuno impazzisce e se ne va lo facciamo morire. Gli abbandoni sono un grande problema quando giri in low budget nella giungla, beh oltre ai numerosi animali velenosi e aggressivi, le malattie contagiose e il generale stato di precarietà in cui versa l’intera troupe.»
(Werner Herzog)
Quando dopo un litigio Kinski minaccia di andarsene. Herzog prende una pistola, gliela punta in testa, e gli dice che non ci vuole molto a far passare la sua morte come un incidente di caccia. Kinski ci pensa e alla fine resta, sfoga tutta la sua frustrazione sulla moglie vietnamita e sulle saltuarie camere d’albergo. Ma soprattutto nella recitazione, sempre sopra le righe, eccentrica e semplicemente geniale.
Aguirre cammina come un aragosta, su esplicita richiesta del regista. I movimenti del personaggio non sono mai chiari e lineari: se ad esempio deve fare un passo in avanti ne fa prima due indietro e poi tre in avanti. Ingobbito e sporco scruta con quest’aria da pazzo perseguitato tutto ciò che lo circonda. Quello che lo circonda è tropicale e alienante contemporaneamente, quell’atmosfera precaria e maledetta che ispirerà Francis Ford Coppola per il suo Apocalipse Now. Il nemico è ovunque, nascosto nella foresta. Un nemico che non si vede mai, qualche popolazione indigena probabilmente, o forse non c’è nessun nemico, forse è la giungla che ci fa impazzire.
Quello che succede nella realtà inevitabilmente succede anche nel film, quindi se il fiume rompe gli argini durante la notte e si prendono le zattere, questo succede anche alla spedizione di Aguirre. E se è necessario ricostruire quelle zattere per questioni di trama, già che stiamo le facciamo ricostruire agli attori e filmiamo tutto. Geniale.
Il finale è una perla del cinema europeo contemporaneo.
Guardate Aguirre, il furore di Dio.
«Se io, Aguirre, voglio che gli uccelli cadano fulminati, gli uccelli devono cadere stecchiti dagli alberi. Sono il furore di Dio, la terra che io calpesto mi vede e trema.»