Orizzonti di gloria – La prima guerra di Kubrick
Prima Guerra Mondiale. Il peso di una complessa quanto improvvisata operazione militare passa di sottoposto in sottoposto fino al comandante Dax (Kirk Douglas). Questo, nonostante la quasi certa perdita di gran parte dei suoi uomini e nonostante l’esito sia del tutto incerto, si vede costretto ad accettare a causa delle pressioni esercitategli dal generale Mireau.
L’operazione sarà un disastro.
Orizzonti di gloria è un titolo ironico. Tale sfumatura ce l’aveva già nel romanzo di Humphrey Cobb, il quale aveva ripreso il titolo Paths of Glory da un verso di Thomas Gray: «i sentieri della gloria non conducono che alla tomba».
Infatti la gloria che dovrebbe spingere i soldati in guerra spinge prevalentemente i comandanti, disposti a tutto pur di non ammettere che una particolare missione sia impossibile da compiere.
Dovevano prendere l’imprendibile avamposto tedesco, nominato “Formicaio”, a qualunque costo.
D’altronde cos’è la vita di un soldato davanti alla gloria dell’intera nazione?
Cos’è il singolo in una moltitudine che aspetta solo il proprio turno per morire?
Orizzonti di gloria è una chicca non da poco. In soli ottantotto minuti Stanley Kubrick ti trasporta, sporco di fango, al fianco dei soldati in prima linea, nelle fredde trincee della Prima Guerra Mondiale, descritte da memorabili lunghe carrellate che seguono a passo i tour del generale Mireau prima e la marcia del comandante Dax dopo.
Trincee e salotti, in una duologia di locations aspramente paradossale quanto reale. Nei salotti si decide cosa succederà nelle trincee. Invece in un costante susseguirsi di contrasti fotografici e sociali, la trincea diventa metafora e assorbe le inquietudini di chi la popola; i sogni diventano speranze, la speranza di morire senza soffrire troppo.
Il comandante Dax le percorre entrambe; è lui il filo tra i due mondi, l’eroe classico. Dax è l’elemento positivo, fa il possibile per gli uomini che gli sono stati affidati. Sfida le convenzioni e i suoi superiori, perché sente che l’umanità dei singoli si sta perdendo dietro le ideologie patriottiche dei pochi al comando.
Dopo il fallimento dell’operazione viene messo su un processo. Ogni reggimento sceglie un soldato, che viene processato. Dax, che prima dello scoppio della guerra casualmente era proprio un avvocato, si offre volontario per difendere gli imputati.
Kubrick non inventava i suoi film di sana pianta. Solitamente leggeva un libro che gli piaceva, lo rileggeva, magari anche un’altra dozzina di volte, dopodiché lo trasformava in una sceneggiatura, aggiungendo considerazioni di natura personale, personaggi o anche cambiando radicalmente parti della trama.
Orizzonti di gloria è del 1957. Nonostante la ferma, fredda e dura critica e condanna nei confronti della guerra, dello Stato e dell’uomo in generale, il personaggio del comandante Dax rappresenta comunque una voce di speranza, il bene nel male.
Tale figura emblematica sarà completamente assente in Full Metal Jacket, sempre Kubrick ma nel 1987. Trent’anni in cui il regista non ha cambiato opinione anzi, in questi trent’anni l’America è cambiata. La Prima Guerra Mondiale non è il Vietnam. Non sono neanche lo stesso campo da gioco.
«Questa fotografia sarà sempre una buona fotografia, non ho bisogno di aspettare cinquant’anni per saperlo, lo so anche adesso»
(Kirk Douglas)
Effettivamente il bianco/nero di George Krause è estasiante, accentua i contrasti e crea un sorta di patina sull’intera pellicola. Così le figure si staccano ulteriormente dallo sfondo, dalle trincee composte di legno e fango, dal campo di battaglia, che ci appare come un oceano di fango agitato dalle granate nemiche, e dagli sfarzi ricchi di dettagli e di piante dei salotti dei generali.
Oltre alle già citate lunghe carrellate nelle trincee, la regia alterna rapidi scatti e primi piani dal basso verso l’alto a lunghe riprese cariche di tensione. Si avverte immediatamente l’alto tasso tecnico della regia, già matura e avanzata.
D’altronde Orizzonti di gloria è il quarto film girato da Kubrick e il primo a portarlo davvero alla ribalta, essendo considerato il primo capolavoro indiscusso del regista.
Kirk Douglas che, oltre a essere l’interprete principale del film, era anche il produttore, insistette per il finale originale, contro la volontà di Stanley che era più indirizzato verso un lieto fine, e contro la logica dei distributori del tempo. Questi infatti ne ostacolarono l’uscita in Europa: in Germania arrivò nel 1960, in Francia non prima del 1975 e in Spagna addirittura nel 1986 (inspiegabilmente tra l’altro, in quanto gli avvenimenti narrati riguardano l’esercito francese e la Spagna non viene nemmeno mai nominata).
Comunque sia, nonostante il finale non proprio a lieto fine, che non vi svelo, nel finale finale, nell’ultimo minuto di film più o meno, c’è una scena molto significativa. A causa del format “ti presento un film non ti faccio spoiler così poi lo vedi fidati vedilo’’, non entrerò nei dettagli, ma mi limiterò a dire che a parer mio è un po’ quella la firma, quel segno che lascia l’artista sulla tela per dire c’est moi.
Ed è proprio un Kubrick quella scena, perché ti mostra che, anche dietro tutte le divise, il sangue e il fango del mondo, c’è un qualcosa capace di farti provare emozioni, tipo la ghiandola pineale di Cartesio, ed è qualcosa che hanno tutti gli uomini, indistintamente.
Comandante Dax: « Il patriottismo potrà essere fuori di moda, ma là dove c’è un patriota c’è un uomo onesto. Ma non è stata sempre l’opinione di tutti. Samuel Johnson disse qualcosa di diverso sul patriottismo» .
Generale Mireau: «Cosa, se posso chiederlo?»
CD: «Nulla, generale».
GM: «Che intende dire, nulla?»
CD: «Nulla, niente di molto importante».
GM: «Colonnello, quando io faccio una domanda è sempre importante. Dunque, chi era quest’uomo?»
CD: «Samuel Johnson..»
GM: «Benissimo. Dunque, che cosa disse del patriottismo?»
CD: «Che era l’ultimo rifugio delle canaglie. Mi scusi, nessuna allusione personale».