
Nel 2007 David Fincher ha lavorato ad un prodotto complesso, ricco di mistero e pienamente corrispondente al suo modo di concepire il genere thriller: Zodiac. Il regista, noto all’epoca per aver diretto principalmente Alien 3, Se7en e Fight Club, si è fatto conoscere al grande pubblico senza rinunciare ai suoi integralismi tecnici che lo hanno a più riprese fatto considerare un maniaco dei dettagli. Infatti, Fincher predilige delle tecniche di direzione e, in generale, di produzione che gli consentono di rappresentare con la massima precisione tutto ciò che si può osservare nella scena. Inoltre, e questo è un fattore indissolubile, le storie che rappresenta hanno una squisita complessità di sviluppo.
Zodiac è un film che nasce come adattamento cinematografico dei due best-sellers, a loro volta descrittivi della vera storia del Zodiac Killer, dell’autore Robert Graysmith (Zodiac e Zodiac Unmasked), interpretato da Jake Gyllenhaal, un fumettista che a cavallo tra gli anni ’60 e ‘7o lavorava presso il San Francisco Chronicle, giornale destinatario delle lettere del sedicente “Killer dello Zodiaco”. Nel giornale lavorava alla cronaca nera Paul Avery (interpretato da Robert Downey Jr.) e a capo delle indagini c’era l’ispettore Dave Toschi (Mark Ruffalo); si può affermare, dunque, che Graysmith è inizialmente osservatore e poi diventa protagonista della lotta contro il killer la cui identità, ad oggi, è ancora sconosciuta.

Quest’ultimo dato ci deve far riflettere su come Fincher abbia trovato terreno fertile per costruire, su una storia vera, quegli elementi indispensabili per il thriller: la suspense e la paranoia. Quello che questo serial killer ha fatto dal 4 luglio 1969 (data del primo omicidio), l’invio delle lettere al S.F. Chronicle con codici crittografici da risolvere e soprattutto il fatto di non essere mai stato arrestato creano un affascinante aurea di mistero attorno a tutta la storia e, nel film e nella realtà, Graysmith è diventato paranoico e ossessionato dal fatto di voler scoprire chi fosse l’assassino. Come si riversa questo tra gli spettatori?
La tecnica narrativa usata da Fincher è quella di rendere lo spettatore conscio dello sviluppo degli eventi alla stessa maniera in cui lo sono i protagonisti del film: noi non sappiamo chi sia Zodiac nè conosciamo sviluppi sull’acquisizione della sua identità che siano maggiori rispetto alla conoscenza di Graysmith, Toschi o Avery. Questo è uno dei motivi per cui la scena nello scantinato è praticamente perfetta. Siamo in una fase inoltrata del film, ormai sono anni che la polizia non ha notizie di Zodiac e l’unico che sembra davvero interessato a risolvere il caso è il giovane Graysmith, il quale è riuscito ad ottenere un incontro con un uomo che aveva lavorato nel 1969 con un potenziale sospettato, Rick Marshall.
I sospetti su Marshall (mai abbastanza netti da permettere un mandato per qualche perquisizione) erano principalmente basati sul fatto che la sua calligrafia fosse la più vicina a quella di Zodiac, come emergeva dai manifesti cinematografici che aveva disegnato e scritto in quegli anni. O almeno, così si credeva. Graysmith infatti viene invitato nell’appartamento di Bob Vaughn, questo collega di Marshall, il quale gli rivela che in realtà è lui ad aver sempre scritto i manifesti. Nel film, questa scena rappresenta una climax incredibile; infatti, l’arrivo nella casa di Vaughn sembra piuttosto tranquillo visto che Robert sta semplicemente sperando di acquisire nuove informazioni e, di conseguenza, anche il pubblico è poco teso. I movimenti di camera, tuttavia, iniziano ad intensificare il campo-controcampo fino alla rivelazione di Vaughn:
“Sono io che ho scritto quei manifesti”.





