Andare a vedere un film Pixar, dopo 20 anni di assoluto dominio dell’industria dell’animazione, è un’esperienza strana. Si parte dal pensare al pedigree della compagnia, dei classici intramontabili a cui il prossimo andrà ad essere paragonato, poi segue lo scetticismo: “non è possibile che questo film sarà bello come gli altri. Speriamo sia buono abbastanza, almeno.”. Sono entrato dentro la sala con questa idea, e ne sono uscito con un’altra: allo scetticismo segue il rimpianto, per aver dubitato dei talenti della Pixar e degli operai della loro fabbrica dei sogni.
Coco, pur non essendo intellettualmente ambizioso come il più recente classico, Inside Out, è una gemma di creatività ed emozioni, da non sottovalutare.
Il film vede protagonista il giovane Miguel, ragazzino messicano appassionato di musica, costretto a dover nascondere la sua passione dalla sua famiglia di calzolai, che non tollerano per via di un parente che abbandonò la famiglia alla ricerca di gloria con una chitarra in mano. Attraverso un incidente durante il “Dià des Muertos”, festa messicana durante la quale si crea un ponte tra il mondo dei vivi e l’aldilà, Miguel raggiunge il mondo dei morti e si ostina a trovare il suo avo chitarrista, cercando anche di tornare dalla sua famiglia.
A primo impatto la trama si presenta con un impianto molto classico, tant’è vero che il primo atto scorre abbastanza lentamente, per garantire l’introduzione della famiglia di Miguel e delle loro tradizioni. Tuttavia, il ritmo più lento consente di far assaporare l’atmosfera casalinga per poi sottolineare il contrasto con il magico aldilà: ergo, lamentarsene sarebbe come lamentarsi del Kansas ne “Il Mago di Oz”.
Inoltre è da lodare la cura e il rispetto con cui gli autori hanno introdotto frammenti della cultura messicana: dagli artisti ai Mariachi, passando anche per i Luchàdor e gli Alebrijes, Coco permette allo spettatore di assaporare i Mythos della nazione senza deragliare il percorso della narrativa, marchiandola come una storia messicana prima e poi come film Pixar.
Dal punto di vista tecnico, la palette dei colori esplode in contrasti di blu e arancio, contemporaneamente spettrali, alieni ma caldi e confortanti. Il design dell’Aldilà comunica l’idea di una società viva, palpabile, chiaramente studiata a tavolino, e non fallisce mai nel far sorridere e sorprendere lo spettatore.
La colonna sonora, chiaramente di vitale importanza per un film basato sulla musica, è di altissimi livelli, capace di esaltare e commuovere con poche note. Da lodare anche la scelta del doppiaggio di lasciare alcune canzoni nell’originale spagnolo, che implica una sensazione di intimità, nel momento in cui i personaggi decidono di cantare nella loro madrelingua.
I pregi a livello tecnico ed estetico sono innumerevoli, ma senza una sceneggiatura interessante e coinvolgente altri film cadrebbero facilmente nel dimenticatoio. Fortunatamente Coco si presenta come un film apparentemente semplice ma con un paio di sorprese nascoste perfidamente nel tessuto della trama.
Dare per scontato alcune cose nella narrativa vuol dire ricevere uno schiaffo in faccia nel terzo atto, che ricontestualizza l’intero film, alzando la posta in palio in maniera incredibile, portando a una sequenza finale che nel momento in cui si risolve lascia lo spettatore con così tante emozioni contrastanti da assicurare le lacrime in sala, a metà tra la gioia e la nostalgia.
Come molti film Pixar, Coco punta al cuore e alla mente, sottolineando quanto non dovremmo dare per scontato le cose a noi care, e come dimenticarle può portare a cancellare parte di noi stessi.
Il film si imbeve del potere dei ricordi per stuzzicare la nostra memoria, nello stesso modo in cui la memorie del piccolo Miguel, della sua Abuelita e dei suoi parenti vengono stuzzicate.
Si tratta di una storia potente, che merita di essere vissuta e ricordata, per aiutarci a ricordare, vivere e lasciar vivere i ricordi.
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P.S: malauguratamente, insieme al film è stato distribuito un corto di 20 minuti basato su Frozen e sulle avventure di Natale di Olaf il pupazzo di neve. Il corto, per via della sua durata e per la natura talmente diversa da quella del film per cui si è pagato il biglietto, risulta incredibilmente irritante e fastidioso.
Ora, in quanto amante del cinema, sostengo sempre la superiorità dell’esperienza in sala. Tuttavia, non biasimerei chi volesse attendere l’uscita del film in Home video per poter saltare liberamente il corto.
Lascio a voi la scelta, ma era giusto avvisarvi: dopo la quarta canzone di fila dopo 10 minuti, ero tentato di tagliarmi un orecchio usando la cannuccia della mia Coca e firmarmi da quel momento in poi come Van Gogh.